paziente

Emily

Posted by Labile on giugno 10, 2014
citazioni, ritratti / 1 Commento
immagine da RS

Unico fotoritratto conosciuto di Emily Dickinson, dagherrotipo, 1847

 

 

È quasi mattino, una luce indefinita si fa spazio nella notte avanzando coi cinguettii tipici del un risveglio estivo. Una infinita moltitudine di uccelli nascosti in ogni possibile anfratto partecipa al baccano, che a ben ascoltarlo celebra il risveglio, come una elaborata orchestra che celebra la vita.

Noi, insonni ospedalieri, siamo quasi alla fine del turno, il migliore o il peggiore, quello notturno che di piacevole ha , appunto, questa ora che ci avvicina alla fine aspettando il cambio.

Appassionante come può essere una liberazione, onirica nel bisogno di riposo, urgente e bella come la luce che invade le colline.

I  primi di raggi di sole ancora freschi e dorati come lo sono in questo mese di Luglio in un anno così indefinito da sembrare eterno.

Giunge mentre osserviamo lo splendore dalla finestre e di spalle non ci accorgiamo del suo arrivo.

Passettini silenziosi senza fretta l’hanno portata qui con il desiderio di essere ascoltata, il  peso portato nel petto nella notte appena trascorsa che  l’ha spinta a venire.

“ Solo un consiglio …  poi torno a casa, alle mie cose”.

A vederla così all’improvviso alta e magra, esile figura di altri tempi, semplice e chiara come una forma apparsa dal nulla, vestita di cotonina fiorita,  mani forti e annerite,  torte nel grembo piatto mai partorito.

Contadina scesa da uno dei paesi del monte in cui fa giorno prima, specie d’estate che l’attesa fa presto a divenire fretta, sempre, quando qualcuno ha bisogno di noi.

“ Il cuore strabatte che lo sento nelle orecchie e nel petto un volo d’anatre indaffarate che mi stringono il collo”.

Ci parla con antiche e  sorpassate parole che nessuno, oggi,  più è disposto ad usare e tantomeno ad ascoltare.

Descrive così bene il suo disturbo che ha già fatto diagnosi ben prima dei consueti esami.

È come se scendendo dal monte potesse venire a bere un bicchierino d’acqua fresca e tornarsene semplicemente così alle sue cose, al suo orto e alle sue galline.

“Alle cose che anneriscono le mie mani,  ma schiariscono bene la mente” ci tiene a dire mentre pratichiamo qualche farmaco.

Prende così l’avvio una conversazione surreale che si mischia ben presto ai suoni degli uccelli di fuori , mentre lei racconta della sua voglia contadina di vivere, semplice e con poche cose, la sua passione di scrivere “a poeta” quello che gli canta da sempre in testa.

Frasi semplici e minute, recitate a bassa voce per non disturbare chi ha sonno,

“Ne ho giusto due qui in tasca e te le voglio lasciare ….

Qualche volta mi capita ancora di trovarli quei due fogli,  avuti in dono  in una mattina di un improbabile Luglio di molti anni fa.

“A brief, but patient illness / An hour to prepare
And one below, this morning / Is where the angels are ”

(Una breve, ma paziente malattia / Un’ora per prepararsi
E una quaggiù, stamane / È dove sono gli angeli)

Emily Dickinson 1858

 

 

Labile

Tags: , ,

Medicina che racconta – 1

Posted by Herbert Asch on marzo 05, 2014
citazioni / Nessun commento
foto di GP

foto di GP

“… in medicina, il paziente racconta la storia della sua malattia al dottore, che ne rimodella gli elementi in forma medica, nel linguaggio della medicina. Il dottore di solito farà delle aggiunte, inserendovi informazioni raccolte mediante domande, esami e analisi. Il risultato dovrebbe essere una storia sensata in cui alla fine tutti i pezzi combaciano a formare una diagnosi univoca.

La storia della malattia, però, non può finire lì. Una volta fatta la diagnosi, il medico deve rimodellare di nuovo la storia che ha creato – la storia che l’ha aiutato ad arrivare a una diagnosi – in una storia che può restituire al paziente. Insomma, deve ritradurla nel linguaggio e nel contesto esistenziale del malato, cosicchè questo possa capire cosa gli è successo e trovargli un posto nella storia più ampia della sua vita. Soltanto quando un paziente capisce la malattia, le sue cause, la sua cura e il suo senso, ci si può aspettare che faccia il necessario per guarire.

(…) Ecco a cosa serve una buona anamnesi. Se fornisce al medico indicazioni sul paziente e sui suoi sentimenti circa la sua malattia, la sua vita e la terapia propostagli, può veramente essere proficua.

(…) Uno degli strumenti più importanti ed efficaci di cui il medico dispone è la capacità di restituire al paziente la sua storia in una forma che gli permetta di capire che cos’è la sua malattia e ciò che significa. Se ci riesce, offre al paziente un dono che lo aiuta ad integrare questa conoscenza nella storia più ampia della sua vita. Attraverso la comprensione il paziente può riacquistare un certo controllo su ciò che l’affligge. Se non può controllare la malattia può controllare almeno in qualche misura la sua reazione ad essa. Una storia che aiuti il paziente a dare un senso a una malattia anche devastante è una storia che può sanare. “

Lisa Sanders -“Ogni Paziente Racconta la sua Storia – L’Arte della Diagnosi” Einaudi ed., 2009

Tags: , ,

Ginocchieide (2a parte)

Posted by rens on aprile 05, 2013
testimonianze / 1 Commento

 

foto di RR

foto di RR

 

 

 

Camera operatoria.

Si fa avanti un’infermiera. Sarà la mitica anestesista? Provo.

-Io vorrei l’anestesia totale, ma mi dicono che devo…- – deve parlare con l’anestesista!-

-Lo so! Rispondo secco. È lei?- – No-.

-Ma lei è teso-, mi dice con un sorriso dietro al simil-burka che le copre il viso -…cosa la turba?-

-Certo che sono teso, è da questa mattina che mi dicono di parlare con l’anestesista… esiste costui? È un terrestre? O è un fantasma?- rispondo un po’ incavolato.-Vede, è che vorrei… ma a che serve contarla a lei se devo parlare all’anestesista…-

-Ma no, mi racconti, mi racconti tutto…-

-È che vorrei l’anestesia totale e tutti mi guardano come fossi un marziano. Mica lo faccio per sfizio, è che è più forte di me, svengo se mi bucate la schiena.-

-Non se ne faccia un problema. Anch’io avrei paura, sa? Anch’io farei la totale, c’è niente di strano. Parli con l’anestesista e vedrà che vi mettete d’accordo.-

Che mi stia pigliando per il culo, mi chiedo… Ma quella mi sorride e mi dice che non vuole vedermi arrabbiato, che posso contare su di lei, che tutto si sistema. È una persona, e mi quieto. Avevo solo bisogno di un po’ di comprensione. Un pochino. Mi parla gentile, mi fa anche una carezza sul capo. Grazie, le dico, grazie.

Intanto si fa avanti un’altra infermiera, giovane, anche lei mascherata; mi buca il braccio e ci infila un chiodo per la flebo. Non una sillaba. Neanche fossi un legno o uno straccio. Ma a queste ragazze non l’ha mai detto nessuno che i malati sono anche persone? Lo sa quella fighetta risicata che fuori di qui me la trito in un baleno? Che non le lascio nemmeno il tempo di dire bah…

Arriva un tipo, un uomo questa volta, sempre mascherato. È così in quei posti, non vedi nessuno in faccia; oltretutto senza occhiali sono proprio orbo; se si ritraessero di un metro potrebbero farmi impunemente gli sberleffi.

-È lei l’anestesista-, chiedo?

-Si, che c’è?-

Infine eccolo qui, dunque, il mio arabo fenicio.

-Senta, io vorrei l’anestesia totale, l’ho già detto a tutto il mondo, e l’avevo detto anche al dottore che mi ha pronosticato il menisco rotto, ma lì c’è scritto che mi fate l’epidurale. E tutti m’hanno detto che devo parlare con lei…-

-E perché la vuole totale?- Mi chiede; ma è gentile, affabile. Forse è un furbone.

-Perché se no le resto in mano… svengo. Prima, sotto, ho già corso grossi rischi per il prelievo di sangue.-

-E come ha fatto?-

-Ho dovuto guardare via e farmi mettere un rattoppo sul braccio. Si figuri dunque se mi buca la schiena.-

-Beh, qui ha ancora meno problemi, allora, perché non può vedersi la schiena.-

Un altro che mi piglia per i fondelli, penso…

-Comunque se vuole io gliela faccio, la narcosi, ma non le conviene sa-, dice con calma. Mi parla anche lui come fossi una persona. –Oltretutto-, continua, -con l’epidurale dopo non ha male.-

-Dice bene lei, ma se le resto in mano?-

-Beh, siamo già qui… c’è tutto il necessario, cosa vuole di più?-

Bel merlo, penso, non c’è che dire. Però potrebbe anche esser vero quel che afferma, non è scritto che debba essere un serpente incantatore. Perché è davvero difficile essere bugiardi così bravi.

Un lampo, da pazzo, come spesso m’è successo: -dai, proviamo-, rispondo. Non so nemmeno io perché. Arriva l’infermiera umana, mi infila una siringa nel tubo predisposto da quell’altra e dice quasi con leggerezza: -questa le fa bene, è bella… è buona, è soltanto un calmante…- M’hanno incastrato come un pivello. Come un novellino; non di primo pelo, ma proprio sprovvisto, di pelo. Non dispongo più d’uno sputo di difesa.

Mi segano.

Mi spostano ancora, me e il letto. Mi fanno girare sul fianco destro e portare le gambe al petto. Braccia lunghe. Sono in due lì dietro. Sento pungere la schiena. Tutto lì? Però, una bazzecola, aveva ragione il tipo. Mi rigirano pancia al cielo. Poi mi alzano un telo davanti alla faccia. Bene, non voglio vedere. Dall’altra parte del telo parlano, muovono, non so cosa traffichino. Ogni tanto la fascia attorno al braccio sinistro si gonfia: controllano se son vivo, penso. Certo che son vivo!

Ma cosa combinano lì davanti? Che diavolo aspettano? Il tempo non passa, non m’accorgo nemmeno che non sento più la gamba.

Mi hanno messo addosso le coperte con la mano destra fuori, perché è quella impalata. La sinistra sotto, a non prendere freddo, allungata sul fianco. Mentre aspetto la mano si muove. Trova una massa molle, in mezzo alle gambe, senz’anima ne corpo, incoerente. Che diavolo è? M’han tirato fuori le trippe! Ma no… Sono i genitali! Realizzo di colpo. Possibile? Tocco meglio… non li riconosco, non hanno consistenza, come non fosse roba mia; eppure il salamotto piccolo piccolo sembra proprio lui, il fratellino…

Quando eravamo bambini e nessuno ci vedeva, toglievamo i vestiti alle bambole per vedere com’erano fatte in mezzo alla gambe; senza sapere cosa cercare, per altro, ma si cercava, la curiosità era prepotente; e non c’era niente. Nè pisello nè altro. Tutto liscio, tutto piallato, nulla. Ecco, io mi sono scoperto così, quando la mano è andata a spasso sotto le coperte.

Mi spostano ancora. Allora hanno finito. Mi fanno passare in una apertura strana per mettermi dalla lettiga a un’altra.

-Si sposti!-, mi incitano.

Macchè spostare, una parola, non risponde niente. Sono di piombo.

-Dai, forza!-, insistono.

Allora provo a rotolare. -No, non rotolando-, mi ammoniscono. E come faccio allora, maledizione? Poi ci arrivo. Punto sulle braccia e sposto la schiena sul lettino a fianco; qualcuno mi sposta le gambe. Si torna al mio letto. Non so chi mi porti, sono proprio cotto. Chissà che diavoleria m’han messo in vena…

La pipì.

Letto, Mil lì vicina che sorride.

La pace dopo la tempesta. Arriva un donnone e mi cambia il recipiente della flebo. Sarà un antidolorifico, penso. Per fortuna non c’è da bucare. Il buco è sempre quello della stronzetta di sopra.

-Appena fa pipì, la lasciamo andare-, dice il donnone.

Quanto ci vorrà?

Un paio d’ore.

Il tempo passa.

Ho modo di controllare tutto me stesso lì sotto, quel che sento e quel che non sento. Gamba destra assente, sinistra presente ma senza dita del piede, e gluteo che sembra un budino, una vescica tiepida, sorda come una ciocca. Ma non c’è dolore, è già qualcosa.

Flebo finita. La sostituiscono con un fiasco. Ci sarà un litro di brodo lì dentro. Per fare pipì. -Beva quattro bicchieri d’acqua-, ordina la tipa. Questo è facile, penso. E invece no. È difficilissimo bere stando orizzontale. Difatti non c’è nessun animale che beva così, in natura. Nemmeno le lucertole: pigliano una boccata e alzano il muso al cielo per mandarla giù.

Passa il tempo. Mil va a farsi un giro, è stanca e stufa ed ha ragione. Che palle aspettare che uno faccia pipì.

Entrano due ragazzette bianco vestite. -Ha urinato?- Esclama forte una. Avrà visto il grigio dei miei capelli e deciso che sono sordo. -No-, rispondo secco. Urinare, penso: dev’essere per darsi un tono… fatto pipì non va eh, troppo umano, ma vaff… anche tu, dai. Altro fiasco da mandare in vena.

Scoccano le due ore.

-Fatto pipì?-

-Macché!-

L’infermiera è un’altra. Ma quante ce ne sono? Sono tutte qui a scrutare le mie disgrazie?

Questa però mi piace. Giovane anche lei ma semplice e umana, sorride, ha un cuore e credo anche un’anima.

Quanto ci vorrà ancora? Mezz’ora e vedrà che arriva. E intanto cambia fiasco un’altra volta. E tre! Più il primo.

Due ore e mezza, niente.

Tre ore.

Quattro, tuoni e fulmini.

-Fatto pipì?- -Nooooooooooo!-

-Vedrà che adesso arriva-, dice sorridente l’infermiera. Venti minuti.

-Provi a sedersi sul letto con le gambe penzoloni-.

Aspetto un po’ poi Mil mi aiuta. Ma come si fa a fare pipì se non ti senti il pisello, accidenti? Eppure, tra fiaschi e bicchieri d’acqua, ne avrò bevuti dieci, non quattro, dovrà pur decidersi. È un’impresa persino infilare il pisello nel pappagallo: poveraccio lui, è mortificato, potesse rientra nell’antico vano assieme ai testicoli. Ma quando tutto sembra perso…

Pipìììììììììììììììììì………… poca, ma c’è.

Robe da matti. Sessant’anni per gioire d’un bicchiere di pipì! Troppo poca, dice l’infermiera, e mette su un altro fiasco. Con questo sono quattro. Ma ormai il ghiaccio è rotto. Sono le 19.00 suonate quando l’impresa ha termine, faccio di nuovo pipì e l’infermiera dice che possiamo andare. Schizzo sul letto.

-Non vuole mangiare qualcosa?-

Ma no… andiamo via subito.

-Mangi qualcosa…-

-Un frutto-, rispondo. C’è?

-Una mela cotta?-

Perfetto. Due mele cotte, una anche per mia moglie.

-Gliele porto, ma non devo farmi vedere-, dice il mio angelo.

Si vede che c’è qualche bastardo che controlla, penso, e magari il rancio non mi spetta. Trovarlo tra qualche tempo, il verme, magari al Lauzun o al Lubè… Mangio in un lampo, Mil non ha fame. Torna l’infermiera, mi insegna a farmi l’iniezione nella pancia da solo, a camminare con le stampelle, due dritte generali; la ringrazio con un sorriso da orecchio a orecchio, l’abbraccerei, le darei un bacio, tanta è la mia riconoscenza. Tutto il contrario di quanto provo per il Dottore che mi ha operato. Lui non m’ha detto nemmeno crepa, su in camera operatoria, nemmeno m’ha degnato d’uno sguardo; gli sarebbe bastato affacciarsi oltre il telo, ma forse pensava di operare un pupazzo. Di fare allenamento. Tanto meno s’è degnato di venirmi a vedere in camera. Sono singolari questi personaggi. Autentici luminari, bravissimi e senz’anima, vuoti come una vescica; sembrano il mio gluteo sinistro quando ancora era sotto effetto dell’anestetico: lo sentivo ballonzolare se lo scuotevo con la mano ma non sapeva di nulla e non diceva nulla. Una vescica. Gli stambecchi per i quali mi sono fatto male sono molto più espressivi, ed uguali quanto a parola, perché entrambi sono muti.

Ma ora è tutto passato. Si parte. Via!

Tutti in fila.

Da quell’ospedale là a casa ci sono una novantina di chilometri. È buio pesto ormai. Mil non ama guidare di notte, conosce poco la Polo che non usa mai, e non conosce il percorso. È tesa ma si và. Faccio il navigatore.

Tutto dritto, asciutto, non c’è nebbia. Mil guida impettita, dura a metà dello spazio tra il volante e il sedile. Se la si bucasse non uscirebbe una stilla di sangue. Cinquanta all’ora, ma si va. Dietro ci sono parecchie auto. Più grandi, più piccole, furgoni e camioncini. Mil ha messo tutti in riga. Chi ha la ventura di fare il nostro percorso, viaggia a cinquanta all’ora. Passano uno alla volta dove possono.

Da quell’ospedale là a casa. Eterno.

Vicino a casa Mil si rià, tocca punte anche di ottanta chilometri l’ora per qualche istante: lì conosce bene la strada; tiene duro, è davvero grande la mia Mil, e alle 21 siamo a casa. Dalle 6.30 del mattino.

È fatta. Siamo eroi.

E tutto per uno stupido menisco… una guarnizione, o poco più. 

rens

 

Tags: , ,

Ginocchieide (1a parte)

Posted by rens on aprile 01, 2013
testimonianze / Nessun commento

foto di RR

Genesi.

Tutto è cominciato il 31 dicembre. Dodici ore in più e il 2012 sarebbe finito senza guai, e io non sarei qui a scrivere dei miei bubù.

Anche se forse tutto è iniziato ad agosto, al Lubè, mentre portavo a casa una roverella per i bari dell’orto.

Pesava come ferro quella pianta, e salendo verso il sentiero, subito a monte del ciabot, sono scivolato; non potevo cadere con quel carico sulla spalla, lì dove è pieno di pietre e lose spigolose. Così avevo fatto forza sulle gambe ed ero riuscito a stare in piedi. Ma al ginocchio destro avevo provato una sensazione sgradevolissima; non dolore puro, ma come di qualcosa che grippa, che si incricca. E nei giorni successivi il ginocchio aveva cominciato a darmi fastidio e non potevo più chinarmi col peso del corpo sui talloni, ché faceva troppo male. Un problema fotografare i fiori. Dovevo avvicinarmi a terra allungando le gambe, niente ginocchia piegate. Più d’una volta, dimentico del problema, ho ribaltato come un fesso. Poi, piano piano la situazione era migliorata, tanto da indurmi a pensare: prima o poi passa e mi lascia in pace. Perché la mia filosofia è: come viene, prima o poi il bubù se ne va.

E così ero arrivato al 31 dicembre, Vallone di Massello, prati tra la Cascata del Pis e le Miande Lauzun; a correre dietro agli stambecchi che, in quella stagione, lì si riuniscono per fare l’amore; quasi in gruppo… lo sapessero i vescovi…

Salendo, piccola scivolata, proprio piccola, da nemmeno registrare, sul prato, ma con ginocchio destro tutto chiuso. Di colpo. Che male. Una legnata. Quando ho cercato di muovere, dopo un attimo, una spilla di fuoco tremenda mi ha schiacciato a terra. Di qui non vado più via, ho pensato. Qualche istante e ho riprovato, e la fitta era un po’ più leggera. Ancora un attimo e sono riuscito ad alzarmi. Che male, ma ero in piedi, forse potevo rientrare con le mie forze.

Prima però sono ancora riuscito ad andare dietro agli stambecchi, e li ho anche agguantati… con l’obbiettivo, intendo.

Nei giorni successivi sono ricorso alle arti di Fiurelin, l’amica carissima fisioterapista, a qualche cerotto anti infiammatorio e mi sono rimesso. Quasi. Perché sapere d’avere un ginocchio che può mollarti da un momento all’altro non è bello. E se mi molla al Col dell’Arcano? Pensavo, ai Laghi dell’Albergian? Anche solo a Roca Cadrega? Alla Cascata di Mil?

Così sono andato a fare la risonanza, e lì non hanno detto niente di particolare, niente di molto diverso da quanto emerso già in agosto dove, con un’altra risonanza a seguito dell’incidente del Lubè, era emerso che si, il ginocchio non era splendido, ma nemmeno da buttare; un ginocchio di sessant’anni, tutto lì. Ma questa volta, dopo la risonanza, Mil mi ha guidato da un luminare, il quale, dopo attenta meditazione e dopo avermi fatto un male cane, ha decretato: menisco rotto. Ed eccomi qui, claudicante, a raccontare per trascorrere il tempo, e pure un po’ per ridere, delle mie sventure di inseguitore azzoppato di stambecchi e di trasportatore mediocre di travi di roverella.

Il decreto.

Era giovedì 24 gennaio quando il dott. Tal dei Tali decretò che il menisco era rotto.

Intervento in quell’ospedale là, ragionevolmente verso la metà di febbraio. Telefonare per mettermi d’accordo. Tipo freddo, il luminare, di quelli formalmente corretti che ti fan sentire una merda, perché dall’alto del loro io non scendono al tuo basso. Da quell’altezza, però, dovessero mai cadere o trovare la loro roverella, sai che tonfo.

Telefono due giorni dopo e mi confermano ipotesi metà febbraio, da definire.

Si trae il dado.

Lunedì 11 febbraio, sono al lavoro.

È l’una, ho appena finito di mangiare quando squilla il telefono. Sono solo e sono in pausa, non ne sono tenuto e non rispondo: chi me lo fa fare, in quel luogo di puttane e ruffiani. Ma il telefono continua e alla fine, non so perché, alzo la cornetta. È la segretaria della clinica, quella che ho sentito una settimana prima. -Si è liberato un posto per il 14 febbraio, dice, se le va bene… –

-Ceeeeeeerto che mi va bene-, così la facciamo finita, penso. Ma poi… 14 febbraio, giovedì… tra tre giorni… quasi cado dalla sedia. -Mi lascia mezz’ora per decidere?-, le chiedo? -Va bene-, risponde.

Telefono a Mil, dice OK, richiamo la clinica ed è fatta.

Sono basito: non mi sembra vero: tre giorni e mi segano. Bene, così non ho tempo di pensare e penare, si fa tutto mentre fa freddo e fuori non si può concludere un gran che, nemmeno andare per roverelle al Lubè!

Tempo di darmi da fare.

Il gran giorno.

Giovedì 14 febbraio. Giorno del mio secondo menisco. Il primo fu dieci anni fa, se ricordo bene.

Alle 7.30 siamo in clinica. C’è già la coda per farsi ricoverare. Una signora gentile mi dice che per gli esami devo salire, che i documenti di ricovero li fanno anche dopo.

Salgo, Mil continua la coda.

Sopra, al terzo tentativo trovo lo sportello giusto, sanno addirittura chi sono – mi sento importante -, mi danno un foglio con su il mio nome e la mia data di nascita: sono il numero otto!

Mi fanno accomodare in una grande sala dove siamo in pochi. Ma in un baleno è colma. Le 8.00 e nulla si muove. Mi raggiunge Mil; che aspettano? Un attimo e d’incanto si va, ne chiamano otto, entro di culo nel gruppo d’elite. Vado davanti a una stanza ad aspettare in piedi. Dentro nemmeno un lettino, dissanguano da seduti. Brutta faccenda, per me. Per fortuna arriva un’altra infermiera uscita da un’altra stanza; cerca l’otto, per l’elettrocardiogramma, così guadagniamo tempo, dice…

Mai fatto l’elettrocardiogramma. Osservo curioso che mi agghinda, dopo avermi spruzzato d’acqua petto, caviglie e polsi. Poi mi collega, mi sistema modello defunto ben disteso ma con braccia ai fianchi, e via. Un attimo e mi toglie gli aggeggi e sono fuori, di nuovo davanti alla porta dei vampiri. E torno in crisi. Passeggio, mi allontano, cerco di pensare ad altro. Mi chiamano. Entro e dico subito alle due infermiere che ho dei problemi, che potrei svenire. Solite mezze risatine, il diavolo le porti, ma sono gentili. Mi fanno mettere sulla poltrona e mi ribaltano a testa in giù. Quella che mi buca è incredibile. Mano leggerissima. Un attimo e sono fuori anche di lì. Ma prima le dico che ho chiesto l’anestesia totale… Dice che l’ha scritto sui fogli grande come una casa. Ma bisogna parlare con l’anestesista. Va bene.

Si va al terzo piano. Infermiera gentile coi capelli rossi. Ancora un chilo di carta da compilare.

-Anestesia totale-, ripeto. -Bisogna parlare con l’anestesista-, conferma.

Attendo, molto, che mi diano una camera. Alle 9.30 l’ottengo: 333, c’è scritto fuori dalla porta. Dopo un po’, altra infermiera, pure lei gentile, a farmi la barba al ginocchio da segare. Tricotomia si dice, perbacco!

Anche con lei: -anestesia totale-, abbozzo… -Bisogna parlare con l’anestesista-.

Poi se ne va.

Pausa eterna.

Eccone un’altra. Giovane, mulatta direi, quasi carina, ma antipatica. Mi porta il costume per la camera operatoria. Spiega: -alcuni minuti prima di salire veniamo ad avvisarla, così si prepara: nudo come un lombrico, mette slip, cuffia, calzari e tunica-.

Ci provo anche con lei: anestesia totale… -Bisogna parlare con l’anestesista!-

Comincio a essere nervoso. Che mi stiano prendendo per il culo?

Aspettiamo.

Io che mi riscaldo, Mil anche, nel timore che mi saltino i nervi.

Eterno.

Tempo per scoprire che ho un calzino bucato. Maledizione, non le metto mai quelle calze, le ho scelte per esser un po’ più figo… e sono bucate. Porco mondo. Mica ho pensato a controllare se avevano dei buchi, questa mattina all’alba… Le tolgo, così non si vede il buco. Nella stanza fa caldissimo, ma ho i piedi di ghiaccio. Tensione, fifa, nervoso. Li tengo in mano per scaldarli. L’orologio sembra fermo. Qualcuno ha incollato i numeri.

Non viene nessuno.

Le 10.00; 10.30. E se mandassi tutti a cagare e me ne andassi? Questo pensiero garibaldino in camicia rossa mi insegue e mi martella sempre più deciso in testa. Quasi quasi, mentre ho ancora le mie gambe da corsa… Perché si può morire anche senza l’aiuto dei medici, diceva un mio amico tanto tempo fa.

11.00; niente. 11.45 o giù di lì: rientra la tipa antipatica.

-Si prepari che andiamo-, annuncia.

Mi spoglio e Mil mi aiuta nel passarmi il costume da camera operatoria. Anche lei è tesa. Cerchiamo di ridere e scherzare. Che forza la mia Mil.

I mini slip sono molto sexi. Da gigolo. Da una parte un triangolo più grande, dall’altra un rettangolino piccolo piccolo. Due spaghi per la vita. Quale sarà il davanti? Quello più piccolo, dice Mil decisa. Infilo così. Quel rettangolino tiene su, si e no, il pene che, pur ridottissimo per la tensione, non ci sta; esce una volta a destra e una volta a sinistra. Forse va al contrario. Si, così va meglio.

Rientra la tipa: mi fa salire su una sedia a rotelle. Mi dice di tirare su i piedi. Dove? Tiro su i piedi… Il predellino è aperto! Se ne accorge, traffica un po’ e ce la fa.

Andiamo.

Non una parola: come fossi un sasso.

Vaffanculo, ragazza!

rens

Fine della prima parte (continua)

Tags: , ,