rianimazione neonatale

Non svegliare il can che dorme

Posted by massimolegnani on gennaio 27, 2013
racconti / 10 Commenti
Foto di MV

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Me, non mi devono svegliare nel cuore della notte, che poi resto sfasato un bel tot di ore. Il meglio lo do fino alle tre del mattino, saltabecco qui e là con la freschezza di un cameriere a inizio turno, viaggio veloce per le scale come avessi una pila duracell e mi destreggio tra barelle e culle con la lucidità di un campione di scacchi che gioca una simultanea contro quindici avversari.

Ma dopo quell’ora è nebbia in val padana.
I miei colleghi ormai lo sanno e rinunciano ad un aiuto che sarebbe solo sulla carta. Se la cavano da soli, maledicendomi in silenzio e io nel sonno m’impegno a registrare una lieve irrequietezza, un doveroso sprazzo d’incubo partecipe dell’affanno altrui.
Ma ogni tanto c’è qualcuno nuovo che non sa come gira il nostro mondo e chiama. E allora son dolori. Non che io faccia sfracelli con l’incauto, è che faccio pasticci con chi non c’entra.
Come due ore fa, quando mi hanno scaraventato giù dal letto che erano le quattro del mattino.
Corro a sciacquarmi la faccia e a mettermi le lenti e mi precipito in sala parto. Mi precipito per modo di dire perché ho difficoltà a mantenere il pavimento in piano, mi sembra disassato, come anche tutto il resto: è come se vedessi da una parte le cose troppo vicine e dall’altra assai lontane. Penso ad una dispercezione legata al sonno e mi arrabatto a camminare storto con la testa tutta sbilenca per compensare in qualche modo la visione asimmetrica.
Quando, rasentando il muro a palmi aperti, entro in sala parto, tutti mi guardano stupefatti. Peggio del solito, mi redarguisce la vecchia ostetrica, che mi conosce bene. Perfino la donna che sta per partorire e che fino a un momento prima avevo sentito urlare, alza la testa e ammutolisce; certo si sta chiedendo se sono ubriaco e subito riprende a urlare con una disperazione in più. Faccio un cenno con la mano per dire che tutto è sotto controllo, ma non ci credo nemmeno io, figuriamoci loro. Per pura formalità, mi ragguagliano sul caso, la signora è completamente dilatata, dovrebbe partorire da un momento all’altro, ma qualcosa impedisce al feto di procedere. Nuovo cenno di rassicurazione da parte mia, ma il mio tastare gli oggetti usuali come un cieco, non aiuta nella rassicurazione.
D’altra parte, da quel poco che riesco a vedere anche gli altri protagonisti di questa sceneggiata non sono al meglio: il ginecologo è tutto storto da far invidia ad Andreotti e indossa sotto il camice un giubbotto di piumino, che qui ci sono almeno quaranta gradi. Ho il torcicollo, mi dice, ma secondo me è un eufemismo per non ammettere che è proprio messo male; ogni volta che deve controllare a che punto è arrivato il bimbo, compie tre lenti giri su se stesso come si stesse avvitando prima di riuscire a tuffare la faccia all’altezza giusta tra le cosce della signora. L’inserviente di sala non so che le ha preso, ma sembra un tacchino col singhiozzo, ciondola il capo e rincula il sedere in un sincronismo da ballerina di tango. E poi c’è l’infermiera del nido, la Silvietta, una vera bambolina. Se ne sta in un angolo tutta intabarrata nel camice da sala, pronta a raccogliere il bimbo che chissà quando nascerà. Sta lì silenziosa e un poco assente, ma a un certo punto la vedo barcollare. Capisco che sta per svenire e le vado incontro per sorreggerle almeno il capo. Purtroppo con quest’occhio destro che vede in un modo e il sinistro che vede in un altro, manco la presa di circa mezzo metro e sto lì come un portiere dell’Inter a brancicare l’aria mentre la palla, no, la testa della poveretta dà una craniata sul pavimento da far tremare i vetri. La signora interrompe la contrazione, si solleva stravolta sui gomiti e mi dice “mi giuri che non lo prende lei il mio bambino”. Gli altri mi riaccompagnano all’isola neonatale, mi fanno toccare i bordi del lettino e mi pregano di non muovermi più di lì.
Insomma è una tragedia annunciata.
E il bambino non nasce.
E intanto il ginecologo continua ad avvitarsi, il tacchino-inserviente gloglotta, Silvietta sviene e rinviene ogni sette minuti e mezzo e la signora che deve partorire non partorisce.
Io ormai ho smaltito la sonnolenza, ma la mia vista non è migliorata.
Scoccano le sei, arrivano le forze fresche del cambio turno.
Alle sei e un minuto la signora sforna un magnifico bambino e dice, non ce la facevo più a trattenerlo, ma l’importante era arrivare al cambio turno.
Io continuo a vedere male.
Vado a svegliare il mio amico dell’oculistica e gli racconto preoccupato l’accaduto. Lui mi guarda con aria comprensiva e senza accennare a visitarmi dice:

-hai invertito le lenti, coglione!-

 

massimolegnani

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Ciglia finte

Posted by massimolegnani on gennaio 12, 2013
emozioni / 8 Commenti

Foto di MV

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E poi non mi ricordo che cosa avrei voluto dire, che cosa sentivo spingere appena sotto pelle come la terra smossa da una talpa, affiorano tra l’erba montagnole esatte, segno di un lavoro sotterraneo che non vedi, che cosa mi pulsava come l’infiammazione di un livido recente che ti duole e non ricordi dove hai battuto.

È che oggi non è più ieri e noi viviamo di farfalle, le ali silenziose che ti passano davanti e se ne vanno. A volte te le ritrovi nello stomaco o si mantengono a colori vaghi impressi sulla retina, se sai chiudere le palpebre un momento prima che sia tardi. E ti resta come un gusto sulla lingua, insegui quel sapore che non riesci a definire e nel frattempo sfuma. No, non saprei tradurre ora i pensieri che si affacciavano e sparivano, bolle d’ossigeno che dal buio dei fondali svaniscono appena salgono fino in superficie.

So che pompavo aria in due polmoni ignari che non sapevano che farsene dell’ossigeno e comprimevo un cuore che si manteneva immobile e testardo. Avevo voci intorno, quella febbrile attesa del primo pianto che irrompe con la vita nella sala a trasformare l’ansia in risa. Ma ancora non si ride. Passano i minuti, non avviene la magia di tante volte, e presto arriva il punto in cui la vita diventa più rischiosa della morte. Il primo battito interviene in quel momento, un istante prima della resa. Allora sei costretto ad andare avanti a testa bassa, riprendi questa vita con le unghie e la consegni al bilico del caso.

Questi i fatti, nudi come quel bambino che non voleva vivere. Ma non saprei dire che cosa mi passasse per la testa in quei momenti, ho il ricordo d’impressioni, sensazioni contrastanti, pensieri nobili e ignobili, farfalle e pipistrelli che svolazzavano e svanivano.

E forse è un bene questo silenzio della memoria breve, perché troppi hanno parlato in questi giorni fingendo di sapere esattamente il bene e il male e facendo credere che davvero gli importasse della vita di qualcuno.

A me resta la sensazione di un errore a non essermi fermato un momento prima della vita, che adesso quella vita sarà un calvario lungo che impiegherà degli anni a ritornare morte.  E poi, al polo opposto, ho in mente il senso d’euforia balorda che mi prende dopo e che prescinde dal bene e il male. Non è solo sollievo di cose andate per un certo verso bene, è un assurdo desiderio di compensazione al consumo d’emozione, il diritto ad un rimborso, qualunque sia, le labbra di un’infermiera senza nome che incontravo quando alzavo lo sguardo dal lettino, il sorriso rubato ad occhi sconosciuti, lo sguardo indecoroso su un dettaglio di qualcuna che lascia che io guardi.

Così per qualche ora mi muovo sballottato tra due estremi, poi tutto svapora in un metabolismo accelerato. Oggi mi rimane l’impressione che davanti agli occhi mi siano passate le farfalle ma non ne ricordo più il colore.

 

massimolegnani

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