pronto soccorso

Brutto, sporco e cattivo.

Posted by rem on settembre 26, 2017
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foto di MFR

foto di MFR

Mentre lo trasbordano dalla barella dell’ambulanza, emana una nuvola di polvere e un fetore che ti tiene lontano, a metri di distanza; ha una casacca e dei pantaloni luridi, bagnati e spessi da cui cascano piccoli pezzi di terra ed erba e chissà cos’altro
Il volto paonazzo, la barba bionda tutta appiccicata, fa tutt’uno con i capelli da sembrare una criniera e, in effetti, lui muove la testa roteandola e per giunta ci aggiunge dei suoni incomprensibili, si direbbe un ruggito, sembra il leone delle Metro Goldwyn Mayer

Ha due occhi azzurri che sembrano non entrarci niente con tutto il resto, vagano persi senza contatto con l’ambiente, si direbbero anche loro senza fissa dimora, chissà cosa guardano chissà cosa cercano… Ogni tanto lancia urla primitive, ma non sembra sofferente, se ti avvicini si oppone, oppositivo si dice, oppositivo e incomprensibile
Tutto è incomprensibile in questo uomo spiaggiato sulla barella come un migrante venuto chissà da dove. Lo spingono gentilmente lungo il corridoio mentre tutti i presenti fanno facce schifate e si tappano il naso con le dita, poi via dentro una stanza singola, deodorante spray a manetta in una stanza desolante del pronto soccorso.

Il solito barbone ubriaco
Ne passano troppi per farci caso
Dopo qualche ora, smaltita la sbornia, si alzano raccolgono le loro cose e si allontanano.
Sono problemi che si risolvono da se, non c’è niente che si debba fare

E altri mille casi suonano il campanello del Triage

Ma questo non si alza.
Meglio andare a guardare
È lì da un po’, si lamenta ma un po’ meno, qualche ‘ruggito’ ma più sommesso.
Meglio provare a togliere quei vestiti sporchi e cercare di visitarlo, superando l’odore che ti farebbe rimbalzare lontano.
Niente, non si capisce niente.
È un’enigma, un quesito umano, non solo diagnostico.
Ma come si fa a ridursi così, cosa ti deve essere successo nella vita?
L’infermiere riesce a prendere due parametri, a prelevarlo, io lo visito, lo mando in radiologia per una TC ma non è che serva a molto
Si capisce solo che non è messo bene, chissà da quanto.

Lo ricovero, faccio una cartella, imposto una terapia

Pochi giorni ed è già morto
Ma era già morto, chissà da quanto
Da quando aveva ‘scelto’ quel degrado, quella deriva dell’esistenza, da quando aveva deciso di lasciare andare tutto, di smettere di resistere, di lottare e di lasciare che il mondo gli passasse sopra come un caterpillar.
Era solo quel che rimaneva dopo che il mondo gli era passato sopra.

Due volte morto…dov’è che si scrive?
Compilo l’Istat ma i moduli bastano per una morte sola

Rem

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L’uomo fantasma

Posted by Stellasplendente on maggio 12, 2015
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Foto di MV

Foto di MV

Il barbone fumè sfiorava il petto, sopra la camicia hawaiana tarmata, ed era pieno di briciole di pane e residui di cibo. L’addome gonfio per l’imponente versamento ascitico gli rendeva difficili tutti i movimenti. Stava seduto a bordo letto con le gambe gonfie, che trasudavano siero, penzoloni dal letto. Accanto a sé, sul tavolino bianco di plastica, in mezzo a bottigliette d’acqua vuote e fazzoletti di carta usati arrotolati, una fotografia che lo ritraeva, con qualche anno in meno, ma sempre con l’inconfondibile barbone, insieme a un cane di media taglia color champagne, intento a leccargli l’avambraccio sinistro.
L’uomo, tossicchiando, cercò di attirare l’attenzione della dottoressa, intenta a fissare l’immagine. Sembrava le avesse letto il pensiero.
“Lui è Jack”, la voce dell’uomo, da vecchio fumatore di sigarette, era roca. Gli occhi erano solcati come da pneumatici di un TIR. “L’ho trovato per strada due anni fa. Anche lui un randagio, come me”, aggiunse con un fil di voce. Era evidentemente dispnoico e la posizione seduta gli permetteva di respirare un po’ meglio.
“E dov’è ora?”. Gli occhi verdi della dottoressa non riuscivano a staccarsi dalla fotografia. Immaginava le mani callose e unte dell’uomo che accarezzavano la bestiola.
“L’ho dovuto lasciare alla signora Maria, la perpetua del parroco. L’unica che si ricordava di portargli qualche scatoletta di cibo. Lo terrà con sé qualche giorno, poi lo porterà in canile. Il suo padrone di casa la scaccerebbe se sapesse che tiene un animale in casa”. Gli occhi dell’uomo si fecero umidi e con la mano si asciugò una lacrima. La dottoressa deviò il suo sguardo sulle unghie luride del suo paziente e pensò che gli infermieri avrebbero avuto un bel po’ di lavoro di brusca e striglia da effettuare.
“Ma non ha qualche parente cui affidarlo durante il periodo della sua ospedalizzazione?”. La dottoressa non riusciva a darsi pace. Il suo interesse per la creatura era ben superiore a quello che avrebbe dovuto prestare per raccogliere l’anamnesi del paziente. In realtà era l’aspetto umano di chi vive per strada e per di più con un cane, quello che le interessava. Immaginava l’uomo che, con la sua grossa stazza e i vestiti lerci e sgualciti, se ne stava sdraiato su un pezzo di cartone per strada, in fila indiana con altri clochard lungo il ciglio di un’affollata strada pedonale del centro cittadino, con a fianco il suo cane scodinzolante. Riusciva a immaginare anche il rivolo di saliva che usciva dalla bocca della bestia mentre leccava il suo padrone e i suoi grandi occhi neri sognanti, innamorati del grande uomo senza casa. Si sentì stringere il cuore in una morsa di dolore e di compassione.
“Dottoressa, io non ho parenti e non ho amici. Ero solo al mondo, prima che arrivasse Jack nella mia vita. Lui è tutto quello che ho in questa vita. Non desidero altro”. Una goccia di sangue uscì dalla bocca dell’uomo. Si stava mordendo forte il labbro con il suo unico dente rimastogli, un premolare inferiore nero e cariato. La dottoressa si avvicinò con una garzina per tamponargli la bocca, ma prima indossò i guanti di lattice. L’alito dell’uomo era quello della frutta marcia e la dottoressa scostò il viso e si pinzò discretamente le narici con la mano sinistra, quella non intenta al soccorso.
“Mettiamo un po’ di ossigeno”. Il respiro del paziente si faceva sempre più rapido e superficiale. La dottoressa prese un saturimetro e la fronte le si aggrottò leggendo il numero sul display: ossigenazione sessantacinque per cento!
“Dottoressa, io…io devo scendere sotto nell’atrio”.
“Non se ne parla neppure!”. La voce della dottoressa era ferma e risoluta. Preparò l’erogatore nasale decisa a imporlo al suo paziente. Non c’era tempo da perdere.
“Devo scendere. Devo! Voglio vederlo. Un ultima volta. Il mio Jack! E poi farò quello che dice Lei. Poi morirò in pace”. Le labbra si facevano sempre più cianotiche e il respiro stertoroso. Si potevano udire grossolani rantoli senza bisogno del fonendoscopio.
La dottoressa si rese conto che sarebbe stato inutile cercare di fermare il suo paziente. Con uno spintone avrebbe potuto farla cadere. Anche se debole e fiacco, la sua corporatura massiccia e l’enorme quantità di liquidi accumulati nell’addome e nelle gambe, lo rendevano imponente.
L’uomo si alzò risoluto dal letto. Appoggiò le gambe a terra e cercò di fare uno, due, tre passi. Poi le gambe cedettero e il barbone cadde a terra, franando fragorosamente con la testa contro il lavandino posto di fronte al letto. Il suo unico dente schizzò via dalla bocca e la barba si riempì di schizzi di sangue, che imbrattarono anche la camicia hawaiana.
La dottoressa afferrò un campanello e lo schiacciò con tutta la sua forza: “Aiuto! Presto! Portate il carrello dell’emergenza e il defibrillatore!”.
Il corridoio freddo e grigio si riempì di rumore di zoccoli sul pavimento appiccicoso di detersivo. In pochi istanti l’uomo aveva tutti intorno a sé, tutti quelli che negli anni lo avevano guardato senza vederlo, fantasma in carne e ossa. Si ritrovò in un baleno con un tubo in gola e placche che scaricavano elettricità sul torace peloso. Braccia affaticate gli premevano contro il petto, imprecando contro il tempo, e che gli conficcavano aghi nella pelle per somministrargli i farmaci della speranza.
Nell’atrio dell’ospedale un cane di taglia media color champagne e una donna canuta attendevano, invano. Il cane, improvvisamente, smise di scodinzolare. E tutto, intorno a lui, si fece buio.

Stellasplendente

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Rebus

Posted by Badev on novembre 29, 2013
emozioni / 3 Commenti
Foto di BDV

Foto di BDV

Contro il panorama della collina stavi fermo fermo, con il tuo segreto zitto tra le labbra.
Io non voglio scrivere di te, che sei solo da proteggere, da avvolgere in una carta velina azzurra, voglio scrivere di me, di noi che restiamo qui al posto tuo. Di noi che chissà che cosa ci aspettiamo da una fiala di adrenalina certe volte. Alle nove, abbiamo infilato il cappotto sopra la lisca che restava di noi stessi e ce ne siamo andati a casa curvi, scuotendo solo la testa, come resti di pesci mangiati e buttati in pattumiera.
Che dirti, bambino, se non che ora hai la chiave del rebus che a noi manca, noi che usiamo l’indicativo presente, ma siamo al buio e ancora in piena battaglia navale, noi fuori dal ventre della balena che non sappiamo esattamente a chi o a che cosa ti abbiamo restituito.
Sono rimasta un po’ con te, sbriciolata da domande, ben aggrappata alla scaletta di quella piscina in cui non saremo mai pronti per scendere, un luogo senza respiri, senza sillabe, senza un movimento della bocca per assaggiare queste buone fragole di aprile.
Ti ho guardato come si guarda una fiammella che si increspa al vento, ti ho osservato mentre approdavi, così bello e immobile, a una silenziosa riva di arrivederci.

Badev

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Hänsel & Gretel

Posted by Labile on settembre 29, 2013
cronache / 2 Commenti
Foto di  GN

Foto di GN

Compaiono e scompaiono come figure che escono dai sogni.

Arrivano a sorpresa nelle ore più impensate, non guidano e prendono solo autobus a orari impossibili, quelli da trasporto notturno o quelli della pausa pranzo infinita dei pomeriggi d’estate.

Arrivano sempre accompagnati dai loro abituali problemi, inconfondibili e ormai conosciutissimi.

Di quelli che non capisci mai bene se riguardano la salute del corpo fisico, o di quello mentale o unicamente di quello sociale.

Come Hänsel e Gretel, li immagino così, mano nella mano affiancati nella vita da una fratellanza necessaria e indivisibile, che li porta in Pronto Soccorso con i loro problemi.

Bella allegoria dell’esistenza, povera economicamente ma dignitosa di quella cultura ormai scomparsa, contadini incrollabili di un mondo trascorso che non sopravvive ormai più nemmeno nei film.

Fibrillanti, diabetici e ipertesi, si barcamenano nelle loro giornate piegati alla raccolta di frutti della terra con cui si sostentano, magramente integrati da due misere pensioni sociali.

Di quelle che servono per comprare lampadine da pochi watt, niente frigorifero (“a che serve?”), un solo paio di scarpe, qualche maglietta e pantaloni solo per cambiarsi quando si fa il bucato, casa con poca acqua corrente di quella che basta a lavarsi la faccia.

Il viso che mostrano è quello che confondi spesso, sembrano due gemelli siamesi separati solo nel sesso e da un magro anno di attesa. Oggi quasi identici quando si scambiano i vestiti, o quando li incontro nei pressi della loro casa sul ponte, mentre vado al lavoro e li vedo spingere una  carriola  carica di improbabili cose raccolte qua e la.

Eppure gentili come sanno essere gentili solamente loro,  persone semplici e perfette,  di una condizione mentale ormai rara, la tranquilla pazienza del vivere con quello che si è, immersi nel sole, nell’aria e nella pioggia quando arriva.

Senza lamentazioni da inviare e nessun dio da invocare o da maledire.

Solo a chiedere, quando qualcosa vacilla, un aiuto, “Magari piccolo  per farci passare questo cuore pazzo e questo  rumore nelle orecchie che non ci da pace”.

E poi vanno via, desiderando di andar via, di fuggire quasi furtivi così come sono arrivati.

Svignarsela da questo Pronto Soccorso, per dimenticare di aver bisogno di noi, ringraziando a piene mani, salutandoci come vecchi parenti o almeno sinceri amici e di nuovo avviarsi mano nella mano come i due leggendari fratellini dei Grimm.

“Ah,

cara anatrina,

prendici

sul tuo dorso.”

Udite queste parole, l’anatrina si avvicinò nuotando e trasportò prima Gretel e poi Hänsel dall’altra parte del fiume.

Labile

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Valentina

Posted by Labile on maggio 01, 2013
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“Ohi, Valentina, gambe lunghe per ballare, oh, Valentina, ogni ballo un grande amore, cocca, polpa di albicocca, che ti da’ con tutto il cuore, oh, Valentina, che prima gioca e poi ci muore”.

Questo mi viene in mente appena vedo arrivare in sala rossa la ragazzina in coma che velocissimi i colleghi del 118 ci portano avendola raccolta, ci dicono, da una festa. Si, proprio Valentina, quella di Crepax prima, poi cantata dalla Vanoni all’inizio degli anni ’80. Sembra quella Valentina, stesso taglio di capelli neri, età approssimativa 16 anni, vestita di jeans e magliettina, scalza. Un po’ poco in questo freddissimo 31 dicembre in cui il capodanno viene anticipato da brevi scoppi e isolati fuochi d’artificio, che un po’ dovunque intorno a noi anticipano l’attesa.

Valentina non dà segni di risposta, respira sufficientemente con un lieve sibilo e ci appare totalmente indifesa mentre procediamo nelle manovre solite. I colleghi del 118 ci sanno solo dire di aver ricevuto la chiamata da una festa di Capodanno in una villa poco lontana dal centro, non hanno raccolto notizie certe e sufficienti a capire l’accaduto. Il solito scenario di una festa: musica ad alto volume, tanto fumo ed alcool, tanta gente indaffarata in occupazioni varie e Valentina stesa all’esterno in mezzo al prato. Nessuno l’ha notata, nessuno sa esattamente da dove arriva. È lì inerme e sola in mezzo al prato appena gelato dalla brina notturna del Capodanno 2011.

Tirando via i jeans e la maglietta, ci guardiamo e facciamo tutti lo stesso pensiero, qualcosa di strano ci appare indecifrabile e senza risposta. La ragazza, sotto i jeans, indossa un paio di hotpans neri satinati, sflilata la maglietta indossa un toppino traslucido di strass. Ci diciamo che le stranezze viste in un Pronto Soccorso non sono mai troppe e che Valentina resterà sicuramente nell’annuario dei tipi insoliti.

Però Valentina oltre al coma non risvegliabile e ai suoi abiti minimali, mostra una serie di ecchimosi disseminate un po’ ovunque, soprattutto su gambe e braccia e dal colore sembrano essere recentissime. Parametri vitali stabili ci fanno pensare con calma all’accaduto e consideriamo in successione una aggressione, una violenza, l’assunzione di qualche sostanza d’abuso, insomma a tutte quelle ipotesi tipiche che necessitano di ulteriori azioni.

Qualcuno ci vuole parlare e si affaccia timida una ragazza bellissima e impellicciata, tacchi stratosferici e un viso truccatissimo di quelli da struccare in una settimana, in mano un paio di scarpe dai tacchi esagerati. Ci dice che sono di lei, Roberta, una sua amica invitata alla festa di Capodanno che si sta tenendo nella sua villa in campagna. Roberta è minorenne ci dice e quando gli chiediamo un telefono dei genitori risponde di non saperlo. Solita storia, genitori separati, lei che vive con la madre, padre assente. Tanto tempo libero passato con le amiche sedicenni, scuola maltrattata dalle seghe ma tanta irrefrenabile voglia di vivere.

Intanto ci arrivano gli esami di laboratorio, tutto normale, niente droghe ma tantissimo alcool, ad un livello tossico tale che spiega così il coma, che ora possiamo finalmente definire etilico. Allora da brave lavandaie cominciamo ad infondere liquidi e dopo qualche litro si fisiologica. Valentina/Roberta comincia a rispondere, apre gli occhi, si guarda intorno con uno sguardo interrogativo. “Che ci faccio qui?” ripete in continuazione. Pian piano iniziamo a parlare, la sua amica rassicurata se ne è tornata alla sua festa. Il Capodanno nel frattempo è scoppiato intorno a noi nel fragore generale, immaginiamo che fra un po’ ci arriverà tutta la casistica solita di questa occasione.

Roberta riacquista velocemente la parola e ci dice in successione che la madre con cui non ha un buon rapporto non sa esattamente dove si trova, non sa nulla della festa e quella sera di litigio casalingo l’ha vista andare a dormire nella sua stanza. Invece Valentina/Roberta esce dalla sua stanza, quindici anni e mezzo saltati dalla finestra e via con la sua amica ad una festa fuoriporta. Lo scavalco non è stato dei più semplici e tutte le ecchimosi provengono da lì. Alla festa, ci dice, ci sarà il ragazzo che, inconsapevole, lei ama. Ha immaginato decine di volte lo scenario festaiolo, capodanno e lei che esce dai jeans. Il ragazzo che la guarda e sguardi giocati silenziosamente. Invece Roberta si incazza sempre più per sguardi mai ricambiati e beve, beve in continuazione in questa festa che si avvia alla mezzanotte, senza trovare quell’amore per cui si trova qui. Infine si scola anche una intera bottiglia di spumante quando il ragazzo indifferente si apparta con un’altra. Niente violenza, niente assunzione di droghe, niente amore. “Niente di niente”, dice Valentina piangendo sommessamente mentre il rimmel cola sulle sue guance di ragazzina.

 

“E allora corri, corri come un sogno, fuori strada e fuori sintonia
corri, corri come corre il tempo che ti da’ un minuto e dopo va via….”.

(testo della canzone di Ornella Vanoni/Sergio Bardotti, immagine di Guido Crepax)

Labile

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Centodue o centoquattro

Posted by Labile on dicembre 08, 2012
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foto di SC

foto di SC

centodue o centoquattro…” mi dice, così di colpo, appena mi avvicino per sistemare le barelle  dell’attesa.

centodue o centoquattro …” mi ripete indicandomi con un dito puntato.

Non capisco e li per li penso “ Ecco, la solita …”. Invece afferro il suo sguardo interessato, guarda proprio  alla mia persona, a qualcosa di fisico che l’ha colpita da quando lei è qui e  si può dire ormai già da qualche ora, mentre se ne sta sdraiata su una delle barelle dell’attesa.

All’improvviso capisco e rispondo “centonove, sono centonove grani”.

Per lei il rosario tibetano che porto al collo, più per vezzo che per altro, la deve aver colpita fin da subito e questo le ha dato modo di rivolgermi la parola e di catturare, lei,  la mia attenzione.

Ora che la guardo meglio mi accorgo di non averla nemmeno notata nel trambusto generale che regna sempre in questo pronto soccorso e stranamente non ha colpito neanche l’altro collega che ha lavorato con lei.

Se ne sta sdraiata su una barella come una paolina borghese di periferia,  in jeans e maglietta ordinari,  una bella faccia in decadimento, resto di una bellezza giovanile nemmeno poi tanto lontana.

Da subito mi dice che la sua crisi d’ansia ormai sta scemando e che qui in pronto soccorso trova sempre un posto dove venire. Ci vuole solo restare qualche ora e passarci un po’ più di tempo anche se dimessa , la fa rimanere calma e così affrontare meglio le prossime giornate.

Intanto ha riconosciuto il rosario e mi dice che anche lei è molto interessata alla religione buddista perché le sembra l’unica che la lascia respirare.

Si dice proprio così “respirare quello che ad oggi le manca di più: il respiro”.

Mi racconta con parole precise di essere da un decennio fuggita da una brutta periferia romana e di essersi innamorata di una casetta con un pezzetto di terra qui in campagna.

Le è sembrato immediatamente il suo piccolo e grande paradiso e solo l’idea di essere tornata alla terra l’ha fatta   prestissimo sentire di star bene.

Mi racconta che era da tempo che non riusciva a prendere una decisione, andar via dalla città, dalla vita convulsa e disordinata,dagli orari stretti, ma più di ogni altra cosa dal senso di solitudine che nonostante l’affollamento di persone non riusciva adattraversare.

Invece la “campagna”, così come lei da definisce, la ha restituita in qualche modo a se stessa e ha di nuovo poggiato i piedi per terra.

Così con entusiasmo si è caricata del solito mutuo e della fatica di lavorare duro per poterlo pagare e così starci  dentro fino alla fine del mese, magari con difficoltà ma felice del suo piccolo e grande paradiso.

Tutto è filato liscio per più di dieci anni sentendosi quasi a metà del guado, finalmente felice della propria vita e della sua casetta finché,  mi racconta, la perdita del lavoro.

A raffica mi dice di aver perso il lavoro e di non riuscire più a pagare il mutuo, si la cassa integrazione, si il blocco annuale del pagamento, si la ricontrattazione del debito, una infinità di problemi che la hanno condotta qui su questa scomoda ma rassicurante barella, dove qualche goccia e le nostre chiacchiere la svuotano di quel senso di perdita infinita che non riesce più a contenere.

Allora smette di respirare, magari così la invade completamente la vertigine che la divora ogni giorno, quella che la conduce a vestirsi di abiti comprati  sui banchi dell’usato o a mangiare i cibi scadenti del discount.

Tutto così, tanto per stare ancora dentro la propria persona e non perdersi, mi dice,  in un orizzonte che non ha più luce.

È per questo che è qui, col suo senso di panico che anche in questo tardo pomeriggio trova apertura e voglia di parole, un po’ di più dei miei centonove grani di rosario.

Labile

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