Questa notte ho ricevuto una telefonata. Era una donna e chiedeva informazioni su di un uomo che era ricoverato da un po’. Le ho risposto che non era possibile avere informazioni per telefono, lei ha insistito. Ma lo ha fatto in un modo… C’era una sorta di disperazione nella sua voce, una sorta di supplica nella sua richiesta. E io ho avuto la sensazione che quella donna fosse l’amante dell’uomo. Non solo una sua amica o una conoscente, proprio l’amante. L’uomo era sposato, e nessuno al di fuori dei famigliari poteva ricevere direttamente da noi sue notizie, e io in quella voce ho sentito questo: la disperazione dell’amante che non può sapere niente, che non ha nessun diritto. Ci ho pensato tutta la notte. Cioè ho pensato a questa donna e al suo uomo che si salutano, e che si danno un appuntamento da lì a qualche giorno. Loro non possono comunicare in nessun modo (niente messaggi, niente email, niente telefonate) perché lui (e forse anche lei) è sposato, insomma si danno quegli appuntamenti da romanzo dell’ottocento. All’angolo di una piazza, davanti ad un locale, di fronte ad un monumento, in un parco; ad una certa ora in un certo giorno, magari il martedì alle quattro, tutti i martedì alle quattro, e se salta un martedì, ci si incontrerà il martedì successivo, senza possibilità di appello. Uno è lì e aspetta. Aspetta che lei o lui arrivi, e solo l’amore ti tiene in piedi, ti sostiene qualsiasi cosa capiti. E quella volta capita che lui non arriva. E il martedì dopo non arriva di nuovo. E anche quello successivo. Così lei tutte le volte torna a casa o va al lavoro – vorrebbe scappare, morire, ma non può farlo, perché nessuno sa della sua storia, segreta, clandestina, travolgente, quindi non può parlarne con nessuno. Torna a casa o al lavoro perché anche se il mondo le è crollato dentro, nessuno se ne deve accorgere, nessuno sa che sotto i suoi vestiti si apre un baratro più buio e profondo della morte stessa. E dall’altra parte niente. Niente messaggi, niente email, niente telefonate. Lui non si è presentato all’appuntamento e lei non sa perché. Sa solo di essere rimasta sola. Poi in qualche modo questa donna scopre che il suo amante ha avuto un incidente, che è ricoverato nella rianimazione di un certo ospedale, per cui si arma di santo coraggio e telefona.
Di cosa avrebbe avuto bisogno questa donna per placare almeno un po’ quell’angoscia e quel terrore che soffocava il suo cuore? Quante parole, quante spiegazioni sarebbero state necessarie da parte mia? Quante volte noi dobbiamo ripetere le stesse cose ai famigliari di un paziente? Quante volte dobbiamo ribadire concetti, spiegare parole, ipotizzare prognosi, confermare diagnosi. Tutti i giorni, più volte al giorno, magari sempre alla stessa persona. Quante volte. E invece a quella donna non ho detto una parola. E quando dall’altra parte ho sentito che la voce le si strozzava in gola, ho concesso il più arido dei comunicati stampa.
Ma che stronzo.
il guardiano