storie importanti (2)

Scritto da il guardiano il 25 Febbraio, 2009
grandi autori / 1 Commento

[…] Andarono dall’ammalata. Di solida costituzione, alta, ben formata, ma brutta, somigliante a sua madre, con gli stessi occhietti e la parte inferiore del viso larga e troppo sviluppata, con i capelli in disordine e il lenzuolo tirato sino al mento, la ragazza diede a Korolev, di primo acchito, l’impressione di una creatura infelice e inferma, raccolta per pietà. Non si poteva credere che fosse l’erede dei cinque enormi edifici di quella fabbrica. “Veniamo per curarvi”, disse Korolev “buon giorno, signorina”. Si presentò dicendo il proprio nome e stringendole la mano: una grande mano, brutta e fredda. Essa si sollevò e avvezza evidentemente da molto tempo ai medici, indifferente al fatto che le sue braccia e le sue spalle fossero scoperte, si lasciò auscultare. “Ho delle palpitazioni”, disse. “Tutta la notte, è stato terribile… Sono quasi morta di spavento. Datemi qualcosa, perché finiscano…” “State tranquilla, vi darò qualcosa”. Korolev la esaminò e alzò le spalle. “Il cuore è buono,” disse “tutto va bene, tutto è in ordine. I nervi sono un po’ scossi; ma è cosa talmente comune… La crisi, io credo, è già passata. Stendetevi e dormite”. In quel momento, portarono una lampada. L’ammalata battè le palpebre, e a un tratto, prendendosi la testa tra le mani, si mise a piangere.
L’impressione di un essere infelice e brutto scomparve. Korolev non fece più caso a quei piccoli occhi, alla parte del viso sviluppata in modo anormale; egli vedeva una dolce espressione di sofferenza, tanto ragionevole e commovente, ed ella tutta gli appariva slanciata, femminile, semplice, e avrebbe voluto calmarla non con le medicine, ma con una parola affettuosa. La madre attirò a sé la figlia e le bacio il capo: sul suo viso, quanta disperazione, quanto dolore!
[…] Ambedue piangevano tristemente. Korolev, sedutosi sulla sponda del letto, prese la ragazza, per una mano. “Smettete di piangere” le disse in tono carezzevole; “c’è ragione di piangere? Non c’è nulla al mondo che giustifichi queste lacrime! Suvvia, non piangiamo più, non bisogna…”
da “Un caso di pratica medica” di A. Cechov.

il guardiano

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viaggi quotidiani: mezzogiorno in Tunisia

Scritto da Trilly il 19 Febbraio, 2009
cronache / 1 Commento

L’autunno si era ormai annunciato da qualche settimana con i suoi colori particolari: foglie gialle sugli alberi, il primo freddo e giorni di pioggia accompagnati ormai quotidianamente da temporali quasi equatoriali.
Pioveva a dirotto quel giorno.
Papà Nasser mi aveva chiesto una visita domiciliare per sua figlia Hergere che vomitava da un giorno ed aveva febbre alta.
– A che ora viene dottoressa?-
– Quando ho tempo, comunque prima di sera – gli risposi frettolosamente e forse non molto educatamente.
Alle 12,30 comunque ero a casa sua.
Un odore intenso, di spezie africane inondava la casa, il vapore del cibo che bolliva nella pentola aveva appannato tutti i vetri.
Mi tolsi il cappotto.
Il tepore della cucina mi accolse insieme al sorriso aperto e riconoscente di Nasser.
La bambina era sdraiata sul divano: il viso pallido, un po’ sofferente.
La tazza del tè appoggiata sul tavolo, lì vicino.
-Dato da bere a piccoli sorsi, come hai suggerito – mi assicurò la mamma.
Visitai la bambina, mi sorrideva, giocava con i giochi che le avevo messo tra le mani.
Assicurai i genitori: era soltanto una gastroenterite virale. Un giorno di dieta liquida e leggera, una soluzione di sali minerali e la nostra Hergere sarebbe stata decisamente meglio.
Stavo per rimettermi il cappotto quando Nasser mi invitò a sedermi a tavola.
Aveva cucinato il Kus Kus per me.
– Una volta mi hai detto che ti piace tanto.
– Alle 13 devo essere in ambulatorio – mormorai imbarazzata, cercando di rifiutare l’invito.
– Non ci vorrà molto, sono le 12.40 e c’è tempo.
Accettai con un sorriso.
Mi fece accomodare sul tavolo in cucina.
La moglie aveva apparecchiato con cura solo per me.
– E voi? –
– Noi mangiamo dopo, ora facciamo compagnia a te – mi dissero sedendosi al tavolo con me.
Era veramente squisito e francamente quel Kus Kus stava ristorando non solo il mio corpo, ma soprattutto il mio cuore.
Al termine del pranzo mi offrirono un’arancia sbucciata a forma di fiore.
Completai il pranzo e poi li salutai commossa.
Tutto velocemente, in venti minuti, ma quanto bastava.
La primavera era ritornata a rifiorire dentro di me, anche se fuori continuava a diluviare.

Riflessione: Per tutti i momenti in cui mi sento orfana nella mia giornata, per tutti gli sputi invisibili di molti, la riconoscenza e la semplicità di Nasser e di sua moglie è qualcosa che nessuna somma in denaro potrebbe mai uguagliare.

Trilly

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cosa si sarebbe potuto fare di più?

Scritto da folfox4 il 14 Febbraio, 2009
racconti / 2 Commenti

Cosa si sarebbe potuto fare di più ?
E’ una domanda che spesso mi ritorna quando è andata male. Dopo 20 minuti di rianimazione do lo stop: “basta ragazzi … è morto; fine.”
Feed-back positivo: “come al solito tutti bravi, e poi era veramente oltre il limite, anzi, troppo siamo riusciti a fare, bravi, bravi tutti davvero.”
Spengo respiratore e monitor; è il segnale, il rito è finito, una specie di ‘ite missa est’ molto ruvido.
Sono le 4.00 del mattino, mi affaccio un minuto fuori.
Piove fitto e sottile, l’aria è calda.
Al mio ospedale lo scirocco arriva dritto dal mare e ne porta l’odore.
Respiro profondo, debbo avvertire la madre e il padre; rientro.
Antonello aveva 16 anni, era malato di leucemia linfoide acuta.
Ricoverato in ematologia per un ciclo chemioterapico; improvvisa crisi aplastica midollare indotta dai farmaci antiblastici; conseguente shock settico e multipla insufficienza d’organo.
Entrato in rianimazione circa 12 ore prima, era stato sottoposto a tutti i trattamenti e le procedure del caso; 16 anni e una leucemia in fase di controllo lo impongono.
Risolta la sepsi, poteva ancora farcela.
Le infermiere stanno ricomponendo la salma.
I loro volti dicono, già a 30 anni, la delusione e la voglia di fare altro nella vita.
Ma solo noi sappiamo com’è quando qualcuno sputa l’anima.
Il cerchio si chiude e questo è il nostro carico.
In fondo, è sul confine dell’intimità con la morte che sono costruiti i nostri rapporti e forse per questo ci amiamo ma non amiamo incontrarci fuori.
Fuori dobbiamo provare a fare la corsa come tutti gli altri.
Il tubo endotracheale e la sonda nasogastrica sono stati rimossi; il volto appare disteso, non più deformato; il pallore conferisce alla fisionomia una luce lunare.
Antonello, Antonello …

[il medico]

Pronto? Parlo con casa … ?
Signora buonasera, qui è l’ospedale San …, sono il dottor …, sono il medico di guardia della rianimazione, lei è la mamma di Antonello ?
Signora, le condizioni di suo figlio sono peggiorate …
Si signora, la situazione è precipitata …
Vi consiglio di venire subito in ospedale …
Vi apetto.

Burocrazia: compilo le schede di morte, chiudo la cartella, firmo, telefono alla camera mortuaria :
“è il centro di rianimazione, sono il medico di guardia, c’è una salma, no niente autopsia, mi raccomando entrate dall’altra porta e aspettate che i parenti abbiano visto il cadavere; grazie, a dopo. Ah! Credo che ce ne sarà anche un altro; si, eventualmente richiamo io … è una brutta notte.”
I genitori sono arrivati.
Camice.
Vado ad aprire; li faccio accomodare nel salottino dove si danno le informazioni.
Locale 3 metri per 3, pareti gialline, poltrone blu, neon.

[il medico]

Accomodatevi prego …
No signora, no, Antonello è morto poco fa, non ce l’abbiamo fatta, mi dispiace …
Un arresto cardiaco irreversibile nonostante tutti i tentativi …
No signora non faccia così adesso …
Aspetti, si sieda …
Adesso ci vuole tutta la forza, vi prego di resistere ora …
Si certo che lo potete vedere, è ancora qui …
Ecco, si accomodino da questa parte, è in questa stanza …
Certo che potete stare un po’ con lui …
Qui ci sono delle sedie …
Io sono qui fuori, vi aspetto, sono a vostra disposizione.

Esce il padre.

[il medico]

Mi creda, siamo davvero desolati, speravamo di poter fare di più ma non ce n’è stato neppure il tempo …
La ringrazio, la ringrazio a nome di tutti, in particolare dei ragazzi dentro; sa, anche per loro è dura, anzi forse lo è ancora di più, sono tutti infermieri molto giovani …
Per noi sono sconfitte pesanti …
16 anni sono davvero pochi per morire …
Si, in camera mortuaria riceverete le informazioni necessarie per il funerale e tutto il resto.

Esce la madre.

[il medico]

Si signora ha ragione, il cancro è una malattia tremenda, in certi casi non da neppure tempo di capire cosa stia succedendo …
Si, si certo io sono medico e lo dovrei sapere meglio di voi, ma …
sa com’è, la vita fa strane sorprese e non guarda tanto per il sottile …
siamo tutti uguali e la professione c’entra poco …
tutti siamo a rischio di qualcosa e …
anch’io, come gli altri, lo sono …
beh, in un certo senso …
come posso dire …
Non piange più ora signora ha visto ? Parlare aiuta …
Coraggio …
Sedete ancora un pochino, volete ?
Come dice ?
Stavo io dicendo qualcosa ?
Non so, non ricordo …
Ah si, le sorprese della vita …
Ma …
Se me lo chiede in forma così diretta …
No, la lasci dire signor … le donne sanno gestire molto meglio di noi queste situazioni sa ?
Si …
anch’io signora, anch’io …
In una forma meno aggressiva di quella di Antonello, ma anch’io …
È anche per me un momento un po’ speciale; si Antonello è andato via per un male che io stesso ora ho …
Se ne voglio parlare ? Di cosa signora ? Del mio male ? Ma vostro figlio è morto e …
Non so, mi sento in imbarazzo … sono a disagio …
Se mi voglio sedere con voi …
Va bene, mi siedo anch’io …
Ecco …
Se posso parlarle della morte e del dolore …
Si, certo …
Però io sono un medico non un filosofo o un prete, non saprei …
Va bene, allora potrei dire che …

Potrei dire che è impossibile consolare con parole chi resta solo per la partenza senza ritorno di un proprio caro; è già tanto difficile quando chi va via lo si sa ancora vivo.
Il posto rimasto vuoto annichilisce l’anima; una sedia, una poltrona, un letto, una stanza sono tutto ciò che rimane.
Ma quel posto è ancora occupato nella nostra memoria, rimane dedicato a chi se n’è andato; eppure, sappiamo anche che resterà irrimediabilmente vuoto.
E il silenzio di quella voce che non risuona più fa trasalire come un colpo di vento.
Nell’arco di una vita, per breve o lunga che sia, ognuno fa quello che può cara signora; questo significa dover procedere miseramente per tentativi ed errori come afflitti da un’insanabile zoppia, e tutti sappiamo quanto sia salato il pane di ogni esistenza.
Non diversamente credo abbiate fatto voi con umiltà ed onestà per la vostra stessa vita e per quella di Antonello, finchè avete potuto.
Quindi, mi raccomando, nessun rimorso o recriminazione.
Tutto il dovuto è stato dato.
Tutto si è compiuto.

Però io penso – sempre da laico – che la morte non sia solo questo.
Io penso che la morte sia l’ultimo strazio per pagarci l’ingresso in una zona franca dove finalmente poterci liberare di ogni promiscuità, sorridere col cuore, guarire dalle piaghe del nostro corpo, dimenticare la volgarità di ogni piccola o grande miseria, tirare il fiato dopo l’umiliazione dell’ansimo.
Oggi questo mi sembra di poter dire d’aver visto, sia pure per un momento, dipingersi sul volto di vostro figlio e di tutti gli altri morenti prima di lui: la sensazione di una fatica inenarrabile finalmente conclusa, con buona pace di chi rimane.
Come se, proprio poco prima di morire, fosse possibile cogliere il senso di quell’evento splendido, terribile ed inspiegabile che è la vita; come se fosse finalmente possibile leggere e comprendere il misterioso segno con cui il destino ha marchiato la nostra schiena fin dall’inizio.
Ora debbo tornare dentro … Ho gli altri pazienti …
Grazie, grazie davvero, grazie di tutto … Mi spiace …

Il chiasso di tre cose
Va per il mondo sopra oceani, nevi,
terre di siccità e risaie:
e nessuna membrana dell’udito
lo cattura, il chiasso di tre cose.
Il chiasso del sole che va per il cielo,
il chiasso della pioggia
quando il vento la stacca dalle nuvole
e il chiasso dell’anima
da un corpo che la sputa

dalla Bereshìt Rabbà

folsfox4

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i tempi della saggezza

Scritto da il guardiano il 09 Febbraio, 2009
pensieri / 7 Commenti

Sicuramente non sarò io a dire qualcosa di nuovo sul caso di Eluana. Il fatto è che sono indignato e stufo di sentirne parlare. Indignato perché trovo veramente squallido l’accanimento con cui persone di ogni sorta si sentono in dovere di dire la loro pretendendo ascolto e ragione. Mi chiedo cosa c’entrino giornalisti, politici, scrittori, opinionisti, sacerdoti, vescovi, con la malattia di Eluana, con il dramma suo e della sua famiglia. Che diritto hanno di interferire con scelte private, giustificate nei mezzi e nei modi da giudici e scienziati, oltre che da una profonda sofferenza?
E poi sono stufo di sentire incompetenti pontificare su temi tanto delicati e tanto vicini al mio lavoro. Non c’è discussione peggiore che quella con interlocutori ignoranti e prepotenti. D’altra parte tacere e fare finta di niente non si può. In qualche modo bisogna manifestare il proprio dissenso verso una politica demenziale che vuole opporre a presunti “vuoti legislativi” frettolosi e inaccettabili rimedi. Pensare ad una legge che mi chiederà di curare chi non vuole essere curato, che mi obbligherà a somministrare farmaci e trattamenti invasivi a chi lo rifiuta, che mi renderà sordo alle testimonianze di amici e famigliari di un paziente incosciente, mi riempie di sdegno e di spavento. E non penso di essere l’unico.
Certo, bisognerebbe affrontare seriamente il problema del testamento biologico, delle direttive anticipate, della limitazione delle cure, ma non è il clamore spettacolare di un signolo caso che deve guidare il dibattito, non è il delirio di una ristretta cerchia di eletti che può farsi portavoce di verità assolute.
Mi auguro solo che tutto questo abbia una fine. Spero che Eluana venga lasciata in pace. E voglio continuare a fare il mio lavoro senza sentirmi un assassino solo perché ho sedato pazienti che stavano morendo, ho negato il ricovero in rianimazione ad ammalati che ritenevo non avessero la possibilità di farcela, ho rispettato la volontà di chi non voleva essere intubato o tracheostomizzato.

Bisogna attendere tempi migliori per affrontare queste storie con vera saggezza.

il guardiano

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una madre, un figlio

Scritto da Rachele il 05 Febbraio, 2009
testimonianze / Nessun Commento

Neang San è un ragazzo di 22 che arriva in pronto soccorso per una ferita penetrante al torace e all’addome dovuta a un bambù che lo ha trapassato come una lancia. Sono casi frequenti perché i bambù sono materiali molto resistenti e utilizzati nella costruzioni delle case. Ci rendiamo subito conto che si tratta di un caso molto grave e decidiamo di operarlo immediatamente per escludere lesioni interne. Purtroppo aperto l’addome la situazione appare quasi disperata: diaframma lacerato e una lesione gravissima al fegato che richiede una resezione e un packing per controllare l’emorragia. Solo in sala trasfonde 12 sacche di sangue. Ne esce comunque vivo anche se in condizioni critiche. Con il chirurgo parliamo alla madre e al padre, ci andiamo giù molto pesanti, non vogliamo dare quasi nessuna speranza, la mortalità di casi come questi da noi, in una vera e propria terapia intensiva e con la possibilità di trasfondere plasma, piastrine, fattori della coagulazione sarebbe comunque altissima… Il nostro inglese è tradotto in khmer, le parole cadono come macigni, pesantissimi, la madre si copre il viso, si inginocchia e comincia a piangere, ci guarda cerca qualche speranza… vorrei dirle che forse…, magari ce la fa, insomma è uscito vivo, chissà… voglio anch’io convicermi… Finchè è vivo, ci diciamo, facciamo tutto quello che qui possiamo fargli, un infermiere dedicato solo a lui che registra ogni modificazione dei parametri. Continua a sanguinare e lo trasfondiamo ancora… Lui è perfettamente cosciente, ci guarda avvicinarci al suo letto con due occhi grandi e scuri con un’espressione che non si dimentica… La madre gli è accanto e segue ogni nostra azione, lo vede sveglio, che gli parla, ci chiede se proprio non c’è nulla che si possa fare… La guardo… gli bagna le labbra secche, gli copre la fronte con degli asciugamani bagnati, gli strofina le mani e i piedi freddi… Passano 48 ore… in cui lo abbiamo rincorso tra liquidi e trasfusioni per tenergli su la pressione e la diuresi, si chiamano parametri vitali, sono solo numeri… quel drenaggio nel torace che continua a riempirsi inesorabilmente ci dice che il sanguinamento c’è sempre e che la nostra battaglia per la sua vita non lascia molte speranze. E’ sul letto operatorio per la seconda volta, sempre cosciente che ci guarda con quegli occhi… e penso che forse il mio sarà l’ultimo volto che vedrà… vorrei invece che fosse quello della madre. Si sveglia anche questa volta, ma la situazione è disperata, il sangue trasfuso, siamo ormai a 24 sacche di sangue, non contiene quello che serve per la coagulazione, qui non abbiamo il plasma e ricomincia a sanguinare… Ha lottato come un leone fino all’ultimo, ma non c’è più nulla da fare, la madre gli è accanto, lo accarezza, anche se è sedato gli parla dolcemente senza piangere e senza fermarsi mai e continuerà a parlargli anche dopo che gli infermieri l’hanno preparato e avvolto nei teli bianchi…

Rachele

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la luce delle stelle

Scritto da Pentothal il 29 Gennaio, 2009
emozioni / 6 Commenti

Come un rito, a fine guardia, ti avvicini al lavabo e ti lavi via la notte dalla faccia, uno sguardo allo specchio una carezza alle occhiaie e sei fuori, la luce appare irreale e morbida ma sempre troppo forte per i tuoi occhi rossi.

Le ruote della macchina fischiano sul cemento liscio del parcheggio sotterraneo che mi aspetta dopo due notti e due giorni di lavoro. Sistemo la macchina quasi senza sforzo. Di inerzia e consuetudine, a volte, ne vivono anche i motori e le apparecchiature elettroniche. Come i tasti del computer che sono leggermente più consumati su lettere che indicano certe parole. Come liberta’ pace e pane.

Le stelle vibrano stanotte. Un cielo terso, limpido. La luna piena rende più azzurro tutto lo spazio sopra la città di pietra. Altrove nello spazio, che sia la notte nera.
Qui tutto brilla. Emette bagliori. Forse le esplosioni di gas, le scariche di energia e le forze oscure che regolano l’universo. Ma ogni cosa traspare armonia, in questo viaggio fra un tramonto arancione ed un’alba che si prospetta viola e porpora, in una notte un po’ speciale.

Difficile essere freddi di fronte a quello che tu hai vissuto, che il pianeta ha vissuto, l’affermazione tangibile di un miracolo laico. Generare vite da una spezzata, mantenerne solo il soffio con la conoscenza, migliorarne altre con la virtù, l’attitudine.

Devi vivere, convivere con la faccia che hai, nelle mattine di crisi e di euforia, entrambe ingiustificate emozioni in una visione di lungo periodo.

E devi conviverci, con questa impressione di inizio anno che
c’e’ sempre un grumo di foglie che blocca i binari per ritardi abissali,
c’e’ sempre un grumo che blocca un catetere per un viaggio senza ritorno
c’e’ sempre un frammento del tuo volto che non riconosci mai, che scopri in un alba invernale e
c’è sempre all’improvviso una luce siderale notturna che ti fa fermare ad osservare l’intorno che diventa sereno e placido, anche dalle finestre di una Terapia Intensiva.

Ci sara’ sempre un intoppo ad un piano ben delineato e programmato.
Il capo che si preoccupa per qualcosa che doveva essere fatto ieri e l’ha saputo solo stamani, l’infermiera che ti corre incontro urlando selve di consonanti e di vocali, acronimi di tragedie dove mettere la testa e le mani, IMA EPA FV IRC IPPV BLS SHOCK… Ti interroghi un attimo sul paradosso e subito dopo devi muoverti, correre, ansimare sulle scale del mondo della scienza, inventarti astrazioni e cose sensate da dire, fare, baciare, lettera e testamento.

esercirtare la professione come una virtu’
La virtu’ che si genera dall’improvvisazione e dalla conoscenza, per lanciarsi nelle giornate in un giro di blues senza protezione, senza spavento, con misura. La virtu’ che nasce dalla passione, dal metodo che diventa follia pura, fieramente antagonista rispetto al mondo ed al suo corso.

E rimboccarsi le maniche per sentirsi parte di un unicum. Che ti manca, ti manca nelle cose del tuo lavoro come in quelle del tuo Paese. Quel senso di unita’ e di amore al destino dell’altro, che hai trovato nello sguardo fiero e lacerato di una madre che saluta la vita che ha generato

Cerchi un attimo di silenzio, nelle emorragie cerebrali che accadono tutt’attorno. Nelle tragedie che accadono. Nei terremoti umani ed in una serie di sguardi, volti, che, ancora una volta, devi fronteggiare. Con coraggio.

Poi, torni ad osservare quel volto nello specchio e ti si ripropone quel
dilemma di una vita che non vuol rallentare mai, nonostante la crisi.

E piangi, come una fontana rotta, senza imbarazzo.
senti il senso della tua professione ravvivavato da una storia che e’ arrivata a destinazione per ripartire ancora una volta.
Energia che ricade sulla Terra, che vive ancora l’assurdità della guerra, sulle zolle appena girate sulle vigne con i frutti ancora appesi. Energia, veleno, amore e vita nei giorni iracondi e sedati che si susseguono.

E leggi rassegne stampa che dicono ma non sanno raccontare, parlano di fegato reni e cornee, dimenticando che il cuore , quello, lo abbiamo messo noi.

E non c’e’ rimedio se non cantare ancora un’altra canzone. Di protesta. O delirantemente sentimentale, dedicata a Giuseppina assorta a guardare le stelle dall’altro versante delle cose

Pentothal

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come dire

Scritto da Herbert Asch il 22 Gennaio, 2009
cronache / Nessun Commento

Sarà stato un anno fa più o meno, iniziavo il turno, niente in consegna, un giorno d’inverno qualunque.
Poi il triage del Pronto telefona che arriverà un intubato con l’eli, hanno avvertito.
Scendo a vedere.
Il Pronto, al solito, sembra traboccare, ma qualche buco c’è ancora, liberiamo una postazione, preparo il respiratore, mi accordo con l’infermiere per i farmaci da preparare, solite cose che fai per colmare l’attesa, tenendo a bada il sottile filo d’ansia che ti mette il preallarme: in fondo non sai mai cosa arriva, può essere un paziente normale, anche se grave, ma puoi trovarti anche improvvisamente nella melma più fonda per un’intubazione difficile, un paziente instabile, una diagnosi insidiosa o impossibile.
Tutto quel che hanno detto dal 118 è che arriva un trauma da un grosso incidente.
Ci mettono forse un pochino più di quel che ci aspettiamo, ma alla fine distingui le divise rosse con l’imbrago giallo. Sono loro.
Il mar rosso dei pazienti in attesa si apre, arriva l’infermiere che comprime l’ambu, il collega con in mano la scheda che sta finendo di scrivere.
È una donna giovane tutta confezionata a puntino, sulla tavola spinale con la metallina dorata e le cinghie che la fasciano, monitorizzata, intubata, sedata, ventilata.
Il collega che l’accompagna mi riconosce e mi saluta, anch’io facevo parte del circo qualche anno fa.
Mi lascia le consegne: grosso incidente, scontro tra auto e furgone, più altri veicoli coinvolti.
Sul furgone viaggiavano due donne e un bambino dietro.
Gli autisti, feriti, smistati negli ospedali vicini, lei da noi che avevamo dato un posto di Ria. Degli altri non sapeva, erano intervenute anche altre ambulanze
La paziente al loro arrivo era sbalzata nel prato a qualche metro dal furgone, non rispondeva, ma non sembrava avere grossi traumi evidenti. Vista la dinamica e per sicurezza nel trasporto l’ha confezionata come da protocollo e via andare.
Mi dice anche che vicino a lei, nel prato, c’era un bambino 4-6 anni, morto, che viaggiava con lei.
Mi dà i documenti che aveva addosso: nome arabo, nazionalità marocchina, una foto presa col velo.
Veloce programma per la paziente, che tutto subito non mi sembra così critica, i parametri sono buoni, non ci sono evidenze di grossi traumi. Facciamo partire gli esami, un gruppo e prove crociate per ogni evenienza. La porteremo a fare la tac, poi in Ria, su ho posto.
La tac mi tranquillizza abbastanza, per fortuna non ha grosse lesioni, ma decidiamo di svegliarla lentamente e la teniamo lo stesso in Ria monitorizzando l’evoluzione.
Mezz’oretta dopo arrivano i risultati degli esami, e mi telefona il collega del Centro Trasfusionale: c’è qualcosa che non quadra, il gruppo sanguigno dei prelievi fatti su di lei non coincide con quello che risulta per quel nome e data di nascita all’AVIS, tempo fa aveva fatto un piccolo intervento, avevano però fatto il gruppo e la tipizzazione era diversa.
Guardiamo meglio la foto, comparandola al viso ma come riconoscere un volto, per di più con la foto presa col velo…?
Intanto segnalo al poliziotto di guardia che forse il nome non quadra, anche loro mi confermano il sospetto che i documenti appartenessero ad un’altra persona, anche lei coinvolta.

Due ore dopo suonano alla porta, un magrebino piccino, dimesso, la camicia abbottonata senza cravatta, una giacca modesta.
Gli chiedo chi è, chi cerca, ma già sospetto.
-Mia moglie è qui? Mi hanno detto che l’anno portata qui, ha avuto un incidente-
L’italiano è incerto, parlo lentamente cercando di capire se riesce a comprendere.
Gli spiego che c’è una signora, ma non siamo proprio sicuri di chi sia, non dovrebbe avere grosse cose, abbiamo fatto degli esami, però è meglio per sorvegliarla, aspettiamo che si svegli. Lui dice se può vederla che può riconoscerla.

Lo faccio passare, poi si volta e mi fa la domanda che non volevo sentire:
-e mio figlio? …Anche lui è qui?-

Nicchio che non so, che hanno portato solo lei, ma lui è ancora più inquieto
– allora dov’è, dove l’hanno portato?!-
Dico che mi sarei informato, che intanto se voleva vedere la signora…
Lui va avanti, io passo al bancone, telefono in centrale 118 per sapere il bambino dove l’han portato.
Mi dicono che è nelle camere mortuarie dell’ospedale vicino al luogo dell’incidente, a una cinquantina di chilometri da noi.

Intanto il nostro ha riconosciuto la moglie, e ci spiega i documenti erano dell’altra donna coinvolta nell’incidente.
Lo rassicuriamo che tra poco pensiamo di svegliarla, la teniamo lì per sicurezza, per sorvegliarla meglio.
-e mio figlio?-
-mi hanno detto che lo hanno portato all’ospedale vicino al posto dove hanno avuto l’incidente-
Intanto telefono al centro Trasfusionale, adesso che ho i dati giusti e al poliziotto.
Lui si avvia verso la porta, dove lo aspetta un altro parente o un amico.

Poi mi richiamano.
Vado alla porta
-ma mio figlio come sta?-
-non so, non mi hanno detto, forse è meglio che chieda laggiù-
Non me la sento di essere io a dare la notizia, non voglio essere io accidenti!
Parlano ancora tra loro.
– L’ospedale è distante e adesso non abbiamo la macchina: ci sono autobus per arrivare là?-
-Non saprei, credo sia lunga… – non so cosa dire e capisco il dramma che sta vivendo questo poveretto. Non voglio neanche che, nell’incertezza delle condizioni si precipiti magari su un taxi, nella nebbia, per una situazione che, ormai non ha più nessuna urgenza. -Vuole che proviamo di nuovo a telefonare?-
-lei può?-
-venga dentro. Proviamo- Tiro in lungo, ma non so cosa fare.
Telefono al Pronto Soccorso dell’altro ospedale, mi informo sui feriti, e se ci sia effettivamente anche un bambino di sei anni morto.
Mi confermano..
L’omino è di fronte a me, e scruta il mio volto in attesa di notizie.
Ovviamente della telefonata non ha capito un accidente, sono stato volutamente scarno di parole.
Metto giù.
Gli sguardi si incrociano.
Lui parte per primo, ma ha cominciato a capire:
-Ma… è morto?-
Stringo la bocca con una smorfia e accenno appena con la testa.
Adesso ha capito anche lui, senza errore.
Ed io preferirei essere, di gran lunga, improvvisamente nella melma più fonda per un’intubazione difficile, un paziente instabile, una diagnosi insidiosa o impossibile ecc. ecc. ecc.

Herbert Asch

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il primo Natale

Scritto da fluture il 16 Gennaio, 2009
testimonianze / 1 Commento

È arrivato Natale. È già la vigilia e a questa sera mi sono preparata e caricata di grandi aspettative. Canticchiando canzoni tradizionali ho preparato dei salatini. Mi sono truccata un po’ perché questo è un giorno diverso, speciale. Guidando, ho trovato poca gente per strada, e ho appena parcheggiato qua davanti.
In reparto è tutto uguale, ma si sente qualcosa di diverso: è felice chi finisce, ma è anche felice chi inizia. Ci portiamo avanti col lavoro sin da subito, per non rinunciare a quel piccolo momento conviviale che ci saremmo regalati dopo la mezzanotte.
Ci sono due pazienti svegli e pianamente coscienti stasera, sanno che giorno è oggi e uno di loro ci chiede una fetta di panettone. Accontentiamolo, in fondo è in respiro spontaneo e da oggi ha avuto di nuovo indicazione alla dieta leggera. È Natale anche per lui, anche qua dentro, in questa bolla di vetro soffiato.
La signora, invece, non dice niente, non può. È tracheostomizzata, ventilata ad alte pressioni e sorda, poverina, senza nemmeno l’apparecchio acustico per sentire un poco, almeno i nostri auguri. Ma vede quella fetta di panettone passarle accanto. Chissà se si sta illudendo che possa essercene anche per lei. Mi fa pena e non riesco a guardarla negli occhi per troppi attimi, non riesco a dirle nulla, che se fosse per me, le avrei dato pure un po’ da bere. Ma non può. E non le serve l’apparecchio acustico per sentire il mio imbarazzo.
In questi primi due anni come infermiera mi sono dovuta abituare a tante cose: i turni, le notti, i week-end, le feste in reparto. Ma a un Natale così crudele non ero pronta.
Il Natale può anche non essere bello per tutti.
Uscita la mattina in strada c’era ancora meno gente. Avrò incrociato solo altre due o tre auto lungo la strada.
Il Natale qua fuori c’è stato proprio per tutti.
Chiudo la porta di casa e accendo la luce. Tutto sa di un Natale vissuto: c’è ancora l’odore del cibo e del vino, c’è l’eco delle risate e degli auguri, dei calici che si incontrano e della carta da pacchi che viene strappata. Si respira aria di casa, di qualcosa di familiare, che quest’anno ho perso, e a che prezzo!
Prendo i miei pacchi sotto il presepe e, sola nel silenzio della mia camera, scarto i miei regali, poco prima di prendere sonno, mentre fuori è già l’alba di questo mio primo Natale.
fluture

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Biancaneve

Scritto da Giro Batol il 10 Gennaio, 2009
cronache, ritratti / Nessun Commento

31/12/2008, h 20.00: ho ancora negli occhi mio figlio che stamattina sciava con me, ma ho già addosso la casacca azzurra un po’ stinta e l’immancabile fonendoscopio portafortuna al collo, un Littmann cardiologico da sballo: qualche piccolo vezzo bisogna anche concederselo!
Neanche il tempo dei saluti e “Pronti,via!”: paziente in edema polmonare acuto in cardiologia. Situazione seria: ottantenne, agitato, ipossico, al saturimetro 72% e ovviamente nessun posto libero nelle terapie intensive; e allora via, in Sala Emergenza di Pronto Soccorso. All’arrivo le ormai solite schermaglie di battute con medici, infermieri ed OSS, più amici che colleghi, quasi ad esorcizzare l’implacabile ripetersi di scene che ci augureremmo sempre irripetibili. Ma questa volta le cose vanno bene, per le 23.30 il paziente si è ripreso ed è stabile: intorno a lui in compenso il Pronto Soccorso freme del solito caos per nulla calmo:
“Non respiro, mi manca l’aria, toglietemi questa maschera vi dico!”
“Aiutatemi, ho dolore al torace.”
“La faccia, la faccia, mi è andato l’olio bollente in faccia!”.
Riesco a salire in Rianimazione in tempo per gli Auguri ed un accenno di brindisi: siamo nel 2009, chissà che cosa ha in serbo per noi:
Driinn, Driinn!!!!, 2240 la MedUrg, accidenti. “Ehi, scherzavo, non avevo alcuna fretta di scoprirlo, sono solo le 00.15! Ma forse è solo per gli auguri”, pensa tra sè e sè quell’inguaribile ottimista che mi porto dentro.
” Un anestesista urgente, paziente in arresto, stanza C, letto 10″.
“Alla faccia degli auguri, però precisi quelli della MedUrg, gli unici che quando ti chiamano ti dicono dove andare e non giocano a nascondino: stanza C, letto 10.”
Arrivo nel corridoio del reparto ed individuo da lontano la stanza C: accanto ad una porta infatti vi sono una giovane donna, di circa 30 anni ed il suo fidanzato, come poi mi verrà presentato. Lei piange, singhiozza, urla “E’ morta, la mamma è morta”! Lui freddo, “Dai, chiama tuo padre!”
Entro nella stanza in cui sono già febbrilmente in corso le manovre rianimatorie, massaggio cardiaco, ventilazione con AMBU, monitoraggio ECG, Carrello Emergenza dispiegato in tutta la sua operatività. Saluto, dò una sommaria occhiata alla paziente che a prima vista appare molto anziana e segnata da parecchie malattie e vado alla sua testa per la gestione delle vie aeree: quante volte quella stessa scena, quante volte quelle stesse facce e quelle stesse espressioni!
Chi guarda il monitor corrucciato come cercando di carpire il segreto di quell’arresto, la sua causa e magari la sua terapia; chi ha le gote rosse, la fronte imperlata di sudore ed il fiato sempre più grosso causato dallo sforzo del massaggio; chi si muove freneticamente intorno al carrello per prendervi l’occorrente con movimenti talmente automatici da sembrare quasi marionettistici: “larincoscopio, tubo numero sette, siringa per cuffiare, fonendoscopio, cerotto, adrenalina 1 fiala ogni tre minuti” e così via.
Anche la signora del letto 11, la sua compagna di stanza, ha assunto quella che ormai ho capito essere la modalità di risposta classica a quella situazione: è girata su un fianco, verso la finestra, apparentemente come se dormisse e come se gli eventi che si stanno svolgendo a poco più di un metro da lei altro non fossero che un fastidioso temporale estivo che presto si risolverà permettendole di riprendere il meritato riposo.
Le prime volte che ho notato questi comportamenti mi sembrava impossibile che le persone potessero assumerli.
“Ma come, dicevo tra me e me, una persona con la quale parlavi fino a mezz’ora fa sta morendo, e tu ti giri dall’altra parte? Non dico di venire ad aiutarci, non dico di stare lì ad incoraggiare gli sforzi rianimatori almeno con lo sguardo, ma addirittura far finta che non stia accadendo nulla mi sembra eccessivo!”
Eppure passando gli anni, rispondendo agli immancabili Driinn!, aprendo porte e porte su rianimazioni in corso, ho osservato che è proprio questo il comportamento della maggior parte dei “compagni di sventura”.
Penso che sia spiegabile con la paura di ciò che più temiamo, la morte, vissuta per giunta proprio in un momento di maggior fragilità come può essere quello di un ricovero. In questi momenti torniamo fragili come bambini e, come i bambini pensano di nascondersi portando le mani davanti agli occhi, noi ci nascondiamo alla morte girandoci dall’altra parte e pensando che la campana non stia suonando per noi.
Ma torniamo alla mia signora della stanza C: dopo quaranta minuti di manovre rianimatorie inutili constatiamo il decesso: la mia collega ed io ci guardiamo in faccia e sappiamo entrambi che adesso stiamo per affrontare il momento che ognuno di noi detesta più di ogni altro, la comunicazione del lutto. Portiamo con fatica la figlia della signora ed il suo fidanzato in uno studio tranquillo, li facciamo sedere e gli comunichiamo la morte della signora. Inaspettatamente la figlia pur tra lacrime e sussulti si rasserena ed assume un contegno da moderna principessa (Biancaneve, penso guardando fuori). Si assicura che la madre non abbia sofferto e dopo essere stata confortata su ciò, ci dice di come ormai si fosse resa conto che le sofferenze legate alle malattie fossero divenute per lei insopportabili. Ci dice che i suoi genitori sono separati e che il padre ha rifiutato il suo invito a giungere in Ospedale asserendo di essere troppo stanco: in fin dei conti è stata pur sempre la notte del Veglione di Capodanno, le ha consigliato di andare anche lei a riposare che poi se ne sarebbe riparlato l’indomani mattina. Mentre ci racconta tutto ciò è proprio triste la nostra Principessa Biancaneve, quasi più che per la morte della madre. Cerca conforto nel suo fidanzato, il suo Principe Azzurro, il quale non trova di meglio che consolarla così: “Faresti meglio a dire a tuo padre di alzare il culo dal suo letto”.
Driinn! E’ il Ponto Soccorso: “serve un anestesista per una cardioversione
Urgente”.
“Povera principessa Biancaneve, penso mentre mi allontano dal reparto, se è questo il principe azzurro che ti ha trovata…”
E intanto la neve fiocca copiosa.

Giro Batol

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il prezzo che si paga

Scritto da il guardiano il 05 Gennaio, 2009
pensieri / 4 Commenti

E’ una settimana che non ti vedo. Quando mi avvicino al tuo letto hai gli occhi aperti. Ti guardi intorno. A volte sembri volgere il capo verso chi ti chiama. Forse segui con lo sguardo chi ti parla (ma questo non sempre). Non hai più la febbre, respiri da sola. Insomma, mi sembra che stai andando bene, proprio bene.
Quando ti ho lasciata, era tutta un’altra storia. La pressione dentro la tua testa continuava ad essere alta e di difficile controllo (segno che il tuo cervello soffriva ancora) e la tac faceva vedere una serie di zone che avevano patito molto. La radiografia del torace evidenziava un focolaio di polmonite. Non potevamo togliere la sedazione (i farmaci che ti tenevano addormentata), e dal punto di vista respiratorio avevi ancora bisogno di un grande aiuto da parte delle macchine. Nelle due settimane precedenti si era presentata una complicazione dietro l’altra. Tutte le volte che andavi un po’ meglio c’era sempre un problema nuovo. Avevo parlato con i tuoi famigliari, tua sorella soprattutto, e nei loro occhi leggevo una speranza che si affievoliva sempre di più. Le poche valutazioni neurologiche fatte erano terribili (avevi dei movimenti in estensione degli arti, nessuna mimica, crisi di brivido e aumento della pressione intracranica, tutti segni di grave danno cerebrale). Solo cattive notizie e un futuro incerto.
Ma questa mattina, quando sono arrivato, avevi gli occhi aperti, e ti guardavi intorno.

Il fatto è che non riesco ad essere contento. Non sono soddisfatto per niente. Non ti conoscevo prima di questa terribile malattia, ma spesso ho immaginato che assomigliassi a tua sorella. Adesso sei completamente diversa. E non solo perché hai la testa rasata, o il viso tirato. E’ proprio lo sguardo che è diverso. E’ perso, vuoto, assente, o forse solo disorientato, ma senza intensità. Inoltre il tuo corpo è teso nel letto in una serie di posizioni innaturali. Le tue braccia sono scarne, e le mani affusolate restano contratte sul busto come un burattino dai fili tirati malamente. Digrigni spesso i denti, la fronte ti si imperla di sudore, e le tue labbra si piegano in una smorfia anormale. Eppure stai andando bene.
Oggi ho parlato di nuovo con tua sorella e ho confermato tutto questo. Non c’è infezione, respiri autonomamente, ti guardi intorno. Ma il mio tono non è stato per niente persuasivo. Così alla fine tua sorella mi chiesto se c’era qualcosa che non andava. Cosa c’era che non mi convinceva. E io non ho saputo bene cosa rispondere. Per la prima volta mi sono sentito meno soddisfatto dei famigliari. Per la prima volta le mie speranze erano più grandi di quelle di tua sorella.

Sono arrabbiato, perché per sopravvivere hai pagato un prezzo veramente alto. La morte, per lasciarti andare, ha voluto in cambio tutto ciò che avevi di bello. La tua intelligenza, il tuo buon umore, il tuo sguardo. La tua capacità di muoverti, di andare, venire, guidare la macchina. E io ho assistito impotente a questo ricatto. Io ho barattato la tua vita, in cambio di tutto questo. Eppure non potevo fare altrimenti. La mia unica arma di negoziazione è una medicina imprecisa, fallace, impotente. E ciò che mi fa ancora più rabbia è che presto mi dimenticherò di te, e della nostra sconfitta Sarà sufficiente che il prossimo malato abbia la meglio in questa iniqua contrattazione, e io mi sentirò vincente. Ma non posso fare altrimenti. Perché io devo andare avanti per la mia strada e tu per la tua.

Forse un giorno sapremo non solo come si curano gli organi, ma anche come si conservano i ricordi. Sapremo raccogliere la memoria che si è persa nel fango di un’emorragia e accendere uno sguardo che si era spento in un incidente stradale. Forse un giorno sapremo fare tutto questo, e allora potremo presentarci vincitori al tavolo dell’oscura signora. Ma fino ad allora il prezzo della vittoria sarà sempre molto alto, e la felicità verrà spesso sacrificata alla salvezza.
E’ per questo che ti chiedo ancora una volta scusa.

il guardiano