Archive for aprile, 2013

Tornerò!

Posted by Ultiva on aprile 25, 2013
emozioni / Nessun commento

Foto di MV

Foto di MV

Stamattina, davanti al timbro, alle 08.00, mi chiedevo che senso avesse strisciare, per l’ennesima volta, il badge in quella fessura. Perché timbrare per subire la protervia degli ignoranti, di chi sa ma non vuole insegnare, della lotta di classe tra medico e infermiere che anche quando è ben celata risulta tutt’altro che non evidente. Perché timbrare per poi non dover guardare, non poter raccontare. Perché timbrare e trovare ancora il collega che se ne fotte da anni ma nessuno lo licenzia, le apparecchiature rotte senza che nessuno le ripari….

Poi penso a lui… lui che nel Gulistan, due anni fa, moriva per il proiettile di un cecchino. “Tornerò”, aveva detto, salutando. Lo rividi a Ciampino, scendere da un C-130, in una bara.

La prima volta che sono salito su un C-130 dopo la morte di Matteo è stato per un ECMO. Per tutto il viaggio ho fissato il pavimento, rivedendo la bara coperta dal tricolore. E’ stato atroce. Dopo pochi mesi, ero seduto su un elicottero dell’Aviazione dell’Esercito, per soccorrere un paziente di 240 kg che non poteva essere trasportato dal nostro elisoccorso. Meteo pessimo, facciamo il pelo ad una casa, faccio in tempo a raccomandare l’anima a qualcuno che sovraintende alle umane funzioni e ci ritroviamo a terra. Qualche tempo dopo ancora, di notte, piove, l’ennesimo ECMO… fa freddo, è gennaio, ci saranno forse 4 gradi. L’AB212 della Polizia (si, quello che non può volare sui centri abitati perché ha un solo motore) si staglia nel buio e nella pioggia. Sul caschetto il tic-tic della burrasca. “Dottore, partiamo?” Eh certo che partiamo, il quarantenne con 30 di P/F chi se lo piglia se no… Volo osceno, i Piloti non parlano, ci escludono dalle comunicazioni di cabina. Io inizio a pensare di avere un certo conflitto irrisolto con i mezzi volanti. Atteriamo, alla meno peggio. I Piloti scendono, si stringono per un braccio l’uno con l’altro. Io ho preferito non pensare ed essere fatalista. Altrimenti a Milano ci torno a nuoto.

Questa sera, riguardando le foto di Matteo, colgo finalmente l’eccezionale di ogni giorno: mettere il culo su qualsiasi mezzo a motore, in ogni condizione meteo, in ogni situazione. Non essere sempre sicuri di metterci la firma sul fatto che si tornerà interi, ma poi, essere sempre pronti a ripartire.

Ultiva

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Civitanova – 2

Posted by Herbert Asch on aprile 14, 2013
citazioni / 2 Commenti

illustrazione di US

illustrazione di US

 

Sospiro 8, Servizio Oncologico (Maria)

Anche la morte è diventata virtuale in questo mondo e nessuno l’accetta più nella propria carne. Quando gli uomini e le donne arrivano qui sono stupiti – soprattutto stupiti – spaventati e certi d’incontrare, nel mio volto, quello della loro morte che ha la mia voce, i miei occhiali e la mia firma sulle loro ricette. Non mi sono mai sentita particolarmente bella, e all’inizio quegli sguardi peggioravano la mia insicurezza, ma ora  ho imparato ad accoglierli e non succede più.

Scelsi l’oncologia perché c’era maggiore probabilità di trovare un posto in specializzazione, e così di avere le carte in regola per fare il medico in ospedale. La laurea a quei tempi non valeva già più niente, e proseguendo con l’inflazione dei titoli, sarà sempre peggio.

Ma allora tutto questo stava solo iniziando e non mi rendevo conto delle conseguenze, sapevo solo che senza specializzazione non sarei andata da nessuna parte e mi buttai dov’era più facile entrare. Da giovani si cerca di avere un posto sicuro, uno stipendio e una casa in cui vivere. 

Spinta da questo iniziai a entrare nella carne impazzita degli esseri umani, quella cannibale e suicida del cancro: l’ho odiata, mi ha terrorizzato, appassionato, stupito, e alla fine l’ho accolta nella mia vita di tutti i giorni. Di quando preparo da mangiare, faccio i compiti coi figli,  li porto in piscina e gli dico buonanotte; di quando faccio all’amore col mio uomo e ci addormentiamo abbracciati. Abitiamo in campagna per fortuna, nella vecchia casa dei suoi nonni che abbiamo ristrutturato e sono contenta che i bambini possano crescere tra piante e animali. Avranno più confidenza con  la vita e la morte  per quello che sono sempre state, anche prima che arrivassimo noi umani. Per me che sono cresciuta in città è stato tutto nuovo quando ci siamo trasferiti e difficile all’inizio, ma ora è come se fossi nata qui. A un certo punto ci si accorge che la vita è un puzzle di pensieri, incontri e scelte che prende forma partendo da tentativi e incastri fortuiti.

Adesso nella mia,  vedo un’oncologa che vive in campagna col marito e i figli e non cambierebbe questo per null’altro al mondo. Mi sorprendo spesso a guardare dal finestrino il paesaggio intorno alla strada che va da casa nostra all’ospedale, e qualche volta mi fermo. I rami degli ulivi cambiano colore sotto il vento d’autunno. Il grande mandorlo fiorito dichiara la primavera. I girasoli sulla collina cantano il coro dell’estate. Il grano d’inverno spunta verde dalla terra bruna. E, ogni anno, mi dico di fotografarlo alto prima della mietitura ma non lo faccio, e so che non lo farò mai per dirlo ancora l’anno che verrà. Cammino sola al margine del campo carezzando le spighe ed è un momento solo mio, bello e terribile come il parto.

A ogni giugno bisogna restituire alla morte i suoi diritti, e tra le spighe mature, la prego di lasciarmi fare ancora questo gioco. L’anno scorso me lo ha concesso, il prossimo si vedrà. In ospedale stiamo insieme tutti in giorni, lei fa il suo lavoro ed io il mio: è bello incontrarsi fuori almeno una volta all’anno. Il grano maturo accanto alla strada racconta la grande fame del mondo, la fatica degli uomini, la speranza e la certezza della morte. Sono le stesse cose che ascolto sul lettino bianco del mio studio (proprio le stesse) ma con un nome, una voce, un gesto.

Nel cassetto ho una penna, una biro da due soldi che conservo gelosamente, me l’ha data un uomo i primi tempi che ero qui… non trovavo la mia per scrivergli la ricetta e lui con un sorriso mi porse la sua dicendo che a lui non serviva più. Era un sorriso vero e buono che mi ritorna ogni volta che guardo le spighe mature. Quell’uomo chinò dolcemente il capo alla falce prima che la grande fame del suo cancro mordesse con troppo dolore… La fame, la fame delle cellule impazzite è insaziabile e primitiva. Ė la forza originaria della vita, che senza più regole reclama nutrimento solo per se stessa. Per lei non esistono l’organismo e gli equilibri necessari alla vita ma solo l’istinto di moltiplicarsi e mangiare. Il flagello delle locuste o le fauci degli squali sono solo  le altre facce  della stessa fame che conoscono tutti. Ma quando è all’interno del corpo, sono soltanto io a vederla e il risultato non cambia: finito il cibo, finisce anche la vita e il cancro muore con il suo ospite. A volte si riesce a vincere (molti usano il verbo vincere al posto di guarire; a me non piace). Altre volte, si costruiscono delicati compromessi tra  morte e vita, che anch’io chiamo tempi di sopravvivenza. Sono le lunghe trincee dove ho imparato a conoscere  donne e uomini, senza cessare di sorprendermi della loro infinita diversità. A volte abbiamo combattuto insieme, altre abbiamo solo aspettato, altre sono rimasta sola nella terra di nessuno perché anche  non volere alleati è un diritto. Quello che non riesco a spiegarmi è come mi vengano lesinate le munizioni con la fondata ragione che costano troppo ( i farmaci anti tumorali sono costosi!).

Mi chiedo come sia possibile che non possiamo più pagarli, e penso che qualche altro cancro sta divorando le nostre risorse. Certi umani sono affamati come le cellule di un tumore, ma più intelligenti. Dopo aver divorato l’organismo di una società migrano altrove su un aereo privato senza suicidarsi nel cadavere che lasciano. Sono metastasi che diventano più immortali ad ogni fuga. Nonostante squali e cavallette umani, continuo a carezzare il grano per il dovere della vita che lo semina e il diritto della morte che lo falcia. Perché alla fine, con o senza munizioni, quando ogni arma è inutile e anche la trincea scompare, l’uomo è in un luogo senza nome che non somiglia ad altro; è solo e possono raggiungerlo soltanto le parole care, i volti amati. Restituire alla morte i suoi diritti è l’abbraccio che lo accompagna fin dove può sentire.

 

Quando siamo venuti al mondo, mani delicate ci hanno stretto al cuore nell’abbraccio di benvenuto: dev’esserci lo stesso abbraccio anche quando ce ne andiamo, se vogliamo che la morte riconosca ancora donne e uomini.

 

 

 

tratto dal libro “Buongiorno Dottor Cronin” di Ubaldo Sagripanti – gli utili di vendita andranno all’emporio della solidarietà del comune di Civitanova: un posto dove distribuiscono beni di prima necessità a chi ne ha bisogno

 http://www.amazon.it/Caro-Dottor-Cronin-ebook/dp/B00BTNNJWS 

 

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Civitanova

Posted by Herbert Asch on aprile 13, 2013
cronache / 1 Commento
Foto di HA
Foto di HA

Di solito sono preciso, man mano che i post arrivano li metto in ordine e programmo la pubblicazione, mantenendo rigorosamente l’ordine di arrivo.

 

Giorni fa ci è arrivata una mail, un amico ci ha inviato addirittura un e-book. Non erano molte pagine e, in attesa di leggerlo, comunque, mi sono tenuto sulle generali. Pensavo che, visto che era pubblicato ed in vendita, anche se non certo a caro prezzo, avremmo potuto postare un piccolo estratto, indicando poi il link per eventualmente acquistarlo.

 

Quindi ho risposto chiedendo cosa ne voleva fare.

 

Poi, in una interminabile seduta operatoria, ho avuto il tempo di leggere il libro, e devo dire che mi ha preso bene.

 

La risposta è arrivata quasi contemporaneamente alla fine della lettura:

 

“Ciao Asch, sono contento che il libro ti interessi, ma vedi com’è la vita, oggi mi trovo a risponderti in un modo che non avrei immaginato quando ti ho inviato Caro Dottor Cronin, il quattro aprile. Forse non lo sai ma io vivo a Civitanova Marche, un qualsiasi posto della costa adriatica fino a tre giorni fa, poi all’improvviso due brave persone si impiccano in uno sgabuzzino chiedendo perdono e una terza, appena lo scopre, si getta in mare e li segue; così questa mia piccola città di provincia diventa il simbolo della sofferenza della gente in tempo di crisi.

 

Ma facciamo un passo indietro.

Circa un anno fa mi venne l’idea di scrivere qualcosa che raccontasse chi siamo noi medici di oggi, cosa pensiamo e sentiamo mentre marchiamo il cartellino; credevo che la gente dovesse sapere chi c’era dentro i camici cui s’affidava.

Non l’ho scritto e lo confesso a te, ma credo che siamo in una condizione simile a quella dei fanti della prima guerra, che se non saltavano fuori dalla trincea o non avanzavano adeguatamente, venivano ammazzati da altri soldati italiani a questo deputati. Si poteva quindi scegliere soltanto tra una pallottola austriaca e una italiana. Noi medici di questo SSN derubato, truffato, tarlato e falsamente aziendalizzato abbiamo la malattia al posto degli austriaci e i politici che ci sparano alle spalle. I pazienti, gli esseri umani che vogliamo curare, in tutto questo, invece di essere la patria da difendere, stanno sdraiati e aspettano nella terra di nessuno (mi vergogno di questa similitudine offensiva per i fanti e spero che mi perdonino se li ho paragonati a noi, ma è solo per la emblematicità di quanto accadde a loro).

Sempre per i casi della vita, mia madre mi restituì una vecchia copia di E le stelle stanno a guardare venuta fuori da uno scatolone dei tempi del liceo. Rileggendo Cronin non ho potuto fare a meno di trovarvi  le similitudini sconcertanti di cui parlo nel prologo del libro e che mi hanno spinto a sceglierne il titolo.

Finito il lavoro, ho pensato che potevo farne qualcosa di utile a chi ne avesse più bisogno e se vai al link

 

http://www.amazon.it/Caro-Dottor-Cronin-ebook/dp/B00BTNNJWS 

vedi che avevo deciso di devolvere gli utili di vendita (anche se probabilmente simbolici) all’emporio della solidarietà del comune di Civitanova: un posto dove distribuiscono beni di prima necessità a chi ne ha bisogno.

Pensavo che la prima forma di cura sia quella di garantire almeno il nutrimento.

L’undici marzo, quando il libro è stato pubblicato, mi sentivo soddisfatto della mia scelta e del lavoro. Giorni dopo veleggiando nella rete mi sono imbattuto nel vostro sito, l’ho visitato e mi è piaciuto molto (adesso faccio lo psichiatra ma ho cominciato come medico di pronto soccorso e conosco l’odore delle notti di guardia), così vi ho inviato volentieri una copia, era il quattro di aprile.

Il cinque aprile si sino ammazzati in tre, e il sei aprile, il Presidente della Camera è venuto in piazza da noi, in chiesa e in comune. Questa mia piccola città è stata sparata sui media in ogni forma, ognuno ha trovato il modo di dire la sua: dall’ OMICIDIO DI STATO, a Vittime della DIGNITA’…

Quante parole, e a sera, leggendo la tua mail, non me ne venivano per rispondere alla tua domanda: che ne vuoi fare?

Ho aspettato e penso che, nonostante tutto, continuare a parlare e diffondere quando tutto sembra insensato può sempre rappresentare, se non altro, una ricerca di senso. Inoltre, seppure la scelta di attirare l’attenzione su chi si trovava in condizione di improvvisa e imprevista povertà è stata per il momento inutile (e a vederla da qui, davanti a quei morti, simile ai soliloqui di certi miei matti), credo che sia coerente proseguire. Non solo, se oggi qualcuno è morto perché dopo una vita di lavoro non aveva più di che sostentarsi, continuando così, non è da escludere che domani qualcuno possa ammazzarsi perché non potrà permettersi le cure che un SSN in fallimento non può più prestargli.

 

Quindi, caro Herbert, scegli uno o due sospiri e pubblicali pure. Se vorrai diffondere il link che ti ho indicato sopra te ne sarò grato.”

 

e così farò.

 

Vista la concomitanza degli eventi stavolta non mi sono sentito di procrastinarlo (sarebbe passato a fine maggio) e così chiedendo scusa agli altri autori, il prossimo post sarà tratto dal libro “Caro Dottor Cronin” di Ubaldo Sagripanti.

 

Herbert Asch

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Ginocchieide (2a parte)

Posted by rens on aprile 05, 2013
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foto di RR

foto di RR

 

 

 

Camera operatoria.

Si fa avanti un’infermiera. Sarà la mitica anestesista? Provo.

-Io vorrei l’anestesia totale, ma mi dicono che devo…- – deve parlare con l’anestesista!-

-Lo so! Rispondo secco. È lei?- – No-.

-Ma lei è teso-, mi dice con un sorriso dietro al simil-burka che le copre il viso -…cosa la turba?-

-Certo che sono teso, è da questa mattina che mi dicono di parlare con l’anestesista… esiste costui? È un terrestre? O è un fantasma?- rispondo un po’ incavolato.-Vede, è che vorrei… ma a che serve contarla a lei se devo parlare all’anestesista…-

-Ma no, mi racconti, mi racconti tutto…-

-È che vorrei l’anestesia totale e tutti mi guardano come fossi un marziano. Mica lo faccio per sfizio, è che è più forte di me, svengo se mi bucate la schiena.-

-Non se ne faccia un problema. Anch’io avrei paura, sa? Anch’io farei la totale, c’è niente di strano. Parli con l’anestesista e vedrà che vi mettete d’accordo.-

Che mi stia pigliando per il culo, mi chiedo… Ma quella mi sorride e mi dice che non vuole vedermi arrabbiato, che posso contare su di lei, che tutto si sistema. È una persona, e mi quieto. Avevo solo bisogno di un po’ di comprensione. Un pochino. Mi parla gentile, mi fa anche una carezza sul capo. Grazie, le dico, grazie.

Intanto si fa avanti un’altra infermiera, giovane, anche lei mascherata; mi buca il braccio e ci infila un chiodo per la flebo. Non una sillaba. Neanche fossi un legno o uno straccio. Ma a queste ragazze non l’ha mai detto nessuno che i malati sono anche persone? Lo sa quella fighetta risicata che fuori di qui me la trito in un baleno? Che non le lascio nemmeno il tempo di dire bah…

Arriva un tipo, un uomo questa volta, sempre mascherato. È così in quei posti, non vedi nessuno in faccia; oltretutto senza occhiali sono proprio orbo; se si ritraessero di un metro potrebbero farmi impunemente gli sberleffi.

-È lei l’anestesista-, chiedo?

-Si, che c’è?-

Infine eccolo qui, dunque, il mio arabo fenicio.

-Senta, io vorrei l’anestesia totale, l’ho già detto a tutto il mondo, e l’avevo detto anche al dottore che mi ha pronosticato il menisco rotto, ma lì c’è scritto che mi fate l’epidurale. E tutti m’hanno detto che devo parlare con lei…-

-E perché la vuole totale?- Mi chiede; ma è gentile, affabile. Forse è un furbone.

-Perché se no le resto in mano… svengo. Prima, sotto, ho già corso grossi rischi per il prelievo di sangue.-

-E come ha fatto?-

-Ho dovuto guardare via e farmi mettere un rattoppo sul braccio. Si figuri dunque se mi buca la schiena.-

-Beh, qui ha ancora meno problemi, allora, perché non può vedersi la schiena.-

Un altro che mi piglia per i fondelli, penso…

-Comunque se vuole io gliela faccio, la narcosi, ma non le conviene sa-, dice con calma. Mi parla anche lui come fossi una persona. –Oltretutto-, continua, -con l’epidurale dopo non ha male.-

-Dice bene lei, ma se le resto in mano?-

-Beh, siamo già qui… c’è tutto il necessario, cosa vuole di più?-

Bel merlo, penso, non c’è che dire. Però potrebbe anche esser vero quel che afferma, non è scritto che debba essere un serpente incantatore. Perché è davvero difficile essere bugiardi così bravi.

Un lampo, da pazzo, come spesso m’è successo: -dai, proviamo-, rispondo. Non so nemmeno io perché. Arriva l’infermiera umana, mi infila una siringa nel tubo predisposto da quell’altra e dice quasi con leggerezza: -questa le fa bene, è bella… è buona, è soltanto un calmante…- M’hanno incastrato come un pivello. Come un novellino; non di primo pelo, ma proprio sprovvisto, di pelo. Non dispongo più d’uno sputo di difesa.

Mi segano.

Mi spostano ancora, me e il letto. Mi fanno girare sul fianco destro e portare le gambe al petto. Braccia lunghe. Sono in due lì dietro. Sento pungere la schiena. Tutto lì? Però, una bazzecola, aveva ragione il tipo. Mi rigirano pancia al cielo. Poi mi alzano un telo davanti alla faccia. Bene, non voglio vedere. Dall’altra parte del telo parlano, muovono, non so cosa traffichino. Ogni tanto la fascia attorno al braccio sinistro si gonfia: controllano se son vivo, penso. Certo che son vivo!

Ma cosa combinano lì davanti? Che diavolo aspettano? Il tempo non passa, non m’accorgo nemmeno che non sento più la gamba.

Mi hanno messo addosso le coperte con la mano destra fuori, perché è quella impalata. La sinistra sotto, a non prendere freddo, allungata sul fianco. Mentre aspetto la mano si muove. Trova una massa molle, in mezzo alle gambe, senz’anima ne corpo, incoerente. Che diavolo è? M’han tirato fuori le trippe! Ma no… Sono i genitali! Realizzo di colpo. Possibile? Tocco meglio… non li riconosco, non hanno consistenza, come non fosse roba mia; eppure il salamotto piccolo piccolo sembra proprio lui, il fratellino…

Quando eravamo bambini e nessuno ci vedeva, toglievamo i vestiti alle bambole per vedere com’erano fatte in mezzo alla gambe; senza sapere cosa cercare, per altro, ma si cercava, la curiosità era prepotente; e non c’era niente. Nè pisello nè altro. Tutto liscio, tutto piallato, nulla. Ecco, io mi sono scoperto così, quando la mano è andata a spasso sotto le coperte.

Mi spostano ancora. Allora hanno finito. Mi fanno passare in una apertura strana per mettermi dalla lettiga a un’altra.

-Si sposti!-, mi incitano.

Macchè spostare, una parola, non risponde niente. Sono di piombo.

-Dai, forza!-, insistono.

Allora provo a rotolare. -No, non rotolando-, mi ammoniscono. E come faccio allora, maledizione? Poi ci arrivo. Punto sulle braccia e sposto la schiena sul lettino a fianco; qualcuno mi sposta le gambe. Si torna al mio letto. Non so chi mi porti, sono proprio cotto. Chissà che diavoleria m’han messo in vena…

La pipì.

Letto, Mil lì vicina che sorride.

La pace dopo la tempesta. Arriva un donnone e mi cambia il recipiente della flebo. Sarà un antidolorifico, penso. Per fortuna non c’è da bucare. Il buco è sempre quello della stronzetta di sopra.

-Appena fa pipì, la lasciamo andare-, dice il donnone.

Quanto ci vorrà?

Un paio d’ore.

Il tempo passa.

Ho modo di controllare tutto me stesso lì sotto, quel che sento e quel che non sento. Gamba destra assente, sinistra presente ma senza dita del piede, e gluteo che sembra un budino, una vescica tiepida, sorda come una ciocca. Ma non c’è dolore, è già qualcosa.

Flebo finita. La sostituiscono con un fiasco. Ci sarà un litro di brodo lì dentro. Per fare pipì. -Beva quattro bicchieri d’acqua-, ordina la tipa. Questo è facile, penso. E invece no. È difficilissimo bere stando orizzontale. Difatti non c’è nessun animale che beva così, in natura. Nemmeno le lucertole: pigliano una boccata e alzano il muso al cielo per mandarla giù.

Passa il tempo. Mil va a farsi un giro, è stanca e stufa ed ha ragione. Che palle aspettare che uno faccia pipì.

Entrano due ragazzette bianco vestite. -Ha urinato?- Esclama forte una. Avrà visto il grigio dei miei capelli e deciso che sono sordo. -No-, rispondo secco. Urinare, penso: dev’essere per darsi un tono… fatto pipì non va eh, troppo umano, ma vaff… anche tu, dai. Altro fiasco da mandare in vena.

Scoccano le due ore.

-Fatto pipì?-

-Macché!-

L’infermiera è un’altra. Ma quante ce ne sono? Sono tutte qui a scrutare le mie disgrazie?

Questa però mi piace. Giovane anche lei ma semplice e umana, sorride, ha un cuore e credo anche un’anima.

Quanto ci vorrà ancora? Mezz’ora e vedrà che arriva. E intanto cambia fiasco un’altra volta. E tre! Più il primo.

Due ore e mezza, niente.

Tre ore.

Quattro, tuoni e fulmini.

-Fatto pipì?- -Nooooooooooo!-

-Vedrà che adesso arriva-, dice sorridente l’infermiera. Venti minuti.

-Provi a sedersi sul letto con le gambe penzoloni-.

Aspetto un po’ poi Mil mi aiuta. Ma come si fa a fare pipì se non ti senti il pisello, accidenti? Eppure, tra fiaschi e bicchieri d’acqua, ne avrò bevuti dieci, non quattro, dovrà pur decidersi. È un’impresa persino infilare il pisello nel pappagallo: poveraccio lui, è mortificato, potesse rientra nell’antico vano assieme ai testicoli. Ma quando tutto sembra perso…

Pipìììììììììììììììììì………… poca, ma c’è.

Robe da matti. Sessant’anni per gioire d’un bicchiere di pipì! Troppo poca, dice l’infermiera, e mette su un altro fiasco. Con questo sono quattro. Ma ormai il ghiaccio è rotto. Sono le 19.00 suonate quando l’impresa ha termine, faccio di nuovo pipì e l’infermiera dice che possiamo andare. Schizzo sul letto.

-Non vuole mangiare qualcosa?-

Ma no… andiamo via subito.

-Mangi qualcosa…-

-Un frutto-, rispondo. C’è?

-Una mela cotta?-

Perfetto. Due mele cotte, una anche per mia moglie.

-Gliele porto, ma non devo farmi vedere-, dice il mio angelo.

Si vede che c’è qualche bastardo che controlla, penso, e magari il rancio non mi spetta. Trovarlo tra qualche tempo, il verme, magari al Lauzun o al Lubè… Mangio in un lampo, Mil non ha fame. Torna l’infermiera, mi insegna a farmi l’iniezione nella pancia da solo, a camminare con le stampelle, due dritte generali; la ringrazio con un sorriso da orecchio a orecchio, l’abbraccerei, le darei un bacio, tanta è la mia riconoscenza. Tutto il contrario di quanto provo per il Dottore che mi ha operato. Lui non m’ha detto nemmeno crepa, su in camera operatoria, nemmeno m’ha degnato d’uno sguardo; gli sarebbe bastato affacciarsi oltre il telo, ma forse pensava di operare un pupazzo. Di fare allenamento. Tanto meno s’è degnato di venirmi a vedere in camera. Sono singolari questi personaggi. Autentici luminari, bravissimi e senz’anima, vuoti come una vescica; sembrano il mio gluteo sinistro quando ancora era sotto effetto dell’anestetico: lo sentivo ballonzolare se lo scuotevo con la mano ma non sapeva di nulla e non diceva nulla. Una vescica. Gli stambecchi per i quali mi sono fatto male sono molto più espressivi, ed uguali quanto a parola, perché entrambi sono muti.

Ma ora è tutto passato. Si parte. Via!

Tutti in fila.

Da quell’ospedale là a casa ci sono una novantina di chilometri. È buio pesto ormai. Mil non ama guidare di notte, conosce poco la Polo che non usa mai, e non conosce il percorso. È tesa ma si và. Faccio il navigatore.

Tutto dritto, asciutto, non c’è nebbia. Mil guida impettita, dura a metà dello spazio tra il volante e il sedile. Se la si bucasse non uscirebbe una stilla di sangue. Cinquanta all’ora, ma si va. Dietro ci sono parecchie auto. Più grandi, più piccole, furgoni e camioncini. Mil ha messo tutti in riga. Chi ha la ventura di fare il nostro percorso, viaggia a cinquanta all’ora. Passano uno alla volta dove possono.

Da quell’ospedale là a casa. Eterno.

Vicino a casa Mil si rià, tocca punte anche di ottanta chilometri l’ora per qualche istante: lì conosce bene la strada; tiene duro, è davvero grande la mia Mil, e alle 21 siamo a casa. Dalle 6.30 del mattino.

È fatta. Siamo eroi.

E tutto per uno stupido menisco… una guarnizione, o poco più. 

rens

 

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Ginocchieide (1a parte)

Posted by rens on aprile 01, 2013
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foto di RR

Genesi.

Tutto è cominciato il 31 dicembre. Dodici ore in più e il 2012 sarebbe finito senza guai, e io non sarei qui a scrivere dei miei bubù.

Anche se forse tutto è iniziato ad agosto, al Lubè, mentre portavo a casa una roverella per i bari dell’orto.

Pesava come ferro quella pianta, e salendo verso il sentiero, subito a monte del ciabot, sono scivolato; non potevo cadere con quel carico sulla spalla, lì dove è pieno di pietre e lose spigolose. Così avevo fatto forza sulle gambe ed ero riuscito a stare in piedi. Ma al ginocchio destro avevo provato una sensazione sgradevolissima; non dolore puro, ma come di qualcosa che grippa, che si incricca. E nei giorni successivi il ginocchio aveva cominciato a darmi fastidio e non potevo più chinarmi col peso del corpo sui talloni, ché faceva troppo male. Un problema fotografare i fiori. Dovevo avvicinarmi a terra allungando le gambe, niente ginocchia piegate. Più d’una volta, dimentico del problema, ho ribaltato come un fesso. Poi, piano piano la situazione era migliorata, tanto da indurmi a pensare: prima o poi passa e mi lascia in pace. Perché la mia filosofia è: come viene, prima o poi il bubù se ne va.

E così ero arrivato al 31 dicembre, Vallone di Massello, prati tra la Cascata del Pis e le Miande Lauzun; a correre dietro agli stambecchi che, in quella stagione, lì si riuniscono per fare l’amore; quasi in gruppo… lo sapessero i vescovi…

Salendo, piccola scivolata, proprio piccola, da nemmeno registrare, sul prato, ma con ginocchio destro tutto chiuso. Di colpo. Che male. Una legnata. Quando ho cercato di muovere, dopo un attimo, una spilla di fuoco tremenda mi ha schiacciato a terra. Di qui non vado più via, ho pensato. Qualche istante e ho riprovato, e la fitta era un po’ più leggera. Ancora un attimo e sono riuscito ad alzarmi. Che male, ma ero in piedi, forse potevo rientrare con le mie forze.

Prima però sono ancora riuscito ad andare dietro agli stambecchi, e li ho anche agguantati… con l’obbiettivo, intendo.

Nei giorni successivi sono ricorso alle arti di Fiurelin, l’amica carissima fisioterapista, a qualche cerotto anti infiammatorio e mi sono rimesso. Quasi. Perché sapere d’avere un ginocchio che può mollarti da un momento all’altro non è bello. E se mi molla al Col dell’Arcano? Pensavo, ai Laghi dell’Albergian? Anche solo a Roca Cadrega? Alla Cascata di Mil?

Così sono andato a fare la risonanza, e lì non hanno detto niente di particolare, niente di molto diverso da quanto emerso già in agosto dove, con un’altra risonanza a seguito dell’incidente del Lubè, era emerso che si, il ginocchio non era splendido, ma nemmeno da buttare; un ginocchio di sessant’anni, tutto lì. Ma questa volta, dopo la risonanza, Mil mi ha guidato da un luminare, il quale, dopo attenta meditazione e dopo avermi fatto un male cane, ha decretato: menisco rotto. Ed eccomi qui, claudicante, a raccontare per trascorrere il tempo, e pure un po’ per ridere, delle mie sventure di inseguitore azzoppato di stambecchi e di trasportatore mediocre di travi di roverella.

Il decreto.

Era giovedì 24 gennaio quando il dott. Tal dei Tali decretò che il menisco era rotto.

Intervento in quell’ospedale là, ragionevolmente verso la metà di febbraio. Telefonare per mettermi d’accordo. Tipo freddo, il luminare, di quelli formalmente corretti che ti fan sentire una merda, perché dall’alto del loro io non scendono al tuo basso. Da quell’altezza, però, dovessero mai cadere o trovare la loro roverella, sai che tonfo.

Telefono due giorni dopo e mi confermano ipotesi metà febbraio, da definire.

Si trae il dado.

Lunedì 11 febbraio, sono al lavoro.

È l’una, ho appena finito di mangiare quando squilla il telefono. Sono solo e sono in pausa, non ne sono tenuto e non rispondo: chi me lo fa fare, in quel luogo di puttane e ruffiani. Ma il telefono continua e alla fine, non so perché, alzo la cornetta. È la segretaria della clinica, quella che ho sentito una settimana prima. -Si è liberato un posto per il 14 febbraio, dice, se le va bene… –

-Ceeeeeeerto che mi va bene-, così la facciamo finita, penso. Ma poi… 14 febbraio, giovedì… tra tre giorni… quasi cado dalla sedia. -Mi lascia mezz’ora per decidere?-, le chiedo? -Va bene-, risponde.

Telefono a Mil, dice OK, richiamo la clinica ed è fatta.

Sono basito: non mi sembra vero: tre giorni e mi segano. Bene, così non ho tempo di pensare e penare, si fa tutto mentre fa freddo e fuori non si può concludere un gran che, nemmeno andare per roverelle al Lubè!

Tempo di darmi da fare.

Il gran giorno.

Giovedì 14 febbraio. Giorno del mio secondo menisco. Il primo fu dieci anni fa, se ricordo bene.

Alle 7.30 siamo in clinica. C’è già la coda per farsi ricoverare. Una signora gentile mi dice che per gli esami devo salire, che i documenti di ricovero li fanno anche dopo.

Salgo, Mil continua la coda.

Sopra, al terzo tentativo trovo lo sportello giusto, sanno addirittura chi sono – mi sento importante -, mi danno un foglio con su il mio nome e la mia data di nascita: sono il numero otto!

Mi fanno accomodare in una grande sala dove siamo in pochi. Ma in un baleno è colma. Le 8.00 e nulla si muove. Mi raggiunge Mil; che aspettano? Un attimo e d’incanto si va, ne chiamano otto, entro di culo nel gruppo d’elite. Vado davanti a una stanza ad aspettare in piedi. Dentro nemmeno un lettino, dissanguano da seduti. Brutta faccenda, per me. Per fortuna arriva un’altra infermiera uscita da un’altra stanza; cerca l’otto, per l’elettrocardiogramma, così guadagniamo tempo, dice…

Mai fatto l’elettrocardiogramma. Osservo curioso che mi agghinda, dopo avermi spruzzato d’acqua petto, caviglie e polsi. Poi mi collega, mi sistema modello defunto ben disteso ma con braccia ai fianchi, e via. Un attimo e mi toglie gli aggeggi e sono fuori, di nuovo davanti alla porta dei vampiri. E torno in crisi. Passeggio, mi allontano, cerco di pensare ad altro. Mi chiamano. Entro e dico subito alle due infermiere che ho dei problemi, che potrei svenire. Solite mezze risatine, il diavolo le porti, ma sono gentili. Mi fanno mettere sulla poltrona e mi ribaltano a testa in giù. Quella che mi buca è incredibile. Mano leggerissima. Un attimo e sono fuori anche di lì. Ma prima le dico che ho chiesto l’anestesia totale… Dice che l’ha scritto sui fogli grande come una casa. Ma bisogna parlare con l’anestesista. Va bene.

Si va al terzo piano. Infermiera gentile coi capelli rossi. Ancora un chilo di carta da compilare.

-Anestesia totale-, ripeto. -Bisogna parlare con l’anestesista-, conferma.

Attendo, molto, che mi diano una camera. Alle 9.30 l’ottengo: 333, c’è scritto fuori dalla porta. Dopo un po’, altra infermiera, pure lei gentile, a farmi la barba al ginocchio da segare. Tricotomia si dice, perbacco!

Anche con lei: -anestesia totale-, abbozzo… -Bisogna parlare con l’anestesista-.

Poi se ne va.

Pausa eterna.

Eccone un’altra. Giovane, mulatta direi, quasi carina, ma antipatica. Mi porta il costume per la camera operatoria. Spiega: -alcuni minuti prima di salire veniamo ad avvisarla, così si prepara: nudo come un lombrico, mette slip, cuffia, calzari e tunica-.

Ci provo anche con lei: anestesia totale… -Bisogna parlare con l’anestesista!-

Comincio a essere nervoso. Che mi stiano prendendo per il culo?

Aspettiamo.

Io che mi riscaldo, Mil anche, nel timore che mi saltino i nervi.

Eterno.

Tempo per scoprire che ho un calzino bucato. Maledizione, non le metto mai quelle calze, le ho scelte per esser un po’ più figo… e sono bucate. Porco mondo. Mica ho pensato a controllare se avevano dei buchi, questa mattina all’alba… Le tolgo, così non si vede il buco. Nella stanza fa caldissimo, ma ho i piedi di ghiaccio. Tensione, fifa, nervoso. Li tengo in mano per scaldarli. L’orologio sembra fermo. Qualcuno ha incollato i numeri.

Non viene nessuno.

Le 10.00; 10.30. E se mandassi tutti a cagare e me ne andassi? Questo pensiero garibaldino in camicia rossa mi insegue e mi martella sempre più deciso in testa. Quasi quasi, mentre ho ancora le mie gambe da corsa… Perché si può morire anche senza l’aiuto dei medici, diceva un mio amico tanto tempo fa.

11.00; niente. 11.45 o giù di lì: rientra la tipa antipatica.

-Si prepari che andiamo-, annuncia.

Mi spoglio e Mil mi aiuta nel passarmi il costume da camera operatoria. Anche lei è tesa. Cerchiamo di ridere e scherzare. Che forza la mia Mil.

I mini slip sono molto sexi. Da gigolo. Da una parte un triangolo più grande, dall’altra un rettangolino piccolo piccolo. Due spaghi per la vita. Quale sarà il davanti? Quello più piccolo, dice Mil decisa. Infilo così. Quel rettangolino tiene su, si e no, il pene che, pur ridottissimo per la tensione, non ci sta; esce una volta a destra e una volta a sinistra. Forse va al contrario. Si, così va meglio.

Rientra la tipa: mi fa salire su una sedia a rotelle. Mi dice di tirare su i piedi. Dove? Tiro su i piedi… Il predellino è aperto! Se ne accorge, traffica un po’ e ce la fa.

Andiamo.

Non una parola: come fossi un sasso.

Vaffanculo, ragazza!

rens

Fine della prima parte (continua)

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