Archive for settembre, 2008

qualcuno di più importante

Posted by il guardiano on settembre 27, 2008
cronache / 1 Commento

Questa notte ho ricevuto una telefonata. Era una donna e chiedeva informazioni su di un uomo che era ricoverato da un po’. Le ho risposto che non era possibile avere informazioni per telefono, lei ha insistito. Ma lo ha fatto in un modo… C’era una sorta di disperazione nella sua voce, una sorta di supplica nella sua richiesta. E io ho avuto la sensazione che quella donna fosse l’amante dell’uomo. Non solo una sua amica o una conoscente, proprio l’amante. L’uomo era sposato, e nessuno al di fuori dei famigliari poteva ricevere direttamente da noi sue notizie, e io in quella voce ho sentito questo: la disperazione dell’amante che non può sapere niente, che non ha nessun diritto. Ci ho pensato tutta la notte. Cioè ho pensato a questa donna e al suo uomo che si salutano, e che si danno un appuntamento da lì a qualche giorno. Loro non possono comunicare in nessun modo (niente messaggi, niente email, niente telefonate) perché lui (e forse anche lei) è sposato, insomma si danno quegli appuntamenti da romanzo dell’ottocento. All’angolo di una piazza, davanti ad un locale, di fronte ad un monumento, in un parco; ad una certa ora in un certo giorno, magari il martedì alle quattro, tutti i martedì alle quattro, e se salta un martedì, ci si incontrerà il martedì successivo, senza possibilità di appello. Uno è lì e aspetta. Aspetta che lei o lui arrivi, e solo l’amore ti tiene in piedi, ti sostiene qualsiasi cosa capiti. E quella volta capita che lui non arriva. E il martedì dopo non arriva di nuovo. E anche quello successivo. Così lei tutte le volte torna a casa o va al lavoro – vorrebbe scappare, morire, ma non può farlo, perché nessuno sa della sua storia, segreta, clandestina, travolgente, quindi non può parlarne con nessuno. Torna a casa o al lavoro perché anche se il mondo le è crollato dentro, nessuno se ne deve accorgere, nessuno sa che sotto i suoi vestiti si apre un baratro più buio e profondo della morte stessa. E dall’altra parte niente. Niente messaggi, niente email, niente telefonate. Lui non si è presentato all’appuntamento e lei non sa perché. Sa solo di essere rimasta sola. Poi in qualche modo questa donna scopre che il suo amante ha avuto un incidente, che è ricoverato nella rianimazione di un certo ospedale, per cui si arma di santo coraggio e telefona.
Di cosa avrebbe avuto bisogno questa donna per placare almeno un po’ quell’angoscia e quel terrore che soffocava il suo cuore? Quante parole, quante spiegazioni sarebbero state necessarie da parte mia? Quante volte noi dobbiamo ripetere le stesse cose ai famigliari di un paziente? Quante volte dobbiamo ribadire concetti, spiegare parole, ipotizzare prognosi, confermare diagnosi. Tutti i giorni, più volte al giorno, magari sempre alla stessa persona. Quante volte. E invece a quella donna non ho detto una parola. E quando dall’altra parte ho sentito che la voce le si strozzava in gola, ho concesso il più arido dei comunicati stampa.
Ma che stronzo.

il guardiano

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2 giorni 28 ore 1680 minuti

Posted by Piuma on settembre 23, 2008
emozioni / 1 Commento

attaccata a quel letto
le narici impregnate di odore di morte
gli occhi fissi sul paziente e poi sul monitor…

poi ancora sul paziente e poi sul monitor…

ce ne fosse uno solo di monitor, ma poi diventano 2,3,4…
le orecchie tese in ascolto dei suoni degli allarmi che modificano tonalità se a scendere è la frequenza cardiaca o la pressione arteriosa, la PIC o la saturazione di ossigeno
la voce che alla fine della seconda giornata esce roca, rotta dalla stanchezza, dalla sensazione sempre più forte e più netta di aver lavorato duro per un risultato assente…
mi rimane solo il silenzio…

assordante dentro di me…

vale la pena tutto questo?
le lacrime bagnano il viso e offuscano la vista mentre torno a casa…

nebbia

una luce in fondo: non sono io, non siamo noi ad avere l’ultima parola

Piuma

Tatiana

Posted by Herbert Asch on settembre 20, 2008
ritratti / Nessun commento

Tatiana ha uno sguardo dolce ed un poco assente di occhi verdi, chiarissimi, liquidi, i capelli sono morbidi riccioli lunghi, ancora neri, appena spruzzati di bianco. Ha un grosso orecchino da gitana ed una collanina di perline di plastica annodata al collo. L’aspetto è sporco e un po’ trasandato come di gente che arriva da chissàdove.Di lei dicono sia rumena, avrà sui quarant’anni e nonostante l’obesita il suo corpo lascia trasparire delle fattezze piacevoli in gioventù. È enorme, nel letto d’ospedale, dove è stata ricoverata dopo il suo ictus che le ha tolto la parola e paralizzato metà del corpo. Per la verità è già arrivata così dal suo paese: sulla strada dell’emigrazione le è preso il coccolone, e l’hanno brevemente ricoverata in un paese vicino alla frontiera, lo testimonia un burocratico foglietto scritto in una indecifrabile lingua dell’est, dove si comprende solo il nome di un farmaco, ma poi è stata caricata in auto o chissà con quali altri mezzi e per quali strade è stata portata in Italia.

Del ricovero conservava ancora il catetere vescicale, nascosto sotto le gonne Poi i parenti hanno chiamato l’ambulanza, un po’ perchè imbrogliava, dava fastidio, la vita è dura per chi viene da fuori così, forse non c’è tempo, nessuno può accudirla e poi sanno che qui qualcosa le faremo, cercheremo di curarla, in fondo è un attestato di stima anche questo.

Mia madre sta male, avranno detto in una stentato italiano, e così eccola qui.

Adesso è qui davanti a me, con lo sguardo imbambolato un po’ perso nel vuoto, guarda fuori della finestra, non sono sicuro che sia per la sua lesione o solo che cerchi di capire fuori dove si trova. So solo che è afasica, non riesce a parlare, non si capisce se comprende quanto le viene detto (puo’ esserci una afasia anche in questo senso); sicuramente non capisce una parola di italiano. Ed io dovrei incannulare a lei una vena centrale, cioè pungerla al di sotto della clavicola con un ago sufficientemente lungo da raggiungere la vena succlavia, ma anche (e malauguratamente, provocando qualche danno) la pleura, se lei non starà ferma. Dovrei cercare di spiegarglielo.

Gli infermieri mi hanno detto che non è venuto nessuno a trovarla in questi giorni, che ormai è quasi due settimane che è qui; e non hanno né un indirizzo né un numero di telefono di parenti. Anche se dall’aspetto non era una zingara.

Ho già cercato in ospedale se ci fosse qualche rumeno, tra i parenti dei ricoverati, in Pronto mi hanno detto che c’è un’allieva infermiera rumena, ma oggi non è di turno, forse in chirurgia c’è un’infermiera extracomunitaria: la cerco, peccato è polacca e non parla il rumeno. Pazienza Cerchero’ di spiegarmi a gesti, le faccio vedere una flebo, le parlo e le spiego in italiano, sommariamente, lo sguardo si ravviva una attimo: percepisco che intende che le sto dicendo qualcosa, anche se non ne capirà il senso.

L’infermiera la posiziona, io agisco, lei rimane ferma durante tutta la procedura, forse le ho fatto un po’ male. Quando ho finito rimane con la testa voltata verso la finestra le passo davanti per andare via, le faccio segno che abbiamo finito, le sorrido, per farle capire che tutto è andato bene, batte le ciglia, forse ha capito.

Lascio lì Tatiana a guardare fuori.

Herbert Asch

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la potenza e la resistenza

Posted by Woland on settembre 17, 2008
pensieri / 1 Commento

Stamattina è morta una paziente. Piuttosto giovane, molto sfortunata, morta nonostante tutti i nostri sforzi.
Una famiglia splendida, che anche nel dolore non ha smesso di ringraziarci, quasi fossero loro a consolarci per la sconfitta e a volerci risparmiare la fatica di dover comunicare loro la fine di tutto. Ho chiesto se avessero gradito la presenza del Cappellano e poco dopo l’ho chiamato.
Nel nostro reparto ho già visto passare diversi ministri di culto, dal Pope ortodosso all’Imam, al Prete valdese. Ho anche incontrato familiari che hanno rifiutato, in modo gentile ma fermo, la presenza di un religioso, ribadendo la loro assoluta laicità.
Chi però è di gran lunga in testa alle presenze nell’ora del commiato è il Cappellano del nostro ospedale, lo stesso che celebra Messa nella piccola cappella al settimo piano.
Più precisamente sono due: non mi è mai capitato di vedere nessun altro al di fuori di loro due. Un camice sopra l’abito talare e un cordless per la pronta disponibilità.
Di solito li riconosco al telefono, stamattina quando ha risposto una voce estranea dicendomi che il Sacerdote sarebbe arrivato appena finito di dire Messa, per la prima volta ho pensato: chi dei due verrà? E subito dopo: ma sono sempre solo loro?
Poi mi sono fatto due conti. Per garantire una guardia 24 ore su 24, 365 giorni all’anno, di solito bisogna essere almeno in 3. Ma se si considerano le ferie e i riposi si arriva ad avere bisogno di 6 persone. E’ come dire che io da solo posso lavorare solo 4 ore al giorno per 365 giorni di seguito, oppure, se (per assurdo) lavorassi 24 ore al giorno, lavorerei solo 2 mesi all’anno.
Spesso ci lamentiamo di quanto il nostro lavoro sia frenetico e stressante e di quanto a volte abbiamo un dannato bisogno di staccare per qualche giorno.
E’ come se noi fossimo dei velocisti, capaci di scatti e allunghi, ma inetti sulla lunga distanza.
Il Cappellano, che copre da solo la reperibilità di 3 persone per anni e anni, è il vero Maratoneta, la cui resistenza non solo ci rimane sempre invisibile, ma soprattutto è per noi assolutamente irraggiungibile.
Woland

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i muri danno più soddisfazione

Posted by il guardiano on settembre 14, 2008
testimonianze / Nessun commento

“Se lei non firma il consenso alla trasfusione di sangue io non posso farle l’anestesia…” “Perché?” “Perché, sebbene l’intervento al quale lei verrà sottoposto ha un bassissimo rischio di complicarsi con un’emorragia tale da richiedere una trasfusione, questo rischio non è zero… è basso, ma non zero, quindi esiste una remota possibilità che lei, durante l’intervento, abbia bisogno di sangue, per tanto…” “Ma io non voglio nessuna trasfusione di sangue…” “Certo, è comprensibile, nessuno desidera delle trasfusioni di sangue, ma purtroppo esistono condizioni particolari in cui la trasfusione diventa necessaria… senza trasfusione di sangue si può morire…” “Si può morire, o si muore di sicuro…” “Se la trasfusione viene procrastinata oltre un certo limite, e l’emorragia non si ferma, si muore di sicuro…” “E se l’emorragia si ferma?” “Allora non si muore di sicuro ma si può comunque morire…” “Ho capito” “Bene, adesso firmi questo modulo in modo che se per disgrazia ci fosse bisogno di trasfonderle del sangue lei dichiara di essere stato informato e di essere d’accordo” “Ma io non sono d’accordo””Il fatto è che senza questo modulo io non le faccio l’anestesia, quindi il chirurgo non la opera. Senza questo modulo lei non verrà operato. Mi spiace ma queste sono le regole…” “Ma non si può fare un’eccezione?” “No, non posso, senza quel modulo io rischio di dover prendere delle decisioni che vanno o contro la mia etica professionale o contro la sua volontà… e questo non è giusto.”

“Io però ho male” “Infatti devono operarla… Ma se lei non firma… Forse non sono stato chiaro, vuole che le rispieghi tutto da capo?” “No, ho capito, grazie, è stato molto gentile”. “Quindi la faccio riaccompagnare in reparto? Avverto il chirurgo che lei non vuole essere operato?” “Se non c’è alternativa…” “Va bene. Allora, ho scritto in cartella tutto quello che ci siamo detti. Per il momento l’intervento viene rimandato a data da definirsi, va bene? Legga con calma e firmi qui sotto per presa visione…”

“Senta, dottore, posso dirle una cosa?” “Certo” “Qui c’è scritto che io sono testimone di Geova, ma non è mica vero…” “Non è vero?” “No” “Ma allora perché rifiuta la trasfusione?” “Mio padre è testimone di Geova, io sono ateo, a me non me ne importa niente, ma lui ci tiene a queste cose… In effetti non pensavo che fosse così fondamentale, non volevo dispiacere a mio padre. Sa io questa cosa della trasfusione, l’ho mica mai capita tanto bene…”

“E quindi…?”

“Se le firmo il consenso mi operate?” “Certo, è naturale” “E non lo dite a mio padre?” “Ma no, lei è maggiorenne, può fare quello che vuole…” “Ok” “Allora firma?” “Firmo”

“CARICATE IL PAZIENTE… SI VA IN SALA!”

il guardiano

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dov’è finito Babbo Natale?

Posted by Gus on settembre 10, 2008
emozioni / 2 Commenti

Sono un’anima persa che vaga senza un Dio.
Sono anestetizzata, mente e corpo, avvolti nel coma farmacologico del consumismo.
Non ho più un’etica.
Non ho più una ragione.
Ho il cuore così vuoto e gli occhi incapaci di sorridere.
Aridità è il mio nuovo nome: Aridità di idee, azioni, emozioni.
IO, centro del nulla, girovago in un vortice di fatti, persone, date e luoghi.
Spazio e tempo sono diventati solo rimpianto e rammarico; rimpianto di un tempo che fu, rimpianto di luoghi abbandonati, rammarico di mille cose decise e mai fatte. La mia incapacità di essere felice mi ha reso l’anima sterile, neppure più spinta da fremiti ambiziosi ed egoistici.
Aridità è il mio nome.
Marco muore.
Guido non è più in coma.
Rosaria non cammina più
E’ morto lo zio.
Carlo ha perso la casa ed il lavoro.
Che cosa devo provare?
Queste infinite tragedie che si svolgono ogni giorno davanti ai miei occhi mi hanno anestetizzato l’anima.
Dio dove sei? Dio ci sei?
Io ti ho abbandonato. Io ho riposto la mia fede, la mia devozione ed il mio cuore è diventato incapace di pregare.

Gus

 

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era solo una questione di volume

Posted by il guardiano on settembre 07, 2008
ritratti / 1 Commento

Caterina domani va in reparto. Caterina va in reparto dopo 54 giorni di ricovero, 40 chili in meno, e senza nemmeno una tac. Se ne va portandosi via il suo letto, il suo sorriso, e il suo appetito. Ed è strano, ma da noi quando se ne vanno via così, un po’ ci dispiace. Anche se in realtà ci fa veramente piacere (non è facile da spiegare). Non è guarita, Caterina, la strada verso casa è ancora lunga, ma sicuramente non è più in salita, non è più nel buio, non è più alla giornata. Caterina può ricominciare a fare dei progetti, ad organizzarsi la vita. Adesso la via è sicura, è segnata. Salvo complicazioni (ovviamente).Caterina è arrivata avvolta nel tappeto di casa, trasportata dai vigili del fuoco, calata dal balcone, poggiata su di una barella traballante. Non respirava più. 170 chili (mai misurati, perché in ospedale non c’è nessuna bilancia in grado di farlo) ammucchiati sul torace, sull’addome, contro il diaframma… Impossibile respirare.

Il letto l’abbiamo dovuto fare arrivare apposta perché quelli normali non erano omologati per pesi superiori a 130 chili. Un tubo in gola e via. I ventilatori non si spaventano, loro spingono finché ce n’è, finché vuoi tu, e l’aria ha ricominciato a circolare, il sangue ad ossigenarsi. Quanto a fare una tac non era pensabile. Il lettino non l’avrebbe retta, e si rischiava di farla restare incastrata dentro. Va be’, pazienza, facciamo senza. Le radiografie sembravano più delle machhie Rorschach che non immagini di organi intratoracici, ma anche lì che potevamo farci? Le abbiamo interpretate secondo pulsioni inconsce…

Poi la tracheo (fatta dal primario ovviamente) e un lento, lungo, graduale processo di guarigione. Roba che da un giorno all’altro sembrava sempre ferma lì, ma a distanza di una settimana il miglioramento lo vedevi eccome. Nessuno ci credeva, ovviamente. Nessuno ci avrebbe scommesso dieci euro.

Eppure Caterina, paziente, ostinata, sorridente, ha ricomicniato a respirare, ad aprire gli occhi, poi a muoversi, poi a dimagrire.

Domani se ne va senza cannula, con la sua voce un po’ chioccia. Guarita da non si sa che cosa, dopo 54 giorni di rianimazione, senza aver mai fatto neppure una tac. Buona fortuna.

il guardiano

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tempi bui

Posted by Woland on settembre 03, 2008
cronache / Nessun commento

Amo la vita e la rispetto, ho ricevuto un’educazione cattolica anche se ora le mie posizioni sono diverse. Con la bioetica della donazione-trapianto e gli interrogativi sull’appropriatezza delle cure e sulla disponibilità di ciascuno della propria vita ho avuto esperienze anche familiari e confronti anche con persone di fede.
Premesso tutto ciò, vorrei esprimere la mia amarezza e il mio sdegno per l’editoriale comparso ieri a firma di Lucetta Scaraffia. Pur sollevato dalla dichiarazione ufficiale della Chiesa e dalla presa di distanza sue opinioni, le ritengo comunque gravi anche se espresse a titolo personale, in quanto molti in Italia identificano il vostro giornale con l’opinione ufficiale del Vaticano.
Mi sembra che l’autrice abbia in testa una gran confusione tra stato vegetativo, coma e morte cerebrale. Ognuno è libero di esprimere le proprie idee, ma dovrebbe avere la decenza di documentarsi prima di scrivere in prima pagina su un giornale. Tutto questo pensando che si sia trattata soltanto di superficialità, ignoranza e irresponsabilità; se fosse una mossa studiata per secondi fini, sarebbe ancora più deprecabile.
Penso che in una democrazia vera, ciascuno sia libero di esprimere le proprie idee; sono però anche convinto che ciascuno debba rispondere delle proprie idee e che la responsabilità sia una delle basi del giornalismo. Se ragioniamo in modo molto pragmatico, in termini di numeri, e poniamo come nostro obiettivo la difesa della Vita, è possibile (è già successo in passato) che l’editoriale in questione e il dibattito che inevitabilmente ne seguirà causeranno più morti nei prossimi mesi della guerra in Georgia. La fiducia dei cittadini dei confronti del sistema trapianti, uno dei fiori all’occhiello della sanità italiana, sarà difficile da ripristinare facilmente e in un solo giorno può andare in fumo il lavoro di mesi centinaia di persone. Purtroppo non sarà possibile dare un nome a tutti quei morti, ma credo che la flessione dei numeri osservati rispetto agli attesi sarà quantificabile con precisione. Vorrei che chi ha scritto se ne assumesse la responsabilità e che riflettesse in futuro sulle conseguenze della propria superficialità. I dubbi andrebbero chiariti prima di scrivere, pensare ad alta voce non si addice ad un giornalista, soprattutto quando in gioco c’è la vita di migliaia di persone.

Woland

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