Archive for gennaio, 2014

Geronimo

Posted by Labile on gennaio 30, 2014
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L’uomo anziano che arriva in ospedale, annaspa nella poca aria ingurgitata, con la tipica fame d’aria mescolata ad un palese e incontrollabile stato di agitazione.
Il colore, bianchissimo, della pelle mi sorprende mentre taglio la maglietta. Liberato il torace, cominciamo velocemente le manovre consuete per trattare l’edema polmonare imponente che lo travolge.
Incannulate un paio di vene e somministrati i primi farmaci, velocemente collegato al monitor.
“Si, sembra reagire …” è il pensiero che facciamo tutti guardandoci e cominciando ad allentare la tensione provvediamo velocemente al resto.
Nel tagliare la maglietta emergono segni e linee bluastre che pian piano prendono forma. Un uccellino con una rosa in bocca, una scritta che recita eterno amore, una sirena a seno nudo e due code, un cuore dedicato alla mamma.
Tatuaggi abbozzati chissà quando da una mano incerta e in un segno bluastro malamente tratteggiato. Tipici, vista l’età del possessore, dei carcerati.
Di quegli uomini che hanno passato chissà quanti anni “a bottega” come mi spiegherà in seguito Geronimo che con voce stentata risponderà alla mia curiosità.
Si l’ho battezzato subito Geronimo, come il mitico e bellicoso capo indiano Apache, visto che sul suo petto troneggiava anche una enorme figura di un Indiano con copricapo di piume, fumante una lunga pipa, il calumet della pace. La figura, sicuramente il più importante fra i suoi tatuaggi, occupava l’immenso e bianchissimo torace che per parecchio tempo ci ha impegnati a risolvere il suo edema polmonare.
Geronimo, ultraottantenne, ha scontato per un delitto “d’onore ” parecchi anni in carcere. Uomo d’altri tempi, che capita qui in pronto soccorso, trascinando peccati lavati e raccontabili dalla sua pelle tatuata nelle lunghe giornate carcerate con ago e inchiostro, che a distanza di decine di anni hanno assunto una particolare colorazione bluastra che raccontano la sua personale visione dell’amore provato per la sua donna passato per un onore schizzato di fango.
Uomo d’altra epoca, di quelli che la donna era prima la mamma e poi la moglie, sempre da amare all’infinito e sempre da proteggere magari smacchiando le offese nel sangue, come accadeva nell’Italia dei primi anni ’50.
Geronimo raccontandomi e spiegandomi il significato dei suoi tatuaggi mi fa capire l’infinito amore provato, quello sospeso e sempre sognato nelle giornate carcerate, dell’attesa dentro lui e fuori lei, che aspetta, che lo aspetta fino alla fine. E allora sirene a due code sognate di notte e un uccellino per portare una rosa d’amore all’amata e ricordarsi sempre che l’amore, quello certo, ce lo insegna per prima la mamma.
“E l’indiano , Geronimo?”

“Essi sapevano come stavano le cose e tuttavia dissero che io ero un uomo cattivo: l’uomo peggiore del posto; ma che cosa avevo fatto? lo stavo vivendo pacificamente qui con la mia famiglia sotto l’ombra degli alberi …”

Labile

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La cura dell’agonia – quarta parte

Posted by Herbert Asch on gennaio 22, 2014
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Foto di HA

Foto di HA

Restavano, ultima ratio, i cossiddetti eccitanti diffusivi. L’etere muschiato, l’olio canforato, cosa potevo sperare da questi agenti? Era ancora possibile di eccitare fortemente il cuore, come con una frustata, o potevo sperare una reazione vaso motoria?

Ricordavo un caso di embolismo della polmonare superato colle iniezioni di olio canforato ogni cinque minuti; ricordavo l’effetto dell’etere muschiato in un attacco d’asistolia in un mitralico ancora vivente; rammentavo dei colerosi richiamati in vita con le iniezioni di etere…,

ma ricordavo purtoppo altri pneumonici tormentati invano sull’agonia con iniezioni di etere, etere muschiato, etere canforato, di olio canforato, e mi domandavo se c’era ragione di far soffrire un povero paziente, in cui la mente offuscata non comprendeva più appieno il pericolo mentre i nervi sentivano ancora il dolore pungente di una introduzione di etere

Dappertutto dove la morte ha fatta una apparizione lascia dietro di se questo perfido odore di muschio. Il fatto è oramai così conosciuto che quell’odore penetrante, ingrato, porta con sè la sentenza fatale pel malato, se è ancora in grado di comprenderla e pei parenti. Ma quand’anche la speranza fosse minima ed il dolore anche più grande di quanto è realmente, sarebbe stato immorale lascire intentata l’ultima via.

Praticai alcune iniezioni di etere canforato. Esse uniscono certamente i due più potenti eccitanti momentanei. L’effetto di esso è certo meno duraturo di quello dell’olio canforato, ma è più pronto ed io non avevo tempo da perdere.

Inutile! Il rantolo cresceva , il respirare diventava una fatica disperata, il polso si faceva aritmico, vuoto, le estremità erano fredde e sudate.

– Ma dottore! Soffre non si può almeno calmarlo? –

È lecito diminuire le sofferenze degli ultimi momenti cogli oppiati?

È utile e morale sopir la mente sugli ultimi guizzi della vita con un po’ di morfina?

Quante volte me lo sono domandato dinanzi allo strazio di agonie prolungate, dolorose, e mai ho saputo rispondermi in maniera soddisfacente. Una dose piccola di morfina, secondo alcuni, sarebbe piuttosto un eccitante che un calmante, ma in queste condizioni riescirebbe anche inutile. A dose più alta, a dose ipnotica non esercita essa un’azione deprimente sul cuore, sui centri nervosi che negli ultimi sforzi di questi organi può riuscire mortale?

No, no! Non è morale aggiungere pericolo a pericolo per ottenre un piccolo sollievo! A coscienza perfettamente integra, a dolori atroci forse il problema della convenienza si potrebbe porre, ma qua dove la coscienza è alla soglia appena, dove forse tutto l’apparato fenomenologico è più penoso per chi assiste che pel malato, non è lecito gettare anche un minimo peso sulla bilancia: dire, muori, ma senza dolore!

Ma il rantolo taceva ad intervalli, il polso non era più percettibile e la pressione era dissolta. Alcune convulsioni dei muscoli della faccia e dei sollevatori della mandibola inferiore segnavano la fine.

Era morto!

Nella luce scialba del mattino, rifiutata la carrozza che mi attendeva alla porta, percorrevo a piedi il corso, calpestando il soffice tappeto di neve, che aveva cominciato a cadere tranquilla e solenne.

Ed in quella pace alta, senza rumori e senza viventi, riandavo al dramma della notte: possediamo noi qualcosa di veramente efficace di fronte alla morte eveniente?

O non sarebbe meglio non turbare le ultime ore di un morente, e lasciare la cura dell’agonia alla pietà dei parenti ed al conforto della fede?

(4 – fine)

“La cura dell’agonia” di Scipione Riva Rocci è integralmente riportato nel libro “Buona Sanità – Storia di un Ospedale” di Francesco Scaroina. Pintore Ed. Torino, 2005.

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La cura dell’agonia – terza parte

Posted by Herbert Asch on gennaio 18, 2014
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Foto di HA

Foto di HA

In poco d’ ora però i sintomi leggermente migliorati riapparivano l’uno dopo l’altro minaccievoli, era stata una breve sosta, ma le cose volgevano fatalmente a male. Il cuore, sollevato per un momento non si era rialzato, nessun miglioramento si era ottenuto sull’innervazione generale e sovratutto sulla vasomotoria.

Pensai se non era il caso di ricorrere a cardiocinetici più energici di quelli adoperati fino allora, e mi si presentò prima alla mente la caffeina.

Dovevo praticare delle iniezioni di caffeina?

Lo strofanto era stato adoperato invano per tutto il corso della malattia, la digitale sarebbe stata troppo lenta per uso interno, e purtroppo, dalla mia esperienza d’altri casi, poco efficace. Per uso ipodermico sottoforma di digitalina, infida e pericolosa.

Adoperando un cardiocinetico come la caffeina potevo ottenere un aumento della forza sistolica d’ambo le metà del cuore, una riduzione dello sfiancamento e della dilatazione acuta dei ventricoli, che aggiungendosi alla stanchezza ed all’intossicamento della fibra muscolare metteva in così cattive condizioni funzionali l’organo centrale della circolazione. Con questo farmaco potevo forse ottenere una eccitazione del sistema nervoso centrale, prostrato, e con questo anche ottenere una maggiore regolazione vasomotoria, aiuto potente alla circolazione. Avrei ottenuto insomma condizioni circolatorie migliori, combattendo il pericolo immediato della vita, e potevo sperare che di momento in momento diminuisse la causa di tutto il disastro che minacciava.

Praticai una, poi un’altra e poi una terza iniezione di caffeina. Avevo a mano delle ampolline chiuse alla lampada di 25 centigrammi di citrato di caffeina e benzoato di soda per centimetro cubo, molto utili e comode nei casi pressanti

L’effetto fu nullo. Quantunque le iniezioni fossero poco sentite, in quello stato di angoscia crescente, nessun segno dimostrò che esse avessero avuta un’azione qualsiasi, che anzi la forza del cuore andava perdendosi. La cianosi aumentava, al punta del naso e le orecchie si facevano fredde ed affilate, e nell’occhio, ampiamente aperto, si spegneva la vita. La dispnea aumentava, un fremito bronchiale diffuso indicava i rapidi progressi dell’edema polmonare, ripreso rapidamente dopo la breve sosta seguita al salasso. La pressione misurata con l’angioparatlibometro segnava stabilmente 85 millimetri di mercurio.

Poteva migliorare la respirazione con l’ossigeno? Fornendo un’aria più ossigenata potevo- ad onta delle negazioni teoriche, far assumere al sangue una maggiore quantità di ossigeno, e renderlo quindi capace di uno stimolo maggiore su tutti i centri della vita che piegavano. Avrei forse dato loro l’utlima resistenza e la vittoria.

Purtroppo oggidì l’ossigeno non possiamo procurarcelo che a stento e non dappertutto, ed io stesso, in quel frangente non ne avevo che un sacco di una ventina di litri, senza altri apparecchi che un bocchino di vetro per farlo inalare. Cosa poteva valere una goccia d’acqua su quell’incendio?

In trenta o quaranta inspirazioni, volendo fornire realmente ossigeno e non soltanto farne mostra, la provvisione era consumata. Anche calcolando su qualche intervallo in tre o quattro minuti la provvista era finita

L’effetto fu nullo ancora.

Il rantolo tracheale, il polso piccolo, vuoto, molle, l’occhio velato, appannato, mi avvertirono dell’inutilità dei miei sforzi.

(3 – continua)

“La cura dell’agonia” di Scipione Riva Rocci è integralmente riportato nel libro “Buona Sanità – Storia di un Ospedale” di Francesco Scaroina. Pintore Ed. Torino, 2005.

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La cura dell’agonia – seconda parte

Posted by Herbert Asch on gennaio 15, 2014
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Foto di HA

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Ma intanto la dispnea cresceva e le sistoli si affannavano a mantenere un polso pieno. Il cuore sporgva sempre più a destra dello sterno, mentre il secondo tono polmonare squillava davanti allo sbarramento polmonare. Non era il caso di diminuire il lavoro del cuore? Non era il caso di diminuire la massa del sangue nero, che precipitava d’ogni parte a sfiancare quel povero cuore destro, impotente -perché avvelenato- davanti alla chiusura di tanti capillari polmonari?

Evidentemente questo stato era, qui, transitorio.

Non si trattava di un cuore profondamente degenerato, di una cachessia, in cui anche un aiuto momentaneo non avrebbe giovato a nulla. Qua, dopo qualche ora, chissà che non fosse passato il pericolo. D’altra parte, anche altrove, nei vizi di cuore gravi, nei periodi d’asistolia, quando il cuore lotta impotente contro gli sbarramenti opposti dalle congestioni passive multiple -congestioni polmonari, encefaliche, epatiche e di tutto il distretto della porta – un’ampia deplezione del sistema venoso ha prodotto alle volte vere risurrezioni nel giro di poche ore.

Una sottrazione sanguigna sarebbe stata dannosa?

In un diabetico, anemico e attossicato, in un marasmatico da infezione cronica da tumori maligni, una sottrazione sanguigna quando il cuore cede e col rantolo tracheale si dimostra la stasi del piccolo circolo, puó essere causa pronta della morte, sottraendo ancora all’organismo l’ultimo eccitamento dell’ossigeno ematico. Ma in un cardiopatico pletorico nel fiore degli anni, con una ripienezza vasale notevole, con una turgidezza venosa, che pericolo poteva esservi a sottrarre poche centinaia di centimetri cubici di sangue?

Data l’indicazione della sottrazione sanguigna avrei potuto rivolgermi alle mignatte.

Le rigettai senz’altro: non le avevo pronte, occorreva per la loro azione un tempo relativamente lungo, inoltre la deplezione del sistema vasale avrebbe richiesto un numero notevole di mignatte. Forse queste avranno un’azione diversa dalla semplice sottrazione di sangue. Quando si dimostrassero capaci di un’azione generale diversa da quella meccanica, il fatto non sorprenderebbe più, oggidì che si sa che il succo delle loro teste gode di uno spiccato potere di impedire la coagulazione del sangue, forse utile in questo caso.

Non restava quindi, per sottrarre sangue alla massa circolante, che il salasso..

Ma prima di accingermi all’atto operativo, cedendo alla logica ed all’invito che leggevo negli occhi ansiosi del malato e dei parenti, che aspettavano da me un sollievo immediato qualsiasi, mi rivolgeva ancora qualche domanda , palpando quel polso largo ed ascoltando il sibilo inspiratorio sempre più forte ed anelante.

Potevo io essere sicuro di non eccedere? Di non abbassare troppo la pressione sanguigna sottraendo al circolo aortico una quantità di sangue troppo grande, che io non potevo misurare in alcuna maniera?

D’altra parte avrebbe il sistema nervoso sopportato il disagio di alcune scariche alvine provocate in modo così energico, o non ne sarebbe risultata piuttosto una paralisi vasomotoria e cardiaca fatale?

La dispnea cresceva di minuto in minuto. Il respiro aveva un qualcosa d’un rantolo lontano, l’ascultazione della parte anteriore del petto lasciava udire a sprazzi, ad aree mal conterminate, assieme al rumore respiratorio aspro, puerile, sibilante, degli scrosci di rantoli fini, numerosi, poco risonanti. L’aia cardiaca relativa oltrepassava quattro dita trasverse la sternale destra, le giugulari esterne erano sollevate e pulsanti d’un polso doppio, il bulbo della giugulare si sollevava turgido ad ogni sistole fra le inserzioni dello sternocleido, il polso era pieno, grosso dicroto, molle: minacciava un edema polmonare. Ad onta che il cuore mandasse larghe ondate di sangue ad ogni contrazione la tensione aortica andava diminuendo.

Mi decisi pel salasso. Incisa la mediana cefalica, estrassi trecento cc di sangue. Per qualche tempo il sollievo fu evidente, il respiro apparve più libero, più profondo, il sistema venoso meno ripieno, il polso più piccolo e più duro.

(2 – continua)

“La cura dell’agonia” di Scipione Riva Rocci è integralmente riportato nel libro “Buona Sanità – Storia di un Ospedale” di Francesco Scaroina. Pintore Ed. Torino, 2005.

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La cura dell’agonia – prima parte

Posted by Herbert Asch on gennaio 11, 2014
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Foto di HA

Foto di HA

Oggi, e nei prossimi tre post ho pensato di proporre questa memoria, scritta da un medico illustre della fine dell’800, Scipione Riva Rocci, noto per aver inventato lo sfigmomanometro.

La memoria, del 12 gennaio 1898, è riportata nel libro “Buona Sanità – Storia di un Ospedale” di Francesco Scaroina. (Pintore Ed. Torino, 2005.) da cui l’ho tratto.

Ad una lettura superficiale può essere noiosa, e credo che possa essere apprezzata soprattutto da addetti ai lavori, vi sono molti termini tecnici spesso ormai abbandonati, ma trovo che, ad una lettura più attenta, si presti a diverse interpretazioni: intanto dà un’idea di come si sia evoluta la farmacopea e in genere gli strumenti a disposizione del medico. Inoltre risalta molto il ragionamento clinico, descritto molto bene dall’autore. Si può poi notare come la compassione verso il paziente sia rimasta la stessa quale è sempre stata sin dalla nascita delle professioni (o arti) mediche e assistenziali. Infine, nell’ultimo brano troviamo l’esplicitazione dell’atteggiamento verso la sedazione terminale sopravvissuto ancora sino a qualche tempo fa.

H.A.

La cura dell’agonia.

Ero venuto a casa inquieto quella sera: prevedevo una catastrofe per la notte. Cacciatomi sotto le coltri, non riuscivo a prendere il sonno; battevano le undici e mezza, le dodici, ed io stavo ansioso, in orecchi, sussultando ad ogni rumore di carrozza, che sonasse sul selciato della strada.

Finalmente ero riuscito ad addormentarmi, quando una forte scampanellata mi fece balzare sul letto: sapevo di che si trattava; senza aspettare che andassero ad aprire, accesi i lume e mi vestii, in modo che mi trovai subito pronto a partire.

Sulla porta semiaperta dell’alloggio mi aspettava ansiosa una donna.

– Venga presto, dottore! Me lo salverà, non é vero? Sta proprio male –

Le parole, sussurrate, si spegnevano sui tappeti morbidi, nelle cortine pesanti del corridoio d’entrata. Sotto la luce rosea ed incerta d’una lampada colorata avevo visto passare senza rumore, in salotto, un’ombra nera, il prete; in quel silenzio pesante s’udiva soffocato e lontano un rumore strano, ritmico, con pause rotte.

Come s’era accresciuta la dispnea in poche ore!

Che fare? Era la fine della terza giornata: era là, appoggiato ad un cumulo di guanciali, d’un accensione cianotica alle guancie, coll’occhio iniettato e lucente, e la pupilla larga e profonda, nelle brevi tregue dellla dispnea rumorosa che lo affaticava, muoveva il capo cercando il refrigerio d’un pezzetto di ghiaccio sulle labbra riarse.

Che fare? Potevo io tentare qualcosa contro quella epatizzazione, che aveva convertito in un blocco solido successivamente tutte e due i lobi dei polmoni? Potevo impedire, frenare, ridurre, anche in minima parte quell’intossicazione, che lo prostrava nell’attività dei visceri più necessari alla vita? Avevo qualche cosa che potesse stimolare o accrescere la resistenza di questi organi, che si vedevano cadere di minuto in minuto?

Non era il caso, nè avevo il modo di curare la malattia: purtroppo in questa, come in tante altre, noi siamo ridotti ad una terapia puramente sintomatica e sovente anche empirica. Oramai era troppo tardi anche a tentare una cura sistematica. A nulla avrebbe giovato il bagno, od il freddo locale, se non fosse ad accelerarne la fine colla fatica che gli si doveva necessariamente imporre. D’altra parte anche questa terapia, praticata nei giorni precedenti, non aveva impedito di trovarsi ora all’agonia; il bagno e la perfrigerazione cutanea – nei momenti supremi – ha fallito sempre. Quanto pure non ha aggravato la posizione, nè qui nè in altri momenti simili di qualsiasi malattia, era il caso di pensarvi.

Era il caso ed era il tempo di praticare una revulsione cutanea? Il vescicante abbisogna, per produrre un effetto qualsiaisi, di parecchie ore. Dopo un quarto d’ora, nei casi fortunati, incomincia la trasudazione, ma nelle maggior parte delle volte occorre un’ora e anche più perché si sollevi una bolla. Potevo credere che il mio malato mi desse un’ora di tregua?

Ed ottenuta la vescicazione potevo sperare un’attenuazione dei sintomi? Evidentemente non avrei potuto ottenere un effetto che in due modi: o modificando -diminuendola- l’intossicazione. Sia sottraendo col siero della vescica un po’ del tossico circolante, sia colla modificazione dell’equilibrio chimico, per la penetrazione di un po’ del materiale irritante del vescicante o del siero da esso modificato.

Pure e mere ipotesi

Oppure ancora come irritante cutaneo, agendo sui centri nervosi in maniera da rendere piú forte la regolazione del cuore ed il tono vasale. Anche questa una spiegazione pei casi felici. Non c’erano, è vero, controindicazioni. Non esisteva una vera nefrite, non si trattava di quelle malattie, come il tifo, lo scorbuto, le setticemie, che, per sè, controindicano ogni lesione di continuo della cute come pure i centri nervosi, -avvelenati, forse- non erano certo infiammati in modo che avessi a temere poi escare da paralisi trofica, superato il pericolo.

Bilanciato il pro ed il contro avrei potuto forse tentare. Evidentemente dovevo cercare un vescicante che irritasse: non potevo usare -come in altri casi non urgenti- il vescicatorio indoloro (canfora, idrato di cloralio, mentolo, sugna depurata o vaselina) preparazione sovente infedele. Era necessario usare un vescicatorio cantaridato: il vescicatorio rosso o i quadretti di Albespeyres, usualmente abbastanza buoni se ben conservati.

Potevo mandarli a prendere per averli sottomano.

(1 – continua)

“La cura dell’agonia” di Scipione Riva Rocci è integralmente riportato nel libro “Buona Sanità – Storia di un Ospedale” di Francesco Scaroina. Pintore Ed. Torino, 2005.

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Flusso di soccorso

Posted by Snoopy on gennaio 06, 2014
emozioni / 1 Commento
foto di EP

foto di EP

 

Piove.

Il telefono di questa piccola associazione ha finalmente smesso di suonare e la testa ciondola pesante sul tomo di Patologia, senza una reale intenzione di scovarne i segreti, almeno per stanotte.

Ripenso a questa prima settimana di tirocinio: pochi giorni, tantissimi volti, troppi morti. Non pensavo davvero che l’impatto sarebbe stato così emotivamente duro. In fondo, come soccorritore, ho già avuto a che fare con la morte.

In Clinica Medica è diverso, però. E’ tutto più lento, pacato, preciso e ponderato. Le diagnosi più pesanti diventano parole scritte a tratto leggero, che noi studenti scrutiamo, ansiosi. La terapia si progetta sul lungo termine, i miglioramenti sono lenti. I peggioramenti, invece, non si fanno attendere e spesso colgono tutti impreparati: penso al signor Angelo, ricoverato pochi giorni fa per la sepsi dovuta al suo drenaggio toracico: mi ha raccontato tutto, in un pomeriggio…i figli, la guerra, la malattia.

Angelo non sta male solo per la sepsi. Angelo sta morendo, e con lui, tutte le sue metastasi.

Nessuno gliel’ha ancora detto. Forse nessuno avrà il tempo e il cuore di dirglielo.

“No, non venire Lunedì. Vedrai che mi dimettono Domenica! Passa prima, che ti voglio salutare bene.”

Non ho saputo trattenere una lacrima.

Non starò a chiedermi il perché.

Non lo chiederò neanche a loro, medici esperti e navigati, che contro la morte combattono ogni giorno e ogni notte. Perché ho paura della risposta che mi potrebbero dare. Ho paura del vuoto che scorgo dentro agli occhi di molti, mentre prescrivono qualche cura palliativa.

Per fortuna, una notte a settimana, almeno fino alla laurea, mi sarà ancora concesso di vestire d’arancione, insieme ad alcuni compagni di studio, tutti ansiosi d’imparare l’impossibile sul paziente critico, chi per un motivo, chi per un altro.

Il telefono torna a disturbare questo apatico pensare: un codice rosso.

Ora.

Sarà la sirena.

Sarà confusione.

Sarà veloce, frenetico e preciso.

Mentre accendo la radio, scrutando gli occhi assonnati del mio autista, capisco quanto incredibile sia la strada che ho davanti, la strada che ho scelto e, scendendo dall’ambulanza, mi accorgo di essere già completo, un giovane stereotipo di un futuro me stesso che si tuffa nel suo presente: la vita di una persona nelle mie mani, i compagni di viaggio al mio fianco e, nei miei pensieri, lei.

Snoopy


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Comunque auguri

Posted by lunasioux on gennaio 01, 2014
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C’è così tanta felicità nella vita.
La felicità di essere con le persone che ami di più.
La felicità del dare- e di ricevere. La felicità di vivere in una terra pacifica, sicura, familiare.
Ma la felicità ha un nemico, e il nome di quel nemico è indifferenza.
Quando l’anno volge al termine, è un buon momento per guardare dentro di noi.
Che cosa è importante? Cosa provoca indignazione? Quando ti riempi di meraviglia? Cosa ti rende felice?
Non ci vuole molto a provare a rendere felici gli altri.
Quando offri a qualcuno il tuo posto in autobus, quando aiuti il tuo vicino di casa anziano a scendere le scale, quando ti rifiuti di guardare dall’altra parte.
Inizia dal piccolo mondo che è di fronte al tuo naso.
Tu sei sulla buona strada per combattere l’indifferenza.

Auguri a tutti.

Lunasioux

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