La migliore complicanza possibile

Scritto da FiloDiK il 08 Dicembre, 2014
racconti / 1 Commento
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Trauma trauma trauma traumapediatrico. Un bambino, frattura di Monteggia tipo 1, e come ultimo della mattina.

Butto giù a fatica lo pseudo-caffè della macchinetta, con in testa il solito film dell’esserino urlante e indomabile che sta alla sala operatoria come un DJ ad una severa biblioteca.

Grazie a Dio almeno dormirà … Non faccio in tempo a finire questo pensiero semiconscio e politicamente alquanto scorretto che mi viene incontro l’anestesista. Ahia, aria di casini! Niente totale. Niente totale Eh no, elleviibipi … insomma, plesso pediatrico e pace, per tutta una serie di ragioni. E’ sicuro è provato è efficace. Lo dice anche Pubmed, se leggi.

Leggo, giuro.

Lei così lo tiene controllato, ed è tranquilla, lei. Lui così non sente male, ed è sereno, lui. Io così mi scartavetro le mani al lavaggio per scaricare il nervosismo, io.

E se …. E se gli faccio male? Se il plesso prende poco e lui sente mentre incido? Se lo faccio piangere, o peggio, urlare di dolore? Se lo traumatizzo a vita? Madonna Santa. Entro in sala tutta tesa, e mi sembra così diverso dalla visita in PS di poche ore prima. Mi sembra molto, ma molto, piccolo. Un ragnetto piccolo e secco, incartato come uno strano regalo nel riscaldatore Bair Hugger che lascia emergere solo un visetto vispo e due occhioni azzurri giganti. Due scanner che mi sento addosso durante la vestizione, due fari allo xeno che si allargano ancora di più quando spontaneamente mi dice “lo so che dovevo dormire, ma ti prometto che starò fermo e quindi tu stai tranquilla”.

Mi vergogno. Mi ha rubato le battute. Sono sempre io quella che tranquillizza, col mezzo sorriso sicuro. Eh che diamine.

Meno male che il collega si sta ancora lavando, posso mantenere una reputazione da adulta con tutti i crismi. Iniziamo, e il bello è che il ragnetto sta fermo davvero. Ma proprio fermo, che l’avambraccio di ieri con tutti i suoi 65 anni di vita in confronto ci ballava la tarantella sotto i ferri. Sta LVIBP1 funziona proprio bene. E anche il mio ragnetto se la cava alla grande… bravo ragnetto coraggioso! Spariamo il filo decisivo, ci siamo quasi ragnetto resisti. Il collega va a scrivere l’intervento e io resto a rifinire il tutto con le scopie e la medicazione. Niente di nuovo sul fronte occidentale, direi …

Ma entra il Doc con la sua faccia da brutto quarto d’ora. Uragano in vista, e solo perché mi è finalmente arrivata l’approvazione del Capo per quel periodo di perfezionamento all’estero che avevo richiesto da mesi. Vuoi andare all’altro capo del mondo, ho fatto tanto per te ma non è mai abbastanza, hai fretta di cambiare ambiente perché non vuoi restare qui con me, cosa ti danno loro che qui non hai e variazioni sul tema, a volume crescente. Argomentazioni infondate e tempismo discutibile, Doc, ma non posso risponderti per le rime perché sei già uscito come una furia, perché sei tu, e perché c’è il ragnetto sveglio sul lettino.

Ragnetto che ha deciso di stupirmi fino in fondo, ragnetto che – appena tolgo il telino che ci ha divisi per quasi due ore – mi guarda. Mi guarda e mi dice che non devo arrabbiarmi, che è come quando il suo papà lo sgrida, perché ci tiene a lui. “Lui mi urla quando sbaglio, ma io lo so che poi mi vuole bene perché mi aiuta e mi fa le sorprese e controlla sempre se mangio”. Non riesco a reprimere il pensiero irritato per cui il ragnetto è solo un ragnetto, che cosa vuole saperne lui … queste son dinamiche complesse, altro che papà e figli … son cose da adulti, ecco.

Ragnetto mio, devi capire, il Doc non è il mio papà. Lui è arrabbiato con me e basta, non sto a spiegarti. Peccato che proprio in quel momento il Doc rimetta dentro la testa. “Pensavo che tra tutto tu oggi non hai mangiato! Dai che in mensa ci sono le lasagne calde, magari mandi giù un piatto di cibo vero per una volta, no?! Fai veloce che se no becchiamo una coda che neanche lo stradone alle 18:00!”.

Ragnetto, hai sentito anche tu ?! Se hai pazienza un secondo mi levo il guanto. E per rispetto del plesso mi limito a un ganascino sulle tue guancine da cucciolo – per darti un abbraccio da boa constrictor, in fin dei conti, posso anche aspettare in reparto.

 

FiloDiK

 

1 Lateral Vertical Infraclavicular Brachial Plexus

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Grazie.

Scritto da Ungiovanequasiinfermiere il 27 Novembre, 2014
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NC grazie

 

 

Le notti di guardia spesso sono davanti a dei libri. Sono davanti ad uno schermo di un computer. Davanti ad articoli in inglese da tradurre. Sono davanti ad una tesi a cui mancano solo i ringraziamenti.

Non so quando ho scoperto di preciso questo blog. Ne il come. Ma l’ho trovato subito vero. In tre anni di università cercano di formarti a fare le cose più disparate ma non ti educano a vivere la malattia, la sofferenza, la gioia di lavori come questi. Qui ognuno è il protagonista di una storia. Qui non ci sono gli eroi ma nemmeno gli arrendevoli. Qui ho incontrato uomini che aprono il cuore e la mente e la spalmano con una capacità professionale su quel foglio bianco di Word. Qui non esistono le frasi fatte del tipo “l’assistenza è un arte” o “il sorriso è la miglior cura”. No.

Qua si scrivono storie vissute in ospedali di tutta Italia (e non solo) e ritrascritte la mattina, di pugno, con ancora addosso l’odore di plastica mischiato a quello del caffè che piano piano sale. Ed è questo quello che queste storie mi hanno trasmesso.

Le ho lette tutte (più o meno) tra le notti passate in tirocinio e i momenti liberi e da ognuna ho imparato a coltivare le situazioni che vivevo. A non lasciarle scivolare via dalla mente come se non fossero mai esisite. Ma nemmeno a farle diventare un peso per la mia vita.

Qui ho imparato che le storie possono servire a crescere professionalmente e umanamente. Che dietro ad un camice o ad una divisa ci sono grandi poeti e scrittori. Che le emozioni è meglio imprimerle sulla carta.

Quindi tra i ringraziamenti che devo ancora terminare in questa notte di guardia e studio, ci siete tutti voi. Voi coi vostri pseudonimi più assurdi. Voi che vi calate dagli elicotteri o siete da sempre in geriatria. Voi che uscite stravolti dalla sala o che cercate di capire la cura migliore. Voi che magari incontrerò lungo il mio percorso senza sapere chi siete.

Grazie. Per ogni singola storia.

ungiovanequasiinfermiere

La costante di Fidia (o del λόγος della proporzione)

Scritto da folfox4 il 20 Novembre, 2014
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Sezione aurea

 

https://www.youtube.com/watch?v=5EG3s7lDOyY

La sezione aurea, o costante di Fidia o proporzione divina, indica il rapporto fra due lunghezze disuguali, di cui la maggiore è medio proporzionale tra la minore e la somma delle due.[1]

L’uomo, cogliendovi l’ideale di armonia e di proporzione che esiste tra grandezze progressivamente crescenti, o tra contrari dialetticamente connessi, l’ha proposta nel tempo in differenti contesti culturali, creandone un canone di bellezza (aureo appunto, divino): in filosofia, nella musica, in matematica, nelle arti figurative, nel diritto, ma anche in medicina.

Nel Simposio, Platone fa dire al medico Erissimaco che la medicina è proporzione: un pensiero armonico in grado di cogliere la struttura complessivamente ordinata del corpo, analizzandola sia come proporzione delle parti in sé stesse che come equilibrio morfologico e funzionale delle parti tra loro.

Questa idea della proporzione non si fonda sui criteri della scienza galileiana, bensì su quella modalità del pensiero che procede dalla percezione del mondo all’idea del mondo, e viceversa.

In opposizione al principio dell’armonia o della proporzione, ma assieme, costituendone il lato in ombra, un altro principio abita l’animo umano: quello della forza.

La forza reifica l’uomo: lo può uccidere facendone un cadavere, oppure, in un modo ben più prodigioso e tremendo, lasciandolo vivo. In questo caso lo minimizza ai suoi bisogni vitali, ne annulla la vita interiore, gli infligge una morte che si prolunga per tutto il resto della vita.

Il potere della forza di reificare gli uomini colpisce però non solo quelli che la subiscono, ma anche quelli che la usano, poiché questi ultimi ritengono di avere essi sì, essi soli, ogni diritto. Si genera allora una cesura netta tra il forte e il debole che non si riconoscono più come appartenenti alla stessa specie.

In quell’esatto momento, nel momento in cui il forte s’inebria della sua stessa forza, egli valica il limite: crede di possedere la forza. Il λόγος della proporzione ne è ottenebrato.

Ma nessun essere umano, per quanto forte, smette di essere umano e quindi fragile. Così nessuno possiede la forza veramente, e coloro cui è stato dato di usarla periranno a loro volta.

Il corso della vita è tutto rappresentabile in questo moto pendolare: il vincitore dimentica di proporzionarsi al vinto e, reificandolo, è vinto egli stesso. È ridotto egli stesso, dalla forza, a una cosa.

Dalla seconda metà del secolo scorso gli sviluppi conseguiti nei settori della farmacologia e della biotecnologia spingono continuamente la medicina a subordinare la pianificazione delle cure per la singola persona malata al continuo spostamento in avanti dei limiti delle capacità delle scienze biologiche di vincere la malattia e procrastinare la morte.

Di conseguenza, elevare a valori unici di riferimento la riduzione della mortalità da un lato, e il prolungamento della sopravvivenza dall’altro, ha fatto smarrire il senso profondo del concetto di proporzione e il criterio della proporzionalità da esso sotteso – proporzione come misura di sé, proporzione del rapporto, proporzione alla persona – considerati da sempre nella tradizione medica, aspetti essenziali della sua identità epistemologica e etica in quanto criteri costitutivi di una buona medicina.

Di pari passo la forza si è impossessata del pensare e dell’agire medico.

Il curare e il prendersi cura, entrambi espressione di una relazione umana di confine in cui una persona s’impegna intenzionalmente e chiaramente a promuovere il benessere di un’altra, si riducono, in una casistica sempre più ampia, all’esercizio della forza, tramite il quale il termine benessere perde il senso profondo del legame alla misura del possibile, alla sua capacità di essere medio proporzionale tra altre grandezze, per spingersi alla ricerca di un assoluto impossibile.

La rappresentazione e la percezione di questo scenario si sostanziano nell’immagine di corpi reificati, mantenuti in vita meccanicamente nonostante l’evidenza della morte biologica, spesso già avvenuta, di parti paradossalmente essenziali alla vita stessa.

Ma anche chi cura, o chi si prende cura, se non è in grado di cogliere il confine, è reificato e sconfitto dalla forza.

Così, chi cura è anch’esso annichilito dallo spettacolo di quei corpi ai quali si è indissolubilmente legato con il vincolo stesso alla sopravvivenza che gli ha imposto. Egli è obbligato ormai a un crescendo di azioni, sordo a ogni richiamo a rinvenire un senso in quell’agire i corpi dei più deboli.

Come gli eroi superstiti dopo la battaglia, si guarda intorno, e constata che non vi sono né vincitori né vinti, e si interroga.

Si chiede se la sua ύβρις valesse quelle vite amputate o quelle morti.

Anche le domande dell’eroe, tuttavia, appartengono al mondo della forza, perché egli recupera solo a posteriori, nel tono di luce di una coscienza crepuscolare, il criterio della proporzionalità.

C’è infatti un’iterazione nel suo pensiero, ricorrente e circolare; come se la disfatta dell’agito non fosse mai sufficiente a sé stessa per indurre, una volta per tutte, una modificazione dell’impianto morale e quindi della condotta dell’agente. In questi casi l’eroe afferma: “ non ci sono certezze assolute ”.

Simone Weil scrive in un saggio sull’Iliade: “ il sentimento della miseria umana è una condizione della giustizia e dell’amore. Colui che ignora fino a qual punto la volubile fortuna e la necessità tengono ogni anima umana alla loro mercé, non può considerare suoi simili né amare come sé stesso quelli che il caso ha separato da lui con un abisso. Non è possibile amare né essere giusti se non si conosca l’imperio della forza e non lo si sappia rispettare. Nulla è più raro di una giusta espressione della sventura.

Il più delle volte i Greci ebbero la forza d’animo che consente di non mentire a sé stessi; seppero così toccare in ogni cosa il più alto grado di lucidità, purezza, semplicità. Ma nessuno è andato oltre: tanto i Romani che gli Ebrei si credettero sottratti alla comune miseria umana… Anche lo spirito del Vangelo non si trasmise puro alle successive generazioni cristiane. Il martirio, presentato quasi come una gioia, è frutto d’illusione o fanatismo.

L’uomo che non è protetto dalla corazza di una menzogna, non può patire la forza senza esserne colpito fino all’anima.

La grazia può impedire che questa percossa lo corrompa, ma non può impedire la ferita.

Il genio epico della Grecia non è risorto nel corso di 20 secoli … Gli uomini lo ritroveranno quando sapranno credere che nulla è al riparo dalla sorte, quindi arriveranno a non ammirare mai la forza … È dubbio che ciò sia prossimo ad accadere ”.[2]

Queste riflessioni indotte da storie estratte da un personale repertorio sperimentato in un reparto di Terapia Intensiva, costituiscono, almeno per me il senso, prosciugato di ogni inutile rivolo, del tema della relazione di cura: riscoprire e assecondare il λόγος della proporzione consentirà di comprendere che senza di esso la cura si riduce a elementare applicazione di una τέχνη terapeutica, cosa appunto s-misurata perché non proporzionata alla persona del malato, ma riferita da un lato alle potenzialità della stessa τέχνη e, dall’altro, alla forza dell’eroe che la usa, inebriata di sé tessa.

Non dunque proporzione per un vero progresso, ma esplosione di forza per un mero sviluppo.

Folfox4

[1]. A. Scimone. La Sezione Aurea. Storia culturale di un Leitmotiv della Matematica. Sigma, Palermo, (1997).

[2]. S. Weil. La Rivelazione Greca. Ed. Biblioteca Adelphi, Milano (2a ed., 2014)

Da capo

Scritto da Gio il 13 Novembre, 2014
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foto di HA

foto di HA

Giornata di sole nella nuova città che mi accoglie ormai da 2 mesi. Altra grande città europea. Sono venuta qui perchè qui si gioca davvero la serie A del mio lavoro. Ho avuto l´occasione, e non me la sono lasciata sfuggire.

Come sempre l´inizio è in salita. Equipe nuova, regole cambiate, abitudini diverse, ricette peculiari per risolvere problemi comuni. E come sempre mi lascio indietro tutto il resto (amici, famiglia, casa) per fare un passettino in avanti e imparare di più.E sempre loro, nuovi volti di bambini.

Qui sono davvero tanti. Tra tutti però ho un ricordo speciale per i bambini che seguivo in Italia, durante la mia specializzazione.Forse perchè ero più giovane, forse per via della lingua, non mi è ancora più capitato, di essere legata ad altri bambini come a loro. Sono una quantità enorme di volti, sorrisi e storie che mi arricchiscono la vita.

Ecco, quando penso a loro, quando penso che il vero motivo per cui sono qui è fare meglio per loro, allora ha di nuovo senso questo stato di isolamento dalla vita e distacco da tutto che sento ogni volta che mi sposto. Allora c´é un motivo, uno importante. Forza, alzarsi,  che ci sono nuove storie da conoscere!

Gio

Morire

Scritto da il genovese volante il 02 Novembre, 2014
poesie / 2 Commenti
foto di EP

foto di EP

 

Sono stufo di veder morire la gente,

vorrei essere in un prato a correre,

anche a rincorrere il niente…

Ho visto troppa gente morire e

troppi non sapevano come affrontare

il passare, il passare forse al niente…

 

Ho visto occhi rinchiudersi lentamente,

altri velocemente ed altri ancora

essere sbarrati e non chiudersi per niente…

 

Ho visto la disperazione dipinta sui volti

dei parenti ed amici che assistevano alla scena impotenti,

senza poter fare o tentare niente…

 

Non e’ facile assistere un morente, non e’ facile

per niente, vorresti essere a mille miglia da quel letto,

lontano lontano per poter pensare… a niente.

 

Ho visto mani cercare altre mani nell’ultimo momento

prima di esalare l’ultimo stentato respiro, quasi a chiedere

di poter ancora un poco restare per non diventare…un niente.

 

Ho visto, ed ancora un poco vedro’, prima di diventare

l’attore di una scena che farei a meno di recitare, ma

almeno mi sto preparando e sono sicuro che dopo il niente…

 

ci sarai Tu il Tutto…a braccia aperte per potermi consolare…

 

Il genovese volante

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Poi l’ho dimenticato

Scritto da Nicola il 15 Ottobre, 2014
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Foto di NC

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Una volta mi hanno rubato la bicicletta.

Eh, magari! In realtà quattro volte me l’hanno rubata. Quattro biciclette diverse, non sempre la stessa. Ognuna ha avuto la sua breve storia di felici pedalate conclusa con il banale rituale di una catena spezzata. Nulla di cui valga la pena parlare, davvero. Dirò solo che la prima volta è stata incredulità, la seconda rabbia, la terza rassegnazione e la quarta l’ho dimenticata. Ed è proprio di questo che vorrei raccontare: di quando, per la quarta volta, mi hanno rubato la bicicletta e io l’ho dimenticato.

Da casa mia, ho la fortuna di poter raggiungere l’ospedale in cui lavoro in circa tredici minuti di pedalata decisa.

Dico “fortuna” perché tredici minuti in bici sono proprio pochi, me ne rendo conto. Eppure a volte sembran tanti: sembrano tanti dopo le notti, quando anche il teletrasporto sarebbe una soluzione lenta rispetto all’intensità con cui si desidera essere già a letto, già docciati, già addormentati; sembrano tanti le mattine d’inverno, quando si vorrebbe essere ancora a letto, ancora addormentati, uterinamente avvolti dal piumone caldo. Sembrano tanti questa sera, che ho finito il turno del pomeriggio e domani dovrò alzarmi presto per quello del mattino. Pomeriggio, poi. Ma quale pomeriggio!? Tra una cosa e l’altra si esce dall’ospedale quasi alle undici, altro che pomeriggio: è notte fonda! Già notte fonda quando esco e ancora notte fonda quando mi alzerò. Tanto valeva tenersi la divisa addosso. Tanto valeva restare in ospedale. E ora che faccio? Cosa la metto dentro a fare la bici, se tra poche ore sarò di nuovo per strada a pedalare? No, questa notte la lego fuori, davanti a casa, che non ho tempo da perdere a litigare con la serranda del garage. Qui non me l’han mai rubata, non succederà proprio questa notte. Sarebbe la quarta in sei mesi, è statisticamente impossibile. Non succederà.

Il mattino seguente, sono in strada a correre, letteralmente correre, verso la fermata dell’autobus. E’ successo. Me l’hanno rubata.

Non ci credo, mi hanno rubato la bicicletta, di nuovo. Proprio questa notte, proprio a me, proprio la mia bicicletta… rubata. Una tragedia! Ah, ma oggi mi sentono! Chi? Tutti! Tutti mi devono sentire! Se non posso colpevolizzare nessuno, allora tutti dovranno pagare: oggi mi lamenterò tutto il giorno, incessantemente, svergognatamente, oggi mi lamenterò come non ho mai osato fare in vita mia, perché mi hanno rubato la quarta, dico la quarta bicicletta in sei mesi e lamentarmi è un mio sacrosanto diritto!

Quando arrivo in reparto, i colleghi si sono già assegnati i pazienti. “Scusate il ritardo, è che mi han rubato la bici, la quarta…” ecco, iniziamo a lamentarci, che capiscano quale sarà l’andazzo della giornata “…la quarta in sei mesi! Comunque, chi è rimasto da seguire?” Letti sette e otto.

Prendo consegna.

Al letto otto c’è un paziente nuovo, un ricovero della notte; ieri sera, mentre io tornavo a casa in bici, lui rientrava a casa in macchina.

Al letto otto c’è un giovane uomo, sembra un bambino per noi, abituati come siamo ad assistere persone tanto più grandi di lui; ieri sera, mentre rientrava in casa in macchina da solo, ha perso irrimediabilmente il controllo della vettura.
Al letto otto c’è un ragazzo di diciotto anni. E sta andando in morte cerebrale.

I pazienti in rianimazione non vanno proprio da nessuna parte, tendenzialmente se ne stanno a letto. Eppure si dice in continuazione: sta andando in morte cerebrale. Lui è arrivato a 3 di potassio, l’altro è andato in fibrillazione atriale, poi è rientrato… se lo avessi sentito dire da bambina, molto più bambina del paziente del letto otto, mi sarei immaginata un gran via vai di gente. Avrei pensato ad uno stanzone pieno di persone, alcune in divisa, altre no; ogni tanto uno inizia a camminare “Scusi, dove sta andando?” “Io? Sto andando in acidosi” “Non credo proprio, venga da quest’altra parte con me…” gli direbbe quello in divisa.

La reazione di quelli in divisa è sempre diversa: se uno va in ipernatriemia, ad esempio, gli si batte una mano su una spalla, gli si fa no col dito e lo si riporta sulla strada giusta accompagnandolo lentamente. Ma se uno si mette inaspettatamente a correre e qualcuno vedendolo lo addita urlando “Sta andando in arresto!!”, allora gli si salta addosso in tanti e lo si placca con determinazione come giocatori di rugby. Altre volte ancora, qualcuno si alza e va, e nessuno cerca di fermarlo, lo si osserva in silenzio mentre si allontana “Lui sta andando in morte cerebrale” e chi va in morte cerebrale non si può far altro che lasciarlo andare. Anche se ha diciotto anni.

Accanto al paziente del letto otto c’è una donna, sta seduta su una sedia blu, poi si alza, poi si siede. Vederla piangere, per quanto straziante, è un sollievo. Quando smette, diventa quasi palpabile un dolore tanto forte da spegnerle il pianto.

Mi ritrovo a chiedermi se sarebbe più comodo per me se lei non fosse qui. Se non ci fosse questa madre a trasformare il paziente del letto otto, un perfetto sconosciuto, in un figlio amato.

Se fossimo solo io e lui, se guardandolo mi rendessi conto che tutto sommato ieri sera avevamo la stessa probabilità di vivere o morire, non sarei spaventata dal riflesso della mia vulnerabilità.

Ma questa madre testimonia il fatto che per ogni persona che amo e che amerò corro il rischio di ritrovarmi seduta su una sedia blu, senza più lacrime da piangere. Come proteggersi da questa vulnerabilità? E come supportare questa donna, come starle accanto senza essere inadeguati?

Non sarà certo sufficiente rannicchiarsi ipocritamente dietro lo scudo del fare. Eppure ci sono i parametri da registrare, sistolica, diastolica, media, frequenza, diuresi, saturazione… ci sono terapie da somministrare, stappa, aspira, diluisci, inietta, deflussa… ci sono fogli da compilare, telefoni a cui rispondere, ci sono di nuovo parametri da registrare… e c’è lei, sempre lei che piange e quando non piange è forse peggio. Il suo dolore rende insignificante ogni più piccolo gesto, ogni pensiero, ogni cosa che non sia dolore stesso.

Il turno finisce. Do consegna al mio cambio. Esco dal reparto, mi cambio con estrema lentezza e me ne vado guardando la vita che scorre al di là del vetro dell’autobus.

Solo quando arrivo sotto casa mi ricordo della bicicletta. Me l’hanno rubata. Che stupida: poche ore fa era per me un avvenimento tanto tragico da credere che valesse la pena lamentarmene. Poi l’ho dimenticato.

Nicola

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Traumalgia

Scritto da FiloDiK il 03 Ottobre, 2014
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Foto di MV

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Lunedì di quelli infiniti, se esistesse il concorso di “Miss Occhiaie” credo che avrei delle buone chances di vittoria. Certo che passare le ore fuori dalla sala ad aspettare il nostro turno, con gli interventi delle 11:00 e delle 14:00 che diventano quelli delle 13:30 e delle 16:00 per una sottocapitata che non si lascia inchiodare, non aiuta proprio per niente.

Meno male che l’avambraccio è complesso e l’omero si rivela una pluri-frammentata un po’ stronza … almeno ne è valsa la pena, di tutta quella pre-sala a intra-sentire i pazienti appena svegli che straparlano, drogatissimi di Diprivan. Da registrare.

Entrano gli infermieri a prendere il paziente, lo specializzando cambia sala inseguendo la sua ennesima placca di clavicola.

Tempo di accoccolarmi sul seggiolino del pc per scrivere il verbale, ma soprattutto sottrarre le caviglie alla morsa della gravità, che entra il Doc: sala urgenze, c’è da amputare quel politrauma per cui è accorso in piena notte … quel ragazzone di 29 anni e 120 chili, che si è distrutto in un incidentaccio auto/moto nel weekend e adesso è lì che aspetta con le sue fasciotomie di gamba.

Dai Doc, non guardarmi così. Dai che mi manca mezz’oretta e basta. E poi son sempre qui… Se mi ordini di stare anche oggi mi impunto, stavolta mi impunto davvero.

Ma il Doc non dice niente ed è stanco, e ha in mente quel paziente dalle 3 del mattino, e a me non sembra neanche di avere alternative. Me ne accorgo mentre mi lavo, con quell’assurdo grembiulino impermeabile che preannuncia sangue in quantità, e poi ancora mentre aspiro con cautela vicino a quella malefica sega di Gigli che sembra sempre lì lì per tirare gli ultimi e abbandonarci nel mezzo del nostro campo di battaglia.

Operatoriamente va tutto liscio, se così si può dire, con l’adrenalina che mi soccorre dalla stanchezza letale della giornata seminando placche ateromasiche in giro per le mie arterie ma salvandomi innegabilmente le chiappe davanti a due o tre vasellini ribelli, e il moncone è proprio bello. Funzionalmente bello, con cute a sufficienza … possiamo definirci contenti.

Ma io mentre chiudiamo vorrei la radio a mille per sigillare fuori il pensiero che, per un Ortopedico, amputare è l’atto più irrazionale che esista – l’atto che più di tutti va contro la logica del nostro lavoro, contro la logica di chi taglia per riparare e non per tagliare e basta. Un atto preciso come tutto quello che si fa in sala, ma di una precisione dura e irrevocabile e avvolta da una vertigine di definitività.

E non so cosa darei per essere ancora là nel mega ospedale americano, dove “Life over Limb” era il mantra di ogni 24 ore e giustificare – prima di tutto a me stessa – la lieve presunzione di questo specifico gesto chirurgico non era poi così difficile. Non so cosa darei per avere accanto D., il mio fratello-collega di tante notti di Trauma made in U.S.A., e cercare nei suoi occhi le risposte a tutte quelle domande che non permetto a me stessa nemmeno di formulare.

Ma non son da sola: c’è il Doc, che ha fatto un super-intervento anche dopo questo insensato turno devastante di quasi 18 ore all-inclusive e che non ha smesso un attimo di impegnarsi come per il più certosino dei salvataggi d’arto. Il Doc che non si piega alla fredda necessità della cosa e non si lascia anestetizzare insieme al paziente – anche se questo implica esporsi e uscirne stravolto – perché tenerci è l’unica posizione veramente umana e didattica e corrispondente.

Perché il giusto non è il comodo e non è il facile, e richiede mani salde cui aggrapparsi.

E perché quando un Energy Drink non basta per ingoiare i dubbi, quando non ci sono parole per esprimere il crollo del Parasimpatico nelle vene e la certezza di un lavoro ben fatto nelle mani e la morsa della paura intorno al cuore – perché gli anestesisti han parlato di CID e poi già altre volte è crollato tutto, proprio nel momento del massimo “controllo” … esiste solo la gratitudine di potersi affidare, e la sensazione che un abbraccio di 30 secondi possa in realtà durare 4 ore e 20. Minimo.

FiloDiK

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Didattica, cura e sogni

Scritto da Pills il 28 Agosto, 2014
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foto di NC

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Non ci sono sogni più strani di quelli fatti nelle notti delle settimane di tirocinio.
Sono popolati di camici spiegazzati, emergenze improbabili e scambi di ruolo tra studente e paziente.
Ci si sveglia sudati, frementi e con i muscoli strizzati dal “girarrosto” notturno.
– Saprò abbastanza? Mi chiederanno tanto? Mi cazzieranno? Qualcuno abbia pietà di me! –
Le domande si affollano mentre un camice inamidato si appoggia sul corpo come una palandrana da apprendista stregone.
-Ecco…Mi faranno portare secchi d’acqua come le scope magiche della Disney? –
Fonendo, fazzoletti per esplosioni allergiche, liquirizia per cali pressori e afrori (in)umani, telefono silenzioso e cartellino segnaletico.
– E se mi perdessi e non trovassi il reparto? Se al primo errore mi cacciassero? Potrò sedermi e andare in bagno? –

La porta e davanti al mio naso mezzo ignorante di studente. Busso ed entro.
Nessuno tranne i miei sconosciuti compagni di tirocinio che non salutano e osservano con occhi prematuramente giudici.
Per fortuna poco dopo di me entra la mia CompagnaAmica. Una ventata di aria fresca.
– E’ troppo presto o troppo tardi?   –
Mentre te lo domandi compaiono figuri in camice.
Presentazioni d’obbligo, controllo della presenza e scartabellamento di cartelle.
– Sei già stata in una chirurgia? –
Sì.
– Oh bene, allora oggi c’è sala. Vai di sotto ed entra e cerca il primario. Magari ti fa anche lavare se ha bisogno di una mano in più –
Orpo!
Corro con la mente ma cammino spedita coi piedi.
Arrivata prendo la divisa, mi spoglio del mio essere individuo riconoscibile ed entro nell’anonimato che tanto mi piace. Solo gli occhiali tradiscono un lato di me.
Mi infagotto con cuffietta e mascherina e divento temporaneamente una delle tante anime che vivono di neon, aria condizionata e zoccoli autoclavabili.
CompagnaAmica è con me e gode anche lei dell’essere diventata fantasma.
Segnaliamo la nostra presenza senza scoprire il volto. Si dovranno fidare delle nostre mani e del nostro sguardo.
Trovata la sala entriamo come si entra in qualità di ospiti in un salotto di una casa sconosciuta.
– Permesso? –
Formichine viaggiano attorno all’Ospite d’Onore (per comodità Doppia O). Toccano, pungono, agganciano a flebo, girano, si intrufolano, palpano, accarezzano, montano aggeggi vagamente inquietanti.
Doppia O si addormenta dopo aver detto : “Fate i bravi”.
I Chirurghi arrivano, si vestono come da rituale. Per la vestizione devi farti allacciare il dietro del camice da qualcun altro, come la mamma che ti tira su la zip del vestito elegante.
La sala trasuda intimità e distacco contemporaneamente.
Un po’ di musica e si incide.
A metà del primo taglio vengo invitata a lavarmi (l’ho già fatto in precedenza).
Tachicardia. – Posso toccare. Posso imparare! –
Chiedo aiuto ad InfermieraSorriso. Mi fa un refresh sul lavaggio. Insultiamo il lavandino poco pratico.
Mani a preghiera e mi vestono.
Porto un 6 e mezzo. Me l’ero dimenticata.
Mi accomodo e vengo investita dal fumo dell’elettrobisturi… e nel giro di un attimo gli operatori conoscono il mio nome e vengo risucchiata nel vortice del campo operatorio.
Siamo sincronizzati e anche se devo solo tenere delle spatole e altri aggeggi ne approfitto per aiutare la strumentista a tenere ordinato il campo.
Scopro consistenze strane d’organi e di vasi. Me le imprimo a fuoco nella testa per quando ri-studierò quegli apparati.
Tengo, taglio, osservo e mi ipnotizzo.

No. Non farò il chirurgo. Non ho la resistenza di fisico ed animo necessaria.
Adoro parlare con le persone. Mi mancherebbe troppo quella parte.
Magari finirò dietro la vela, diventerò quella che sta seduta e fissa il monitor e conta i complessi dell’ECG.
Così assaporerò l’intimità della sala e la sete di curiosità dell’osservatore.
In più con calma e decisione tornerò a parlare con le persone dopo un sonno popolato da chissà quali sogni e demoni.

Chissà poi quali saranno i miei sogni tormentati.
Magari saranno li stessi dei miei pazienti e lì nelle nostre paure ci terremo per mano.
Io che rassicurerò loro sulla procedura e loro che rassicureranno me con il loro essere svegli.
– Che qualcuno abbia cura di noi tutti… –

Pills

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Skyfall

Scritto da Ultiva il 18 Agosto, 2014
emozioni / 2 Commenti

 

foto di FR

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Serata in hamburgeria con i soccorritori del 118, ed io sono sempre piuttosto monotono. Parlo sempre di lavoro.

Sono quelle serate con gente che conosci poco, con cui ti capita di condividere un turno, qualche birra ogni tanto. Giusto per non fare la figura dell’orso, il mio animale specchio.

Esco a fumare una sigaretta con C. che mi chiede come è andata l’ultima settimana…. Male, rispondo.

Nell’ultima settimana – di merda – ho avuto la sfiga cosmica di occuparmi di tre ventenni, che sono finiti uno peggio dell’altro.

Racconto brevemente il caso del 21enne morto di meningite, non mi vergogno di dire che ho pure pregato perchè rimanesse nell’aldiquà. E la soccorritrice, con un sorrisetto, mi dice: “Beh, non ti ci sei ancora abituato?”.

No cazzo, non mi ci sono abituato. Neanche un pò.

A. aveva 21anni. Al rientro dalle vacanze dapprima un vago malessere, una perdita di coscienza in stazione con intervento del mezzo avanzato ed immediato trasporto nella rianimazione di D., dove le condizioni sono apparse subito critiche. GCS 15 in rapido scadimento con una TC encefalo fortunatamente libera da sanguinamenti, scambi osceni. Sedazione, IOT, rachicentesi. Risultato: meningite da neisseria.

La banale copertura antibiotica parte subito, ma non serve ad arrestare la bestia. Una bestia che si mangia A. ogni ora che passa. A 24 ore dal tubo ci chiamano, il Paziente satura 37. Non sapevo che un saturimetro potesse essere affidabile fino a valori così bassi, ma l’EGA conferma. Come sempre il mio compito è fare l’idraulico, ovvero mettere in ECMO ARDS, shock cardiogeni, ecc. ecc..

Al mio arrivo in quella che definirò rianimazione periferica A. è già evidentemente oltre ogni ragionevole speranza di sopravvivenza. La porpora forma delle macchie liquide dal ginocchio e dai gomiti in giù, impedendo al sangue di raggiungere i tessuti. Non trattengo un “Minchia!” quando vedo le gambe. Le urine sono a lavatura di carne (quei pochi ml), Crea 13, CPK 75000, Lac 20, pH 6.8, CO2 30, PaO2 40, HCO3- 24, BE – 20.

Mi avvicino al letto: i colleghi hanno fatto moltissimo, e A. sembra Cristo in croce.

E’ poco più che un cucciolo. Ce la mettiamo davvero tutta: incannuliamo, contropulsiamo, Ceprotin ed accarezziamo l’idea di un plasma exchange.

Di ammalati così ne ho già visti un tot, e ricordo un solo sopravvissuto.

Mentre aspettiamo l’elicottero faccio entrare papà, nonna e mamma. Come sempre dettaglio la situazione clinica, spiego a cosa servono le varie macchine. La nonna, con cui A. vive, mi chiede almeno una speranza. Non ce la faccio a rispondere di si. Farfuglio qualcosa tipo: “La situazione è più che drammatica, stiamo a vedere, rimanetegli vicino”.

Ovviamente i Parenti, come sempre, vedono in noi una sorta di “Delta Force”, in grado di risolvere tutti i problemi, e rimangono delusi dalle nostre risposte.

Argomentiamo con dovizia di dettagli, poi esco a fumare la meritata sigaretta post-procedura.

Me lo dicono tutti che fumare fa male, specialmente se vieni intercettato dai Parenti. A cui non posso nascondere l’imminenza del dramma.

Sono piegati, mi raccontano che A. è un appassionato di motocross, e che la settimana successiva avrebbe compiuto 22 anni. In pochi minuti so tante cose di lui che non avrei dovuto e voluto sapere.

Arriva il momento del trasferimento, che avviene senza variazioni cliniche di rilievo.

Consegnato il Paziente ai colleghi, torno a casa. Sono le otto di sera.

Mi ritrovo a pregare, a sperare nel miracolo. Io, che a Dio non credo.

Il giorno dopo le notizie sono confortanti: la porpora in regressione, le amine in riduzione. La funzionalità renale che migliora.

Forse Dio esiste?

No, non esiste. Il giorno dopo A. ha un sanguinamento intracranico che, più nello specifico, è una emorragia con inondamento tetraventricolare. Iniziano le procedure per  l’osservazione. Morirà il giorno dopo.

Mi chiamano a casa per dirmelo, siamo un bel gruppo e le vittorie e le tragedie si condividono.

Sono annichilito, frustrato: inizio con i forse…

Mi chiedo: perchè? Perchè proprio un ventunenne? Non è come per i traumi, questa è proprio sfiga.

Penso a suo papà e a sua mamma, alla nonna, alla fidanzata. Mi si chiude lo stomaco.

Cerco di spiegarlo a C., che sul 118 non vedi tutto questo, non vedi i morti che vedo io in rianimazione. Non stabilisci lo stesso lungo contatto con i famigliari, non fai in tempo ad affezionarti. Lei non mi capisce, fa il soccorritore, non è mai stata in rianimazione.

Le ho chiesto di venirci, di passare un giorno con me, di capire cosa vuol dire passare più di 20 minuti con un Paziente. Dovrebbe essere obbligatorio per un soccorritore.

Pensate soccorritori, pensate che se anche su un mezzo di base avete in mano una vita e quelle che intorno ad essa gravitano.

Ricordatevi di occuparvi dei Parenti quando il Paziente se ne sta andando, e del conforto che le vostre parole e le vostre mani, quando stringono quelle del Paziente, possono dare. Non dimenticatevi, colleghi, dell’importanza di appoggiare un braccio sulle spalle dei Parenti e della necessità di essere umani.

Intanto il mio pensiero va a lui, alla sua famiglia. E sono sicuro che l’unica cosa fatta davvero bene è stata ottimizzare l’analgosedazione, togliergli almeno il dolore e la consapevolezza dell’agonia.

L’ultima cosa che faccio prima di chiudere il pensiero su A. è di affidarlo a Matteo, il mio amico alpino, che “è andato avanti”.

Molto poco scientifico, ma sicuramente una consolazione per la mia anima.

Ultiva

Pezhman, suonatore di Tar

Scritto da Labile il 06 Agosto, 2014
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tar azerbaijan“ Se mi avessero calpestato come attraversando un campo di rose avrei parlato  con le parole profumate della poesia.

Se avessero accarezzato il mio corpo con una piuma avrei raccontato delle carezze dell’amore in una notte d’estate.

Se  avessero chiesto il conto del mio sguardo lo avrei risolto semplicemente con l’attesa, quella parola con cui gli altri mi chiamano libero e che io chiamo unicamente vivere.

Vivere,vivere, vivere senza l’infelicità di un  domani che significa morire .”

….. Appena apre gli occhi, mi vede nella penombra di una sala rossa illuminata dalla sola luce  del monitor.

Il verde smeraldo della traccia cardiaca, il tenue azzurro della traccia capnografica, il giallo siena della frequenza respiratoria.

Il bianco, il bianco, un bianco onirico che gli restituisce la mia faccia sovrapponendola a quella di un suo passato aguzzino.

“Hanno torturato il mio corpo come quello di un santo, trafitto, bastonato, saccheggiato di umori e di lamenti alla ricerca di una parola delatoria che non saprà mai raccontare l’ angoscia della mia gente.”

Stringe al petto una strana custodia nera, rigida , di pelle come quella di un violino smagrito e allungato nelle forme.

La stringe con dita lunghe e sottili, deformate leggermente a martelletto sulle punte come un suonatore a lungo invecchiato sulle corde.

Il viso ancora giovanile sprofondato in uno sguardo precocemente invecchiato, barba cresciuta nella notte e capelli arruffati in un biancore spaventato.

Fuggito da un paese infiammato  dalla guerra, attraversato da  confini mai ben  compresi per approdare in una terra amata già da lontano.

“Il verde smeraldo delle mie colline, l’azzurro tenue del cielo e il richiamo giallo dei fiori a primavera ….”

Vivere, vivere e ancora vivere della propria musica, mai soddisfatto del dolore e di un  corpo che restituisce la memoria.

Memoria  del corpo torturato, del  corpo martirizzato, del  corpo violato.

È così che stringe la custodia del suo Tar al petto, per ricordare che è lì che il suo cuore approda e trova rifugio, calcando la nostalgia come l’unica malattia che non potrà mai ammazzare.

“Non legare il cuore a nessuna dimora, perché soffrirai quando te la strapperanno via.” 

Rumi  (Jalāl ad-Dīn Muhammad Balkhī  1207-1273  poeta mistico persiano)

Labile

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