Reperibilità

Posted by zarianto on agosto 02, 2016
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foto di DB

foto di DB

Driiin!!! All’una di notte…suona il cellulare! “Vieni giù che c’è casino!” .

Accidenti! Proprio mentre pensavo di averla sfangata e finalmente, sotto il peso di palpebre inesorabilmente calanti, affievolitosi il consueto stato di vigile allerta, mi arrendevo al sonno ristoratore, sullo scomodo divano anti…coma di casa, già, opportunamente in abiti civili, coi piedi avvolti da assai ginniche scarpe, da linea di partenza! Bisogna andare!

Nel “minor tempo possibile” , come recita il contratto, esco, mi reco all’auto, metto in moto…e via.

In piena notte, la strada è veloce. Anche i semafori dormono, ignari degli attraversamenti pedonali e uniche luci nel buio, insieme ai miei fari.

Il silenzio è rotto dalle languide note dell’autoradio, disattente rispetto alle vendite, ma suggerite dal gusto personale del DJ e cariche di giovanili ricordi, spiagge notturne, lune gigantesche e stelle luminose, in costellazioni appena riconoscibili, scarsamente efficaci nell’attutire la solitudine del viaggio a rotta di collo verso l’ospedale, ma perfettamente idonee a sottolineare la meraviglia dei contorni sfumati delle strade, degli edifici, dei monumenti e dei parchi, nascosti, pudici e ritrosi, nell’oscurità.

“Al mio arrivo”, come suol dirsi…il caos! Il Pronto Soccorso collassa inerme sotto l’incessante e martellante stridore delle sirene, a scandire senza sosta il trasporto di pazienti in codice rosso, con l’impietosa e marziale cadenza di…uno all’ora!

Salto così dal paziente precipitato dal secondo piano, a quello shockato per cause da determinare (di ndd, in gergo tecnico), dall’infartuato semicomatoso, a quello in preda a una gravissima crisi asmatica, trovando il tempo di sfanculare l’infermiera di reparto (me ne scuso siceramente e profondamente) inpanicata per la novantenne morta stecchita nel suo letto, in un lago di sangue, districandomi tra il posizionamento in serie, a mo’ di catena di montaggio, di tubi endotracheali, linee arteriose e venose centrali, drenaggi pleurici…e quant’altro…con una puntatina in emodinamica, al seguito di un paziente sanguinante in addome!

L’alba mi coglie a scrivere montagne invalicabili di consulenze che sembrano la trama di un romanzo fantasy, in cui, per puro miracolo, non si verifica la strage di innocenti!

Inizia la danza degli occhi alla ricerca di lancette d’orologio sempre più lente col trascorrere del tempo, fino a quando, giunte le 08.00, alla buonora, posso abbandonare…l’incubo e tornare, un po’ più lentamente per il traffico e i semafori svegli, a casa…tra lenzuola accoglienti e non più in pole position sul divano…di partenza!

Il risveglio pomeridiano mi allarma il giusto sugli accadimenti reali, anziché onirici, poiché in quindici anni, mai si era verificato alcunchè di simile! Che sia l’inizio…della fine? “Speren de no!”.

Zarianto

Magia bianca / Magia nera

Posted by zarianto on luglio 20, 2014
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Sono le ore 20.00.  Nemmeno prendo servizio e già vengo chiamato per l’urgenza clinica in uno dei reparti di degenza.  Indosso rapidamente la divisa e gli zoccoli blu, gentilmente forniti dall’azienda sanitaria ai medici di guardia e tatticamente disegnati per fronteggiare l’emergenza – in ottemperanza della spending rewiev, si è omesso l’acquisto delle pettorine con la lettera S italica e la mantellina rossa – e, districandomi tra le moltitudini di parenti che, a quell’ora di visita vanno e vengono, affollando scale e corridoi del nosocomio, mi dirigo rapidamente verso la stanza del paziente in difficoltà.

Dinanzi alla porta chiusa, un capannello eterogeneo per età e corporatura di uomini di colore mi segue con lo sguardo interrogativo e insieme fiducioso che, cedendo infine alla speranza, si scioglie in un sorriso marmoreo, incastonato nell’ebano scultoreo di quei volti d’Africa, come risposta al mio cenno di saluto.

Apro la porta e un giovane nero subcomatoso, di nome Henry, giace inerme e composto sul giaciglio di lenzuola pallide, circondato dal medico di reparto, da un altro collega e dallo specializzando – tutti in abiti borghesi e camice bianco, …ma senza divisa da supereroe! – e da un ecografo, immobili, in attesa del sottoscritto.

Il problema clinico è rappresentato dal peggioramento acuto del paziente in questione, affetto da AIDS conclamato, blocco intestinale e insufficienza renale acuta, richiedenti il posizionamento rapido di un sondino nello stomaco, atto a svuotarne il contenuto, allo scopo di decomprimere l’addome e consentire l’espansione respiratoria del torace, nonché l’inserimento di un grosso catetere vascolare, la cui punta deve raggiungere le prossimità del cuore e attraverso il quale potrà avere luogo la dialisi salvifica.  Gli altri astanti hanno fallito la prima manovra, a causa della resistenza, per lo più involontaria, opposta dal paziente, né hanno dimestichezza con la seconda.  Quindi… è un lavoro per me!

Chiamo Henry che apre gli occhi e risponde.  Nel solito inglese made in Italy, incerto e improvvisato, gli spiego le manovre cui sta per essere sottoposto e ne ottengo la promessa di collaborazione, cui, nonostante l’obnubilamento mentale – non il mio, almeno nel caso in questione! – viene britannicamente mantenuta fede.  In breve tempo e con il prezioso aiuto degli infermieri, dopo l’abbandono del locale da parte degli altri medici, finalmente liberi di interloquire coi parenti degli innumerevoli pazienti del reparto, entrambe le procedure hanno luogo con successo.

Abbandono per ultimo la stanza e supero il capannello a dir poco festante, largamente prodigo di sorrisi, saluti e inchini ed emanante un oceanico profluvio di educato e gradito calore umano, una volta informato del risultato dell’intervento.

Lungo il corridoio che conduce all’uscita dal reparto, rifletto sull’ottimistico entusiasmo raccolto, sicuramente gratificante, ma apparentemente esagerato per la soluzione temporanea di un problema contingente, ben lungi e differente dalla guarigione impossibile: sperimento una sensazione di stranezza, la percezione indefinita di un dettaglio sfuggente, di un impalpabile particolare fuori posto, di un’atmosfera irreale.

Poco dopo, mentre sorseggio un delizioso caffè industriale, preparatorio della notte lavorativa, di fronte al generoso e lussuoso distributore automatico, sito nell’androne nosocomiale, incontro la persona che si prende cura di Henry nel nostro Paese.  Me ne racconta la vicenda umana, quella di un esule, di padre sciamano, in fuga da credenze magiche che obbligherebbero i prescelti, su base dinastica, a sottoporsi a riti pagani che prevedono anche la condivisione di sangue…umano!  Almeno, così mi pare di intendere. Inoltre, i parenti giungono direttamente dall’Africa, per celebrare, in loco, i riti tribali di guarigione – già svolti – per Henry.

Improvvisamente si diradano le nebbie del corridoio di reparto e l’espressione clamorosa di soddisfazione per ciò che interpreto come una presunzione di guarigione, conseguenza dell’apparente palesamento di una disperata speranza, si colmano di significato. Il rituale propiziatorio ha raggiunto lo scopo, con l’evocazione dello spirito guaritore e salvatore di vite, che si manifesta con sembianze umane, recante, come unico segno distintivo, un singolare, quanto pittoresco abito di colore…blu!

«La fede è sostanza di cose sperate e convinzione di cose che non si vedono» (San Paolo, Lettera agli Ebrei).  

Zarianto

Bella… zio!

Posted by zarianto on luglio 03, 2014
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Foto di HA

Foto di HA

 

“Allora, signor Giuseppe, come andiamo ?”.

Con un po’ di ritardo: “…mah ?”.

Uno dei tre vicini di letto si affretta ad informarmi che occorre rivolgersi alla nipote, che “…sicuramente, sta per arrivare, lo segue ed è quella che sa tutto!”.

Insospettito, formulo due domande strategiche e chiarificatrici: “signor Giuseppe, sa dirmi dove e in che anno siamo ?”.

-“…a casa, nel milleottocentooo….”.

Perfetto! Compreso!

L’anziano (neanche tanto!) ospite lungo-nosocomiale, diabetico, martoriato da problemi circolatori degli arti inferiori, complicati da gravi infezioni sovrapposte – patologie piuttosto comuni, in pazienti di questo tipo – si trova in uno stato confusionale, precipitato dalle tossine batteriche.  E’ necessario ricondurlo in sala operatoria per tentare una bonifica chirurgica in urgenza, previa visita medica.

Mentre noi clinici ci confrontiamo, riappare la giovane nipote, di rientro da un effimero caffè, consumato, in tutta fretta, dinanzi al distributore automatico, nell’ansia di non abbandonare lo zio, nemmeno per un attimo!  Mi viene prontamente indicata dal collega e la chiamo di lontano, avvisandola della necessità di un colloquio, mentre ancora mi consulto.  Ella trasale, sgranando gli occhi e portandosi una mano al petto, come a contenere un moto di terrore!  Comprendo la tensione del parente laico, investito della responsabilità di gestire la complessità di un malato assai complicato e le sorrido, spiegandole che ho unicamente bisogno di delucidazioni storiche, che il sig. Giuseppe, al momento, non è in grado di fornire.  Ampio sospiro di sollievo!

Conclusa la relazione clinica, ho la fortuna di ascoltare la storia commovente, rivelatrice di un universo femminile sempre più sorprendente – nel bene e nel male, in genere! – di una giovane donna, che, al prezzo di grandi rinunce – anche lavorative, in un periodo come questo – e contrasti familiari, senza tornaconto alcuno, eccettuata, forse, la consapevolezza del pastoso ritorno spirituale dell’umana pietà, decide di dedicarsi completamente a uno zio, solo, che, tempo fa, le funse da padre, in assenza di quello biologico.

L’intervento verrà effettuato con successo e, dopo mesi di ricoveri ospedalieri, interventi chirurgici e complicanze di ogni genere, finalmente, il signor Giuseppe e la sua amata nipote riusciranno ad abbandonare gli ospedali e a fare ritorno a casa, dove la giovane donna continuerà a curarsi del beneamato zio.

“Qualunque cosa facciate al più piccolo dei miei fratelli, l’avrete fatto a me!”.

 

Zarianto

Dall’altra parte

Posted by zarianto on aprile 17, 2014
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foto di RR

foto di RR

 

Riapro gli occhi al suono decisamente familiare, ritmico e squillante dei monitor della terapia intensiva… soprattutto ritmico, nel mio caso… dopo ore di manipolazione cardiaca!

Subito, un conato di vomito, cagionato da una pressione sanguigna un po’ bassina, come leggo al monitor (che trovo rapidamente con lo sguardo), per cui richiedo gentilmente la pronta somministrazione di liquidi, puntualmente erogati.

Il volto sorridente di mia moglie e le sue mani delicate che afferrano avide la mia, mi confortano!

Un caro amico chirurgo, giunto di lontano per assistermi, mi rassicura sulla riuscita dell’intervento. Sono ancora, vivo e… vegetante!

La collega anestesista, guardia notturna, si presenta ed è semplicemente deliziosa coi pazienti.

La notte, almeno per me, scorre tranquilla.

Il trasferimento nella terapia subintensiva un po’ meno!  Le ferite sul torace e i drenaggi pleurici, a un certo punto, di notte, dolgono tanto da togliermi il fiato, ma la crisi viene affrontata e risolta prontamente dal personale in turno, sollecitato anche dalla pietà mio vicino di letto: non dimenticherò mai le parole rassicuranti dell’infermiere e le carezze amorevoli della sua collega, entrambi rimasti a vegliarmi fino a quando il sonno riesce ad avere ragione di me.

Pazienti, infermieri e medici, tutti (o quasi), non sono solo encomiabilmente gentili, ma proprio amorevoli (tranne qualcuno, ma, nel numero, si sa…) e non soltanto con me.

Possono nemesi storica, malasuerte e superstizione sottrarsi all’irresistibile tentazione di concretizzare uno dei maggiori fattori di rischio per la salute, cioè quello costituito dall’essere parte del sistema? Ovviamente no, pertanto mi complico, con alcuni problemi risolvibili nella struttura riabilitativa, presso la quale vengo inviato e dove inizia un secondo percorso terapeutico e soprattutto umano.

Conoscendo un po’ la medicina, giungo al centro abbastanza preoccupato per le mie condizioni di salute, ma presto il personale e la forma fisica dei pazienti stessi mi tranquillizzano: l’ambiente è assolutamente accogliente e familiare e il personale competente, cortese, disponibile, efficiente e divertente!

Inizia il percorso riabilitativo di tutti noi cardiopatici, sopravvissuti con consapevolezza alla cardiochirurgia, con quel senso di reducismo che presto unisce fortemente e inesorabilmente, fino alle lacrime di qualcuno, ognuno con una storia diversa da narrare, eppure simile, ricca di coltelli più o meno noti,  di corse disperate in ambulanza, di parenti dotati di inesauribile pazienza, di vuoti di memoria, di difficoltà motorie e, soprattutto, di tanta speranza, voglia di ricominciare e in special modo… di ridere!

Non sarò mai abbastanza grato a tutte le persone incontrate durante questo difficile e insidioso cammino, Paolo, Adriana, Giovanna, Chiara, Sara, Lara, Sergio, Giovanni, Dario, Mauro, Alessandra, Pancrazio, Loredana e tantissimi altri di cui rammenterò sempre il volto sorridente e così confortevole, benché non ne riesca a ricordare – ahimè – il nome, per la loro umanità, comprensione, simpatia e infinita bontà.

Un ringraziamento particolare va alla collega anestesista di sala operatoria che non potei rivedere dopo l’intervento, per il riguardo e la professionalità che ho avuto modo di cogliere.

A te, lettore, che hai sacrificato tempo prezioso per leggermi, auguro una salute infinita, ma dico che, in caso di necessità, troveresti molte persone disposte e in grado di aiutarti efficacemente, che ho l’impressione che costituiscano la maggioranza silenziosa che mantiene in vita, contro ogni probabilità statistica, questo nostro martoriatissimo sistema sanitario.

Grazie per l’attenzione e saluti a tutti… di vero cuore!

Zarianto

Destino beffardo

Posted by zarianto on novembre 17, 2012
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foto di HA

foto di HA

Quante volte accade, nel nostro amato/odiato mestiere di custodi notturni e festivi delle  vite altrui, di imbattersi in circostanze così singolari, da giustificare il sospetto dell’esistenza di un qualche regista occulto e bizzarro, alla direzione sapiente e divertita delle drammatiche e sofferte vicende umane?  Moltissime!  Ma tra tutte quelle possibili oggetti di narrazione, mai dimenticherò lo strano caso che mi accingo a raccontare, per la sequenza di coincidenze, pure assolutamente occasionale, occorsa a tutti i protagonisti.  E se non parlassimo, aihmè, di salute e malattia, di morte e sopravvivenza, che impongono la giusta dose di rispettosa serietà, forse verrebbe addirittura…da sorridere!

E’ la notte di San Sivestro di qualche anno fa.  Terminato il giro-pazienti medico e infermieristico di una rianimazione abbastanza tranquilla, onde attenuare la frustrazione di chi spesso è costretto a lavorare durante le festività, anche quelle più importanti e sentite, mentre gli altri, “i normali”, si danno alla pazza gioia, il personale del reparto dà luogo, con impaziente e superstiziosa rapidità furtiva, preventivamente anti-catastrofista, al brindisi – minimalista, austero e assai spartano, s’intenda – da tempo programmato, di saluto agli anni vecchio e nuovo, giacchè il regista occulto di cui sopra, apparentemente lo concede.  Apparentemente…appunto!

Per il cardiochirurgo di guardia è l’ultima notte di lavoro…in assoluto: il nuovo anno reca con sé una bella finestra provvidenziale, non solo previdenziale – l’ultima? – soprattutto quando gambe sinistrate, anziane e malferme escludono da tempo dalla sala operatoria: ci voleva proprio!

Il cardiologo reperibile sconta l’ultimo turno prima dell’agognato trasferimento verso un primariato prestigioso e si gode l’euforia di un doppio festeggiamento in compagnia degli amici.

L’anestesista di guardia non è sicuramente avulso dal contesto, ma un po’ contrariato si: nonostante una certa anzianità di servizio maturata altrove, in quella rianimazione è l’ultimo arrivato e, dunque, gli tocca lavorare, perché, nella nuova realtà, non contano le innumerevoli festività già trascorse in turno, in diverso nosocomio.

E’ da poco passata l’una di notte e tutti, ma proprio tutti, avvinti da improbabili intuizioni cabalistico-statistiche di auto-convincimento propiziatorio, si crogiolano nella più totale e incrollabile certezza…di averla scampata!  Quand’eccoli sobbalzare e ammutolire d’atomico sincronismo, al ritmo…della suoneria del telefono portatile “d’ordinanza” che annuncia l’emergenza in arrivo.  E che emergenza!  Di tutte quelle possibili e immaginabili…la peggiore in assoluto!

Si tratta di una neonatina di colore, in arrivo dall’ospedale ginecologico perché affetta dalla madre di tutte le malformazioni cardiache congenite, il cuore sinistro ipoplastico!  In pratica, la sventurata è funzionalmente priva di ventricolo sinistro e di radice aortica, per cui il ventricolo destro pompa sangue per tutto l’organismo e non solo per i polmoni, come normalmente dovrebbe accadere.  Affinchè però  il sangue vi giunga dalle vene polmonari, è necessario garantire la comunicazione tra atrio sinistro e destro, destinata a chiudersi in poche ore dopo la nascita.  Pertanto si rende opportuno l’ intervento urgente di settotomia percutanea mediante cateterismo cardiaco, da eseguirsi nel laboratorio di emodinamica, ad opera del cardiologo…e dell’anestesista reperibili!

I genitori della piccola sono di nazionalità nigeriana e non parlano Italiano.  Ricorrendo allo Spaghetti-English, dimostratosi estremamente affidabile finora, forse perché ne sono – modestamente – campione mondiale in carica, riesco a illustrare comprensibilmente la complessità del caso, le procedure cui verrà sottoposta la loro unica figlia e la  prognosi, piuttosto invalidante, se non fatale, in assenza di trapianto di cuore.  La rappresentazione della cruda realtà non li scoraggia e non scalfisce la loro felicità neo-genitoriale: ancora una volta, mi inchino di fronte alla grandezza dei sentimenti di cui l’animo umano è sorprendentemente capace.
Tuttavia, il loro racconto, che, a scanso di equivoci, faccio ripetere per ben tre volte e che trova conferma nella storia clinica, …mi fa letteralmente trasalire!  Rimango sbigottito nell’apprendere che la madre è reduce da ben…sette interruzioni volontarie di gravidanza!

Ora, posso facilmente immaginare…anzi no, potrei finanche percepire distintamente il flusso e il contenuto dei pensieri di chi legge in questo momento, ma, ove necessario – e con ogni probabilità non lo è – vorrei propagare il mio umile invito alla sospensione di un accattivante giudizio, poiché nulla è più fallibile…di noi tutti!  Cionondimeno, considerazione ancora, diciamo così, politicamente corretta, potrebbe essere la seguente: accidenti!  Doveva toccare proprio all’ottavo?

Purtroppo, dopo diversi mesi di ricovero ospedaliero e tribolazioni varie, nonostante l’instancabile e commovente vicinanza di entrambi i genitori ,la piccola …muore.

Fortunatamente, per noi sopravvissuti, come solitamente  accade, giunge infine l’alba di un nuovo…giorno!  E allora: happy new year!

Zarianto

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Parenti

Posted by zarianto on agosto 09, 2012
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foto di EP

foto di EP

Nel tepore autunnale di una sera di Ottobre, quando la notte, avida di tempo, anticipa sensibilmente la sua immanenza e i lampioni tratteggiano profili urbani dai contorni assai familiari, mi avvio sul vecchio sentiero, cosparso di foglie secche, mentre una Luna curiosa e impaziente si affaccia tra i rami, quasi ormai spogli.  Mi dirigo verso l’ultima notte di guardia, in terapia
intensiva pediatrica, poiché da domani lavorerò altrove, più lontano, ben oltre il sentiero, in un luogo non raggiungibile a piedi: tornerò ad occuparmi di adulti.  Si tratta di una scelta professionale, del tutto priva di contenuti affettivi.
Così, incedo più lentamente del solito, nel tentativo di catturare ogni istante, ogni immagine, ogni profumo del cammino che tutti i giorni, per anni, attraverso la poesia del parco fluviale, mi aveva condotto dai miei piccoli e tanto amabili pazienti.  Assaporo quei momenti come fossero le ultime boccate del fumatore o l’ultimo bicchiere del bevitore e con quei gusti, che già sono ricordi, nel palato, mi ritrovo in reparto, dove le voci del personale e i suoni dei monitors mi catapultano nella realtà lavorativa, proprio al termine dell’orario di visita dei parenti, che coincide con il cambio di turno.
Indossata la divisa verde, raggiungo il collega pomeridiano che colloquia coi parenti: la piccola rianimazione che, in presenza dei soli pazienti assume dimensioni apparentemente normali, si ritrae decisamente, quando viene occupata anche dal personale e dai visitatori, tanto che, da un capo della stanza si percepiscono distintamente le parole pronunciate all’altro!
Vengo presentato a una coppia di genitori che ancora non conosco, ma che ricorderò a lungo, poiché mai nel corso di una vita, finora, mi sono sentito così piccino!  Come posso dimenticare la gioia e la felicità di quel padre, la luce emanata dallo sguardo che fende le lenti degli occhiali e mi travolge d’imbarazzo?  E il sorriso commosso di soddisfazione e speranza della madre?
Entrambi per l’ottenimento…dell’adozione!
Si tratta, in effetti, dei nuovi genitori di  un piccolo paziente, un infante portatore di sindrome di Down, ricoverato in terapia intensiva a seguito di un intervento correttivo di malformazione connatale, abbandonato appena dopo la,nascita.  Mi raccontano di un figlio più grande, anch’egli adottivo, paraplegico perché colpito da una neuropatia congenita, che brama di conoscere il nuovo fratellino e che pertanto verrà presto a fargli visita.  Mi congedo con una vigorosa e rispettosa stretta di mano e sorvolo sul mio trasferimento,
attonito per l’esistenza di un tale coraggio e per una capacità di amare così intensa, prorompente e incondizionata (sicuramente immaginabile, ma quanto realistica, invero?) e al cui cospetto…mi pare di svanire!
Terminato il giro-visite, consumati alcuni dolcetti d’addio col personale, raggiungo lo studio del medico di guardia, dove trascorrerò l’ultima notte, insonne, riflettendo poco sul futuro, ma molto… sul passato!

Zarianto

Cambiamenti

Posted by zarianto on dicembre 15, 2011
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E’ una notte estremamente afosa, come sempre più di frequente se ne verificano negli ultimi anni. Gli inverni miti e le estati fresche riportati dai sussidiari delle scuole elementari, contrapposti agli inverni rigidi e alle estati torride di altri Paesi meno fortunati del nostro, per ubicazione geografica, sono ormai un lontano ricordo. Da tempo l’Italia viene regolarmente presa nella morsa del freddo e del caldo, come annunciano ad effetto, i mezzi stampa, ogni anno. E’ la tropicalizzazione del clima. In questa notte di un caldo e umidità insopportabili, che tagliano il fiato, che per ogni respiro ottenuto affannosamente, cagionano indicibili profluvi sudoripari, capita anche di dover lavorare, di trovarsi a guardia della salute altrui, pronti a intervenire, in caso di necessità, benchè…non ci si regga nemmeno in piedi! Fiaccati da un clima inumano che si appropria dei sonni, di notte, quando, a occhi sbarrati e tra lenzuola madide, si cerca e non si trova la posizione migliore per dormire e che ostacola l’incidere diurno, sempre più sonnolento e rallentato, si reperiscono, dentro e fuori di sè, le risorse da opporre. Così, si spalancano tutte le finestre della stanza, a rischio di essere divorati dalle zanzare e si spingono a manetta le pale del ventilatore: fonda pure!
La città sottostante -il destino beffardo ti colloca anche all’ultimo piano dell’ospedale, dove si accumula l’aria più calda- dorme. Ma dorme davvero, poichè gli abitanti non osano nemmeno uscire di casa. I lampioni illuminano a giorno strade deserte da cui proviene l’eco della voce di pochi ardimentosi che discutono… all’aperto! Quei suoni sono l’unico parametro vitale apprezzabile di un centro urbano in narcosi.
Immancabile giunge una chiamata, che scatena nella mente un’orda di maledizioni, anche in lingue diverse, alcune addirittura morte, poichè si sperava, in tutta franchezza, di averla scampata. Soprattutto perchè si sa bene di essere assai lontani dalla forma, come dire, clinica ottimale, al pieno delle proprie capacità. Ma, con estrema sorpresa, la voce del ricevitore non appartiene a un collega, a un’ infermiere o a un centralinista, bensì… a un amico.
Un amico in grave difficoltà, non di salute, al momento, ma… economica! Trattenendo a stento il pianto e la vergogna, egli racconta di non disporre dei mezzi minimi di sussistenza, del pane, insomma e, di lì a poco, nemmeno più della casa. E’ disoccupato, nonostante trascorra le giornate in file interminabili per un colloquio di lavoro…qualunque, difficile, però, da ottenere a quarant’anni. Emarginato dalla famiglia, lasciato dalla fidanzata che, probabilmente, non hanno energie sufficienti a sostenere altre persone, poichè, a quanto pare, a stento sopravvivono e anche perchè ho l’impressione che alcuni possano considerare la disoccupazione una specie di patologia contagiosa da rifuggire assolutamente e forse non sbagliano di molto, se non perlomeno nell’identificazione del paziente, che in tal caso non dovrebbe essere la persona, ma la società in cui vive, se i tassi di incidenza e
prevalenza -la popolazione colpita, sostanzialmente- sono effettivamenti quelli di una feroce malattia infettiva, ignorato dall’assistenza sociale in quanto single, cioè privo, a questo punto fortunatamente, di altre bocche da sfamare, il malcapitato non sa più a chi rivolgersi.
E allora chiama in tarda serata, furtivamente, come un ladro, col favore delle tenebre, per non essere riconosciuto, evitando anche di esporsi all’attenzione e al giudizio dei famigliari dell’amico che forse lo potrà aiutare, rimettendo nelle mani altrui, l’intera sua dignità! Percependo l’immane difficoltà di chi non ha via d’uscita, lo invito a raggiungermi, nel tentativo di confortarlo. Egli viene in ospedale, all’ultimo piano, provato e non solo per il caldo e si apre. Tornerà poco dopo ai suoi problemi con qualche soldo in tasca, un effimero palliativo.
E poi?
Da almeno vent’anni volano parole come “Lacrime e sangue”, “Sacrifici”, “Tempo di vacche magre” e mi chiedo come si possa essere ancora privi di cura contro la crisi economica mondiale che imperversa da decenni. Si procede tra provvedimenti tampone e misure correttive, ma di eradicazione, nemmeno a parlarne! Il confronto con la medicina è argomento troppo ovvio per essere discusso.
Sortiscono inarrestabili dai meandri della memoria le antiche narrazioni di una nonna a un bimbo che voleva fare il dottore, relative al medico condotto di un tempo, che, dopo la visita domiciliare, non visto, lasciava del denaro sul tavolo della cucina, prima di abbandonare l’abitazione del paziente. Sprofondo nuovamente nella poltrona del medico di guardia e torno a fissare le pale del ventilatore che roteano vorticosamente, allontanando un po’ di quell’arsura irrespirabile dal mio volto e ad ascoltare il silenzio innaturale della città che irrompe nella stanza dalle finestre spalancate, augurandomi che non venga più interrotto dal lamento stridulo e fastidioso del cicalino. Il malessere fisico attutisce il senso d’impotenza e la disperazione solidale che tentano di erompere, ma non vi riusciranno, sopraffatte, anch’esse…dal
caldo!
Fa caldo.  Fa freddo.  C’è crisi.

Zarianto

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Scusi, lei con quanti cuscini dorme?

Posted by zarianto on settembre 25, 2011
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Che domanda è, da fare a un paziente da operare d’urgenza?
Semplicemente si cerca di capire se il malato abbia difficoltà respiratorie, derivanti da problemi polmonari e/o cardiaci, nel caso in cui abbia la necessità di riposare il meno possibile sdraiato. Ciò condiziona l’intera gestione clinica, perioperatoria.
Ma il paziente, seduto sul letto, con le gambe a penzoloni e di spalle, rispetto all’intervistatore, e rivolto verso la finestra, inondata dalla luce di un Sole nascente di una limpida e calda mattina di mezza estate, priva di nuvole e piena di cielo tinto di turchese, non risponde!
La domanda viene ripetuta in modo perentorio e stizzito, da chi, dopo l’ennesima notte di guardia, trascorsa a combattere contro il più agguerrito degli avversari, il sonno, nonché il destino dei malcapitati pazienti, che li vorrebbe tutti morti e che pertanto ha in odio coloro che gli si oppongono con ogni mezzo (ed è per questo che spesso nulla funziona al momento del bisogno: è il fato che si vendica!), chi, dicevo, non vede l’ora di immergersi dentro quel mare di luce naturale, stanco del molesto chiarore artificiale che illumina le ore piccole di noi, operose formiche notturne, ancorchè per poco, visto che dopo qualche ora, quando, cioè, inizierà la giornata degli altri, quelli normali, quelli diurni, crollerà privo di forze sul divano, senza neppure spogliarsi, per risvegliarsi al tramonto, essendosi privato di un altro giorno.
Ed è proprio l’ebbrezza, nel rivedere il cielo azzurro, che proviene dal profondo della stanchezza, di chi proprio non ne può più, quasi a scacciarla, che a poco a poco si trasforma in qualcosa di molto simile alla rabbia, troppo debole per esserlo realmente, perché almeno si preferirebbe non vedere ciò che ancora non si può vivere e non si godrà quel giorno!
Già ma che ne può il malato?  Sicuramente preferirebbe ammirare il paesaggio da casa sua, altro che da un letto d’ospedale e, per di più, con l’allettante prospettiva di subire un intervento chirurgico d’urgenza!
Quindi, con pacatezza, moderazione e tutta l’empatia per chi ha ben altro da perdere che una giornata di sole, gentilmente, di nuovo: “Scusi: lei con quanti cuscini dorme?”.
Ma il malato non risponde.
Nel frattempo si avvicina una ragazza, con la borsa a tracolla e stretta a sé, come se temesse il furto –peraltro possibile, in quel cavolo di posto, soprattutto di notte- col giubbino scuro, estivo, perché a volte anche le mattine estive sono fredde, che rivelano la prudenza di chi è quasi avvezzo ad aspettarsi di tutto e che concede unicamente qualcosa ai calzoni bianchi corti, che arrivano sotto il ginocchio (i “pinocchietti”?), ai sandali infradito e allo smalto nero di mani e piedi.
Contrariato a pensare che si tratti della parente del vicino di letto, il quale, peraltro, dorme profondamente, incurante dei rumori del reparto, procurati appositamente per risvegliare di soprassalto i malati, colpevoli di riposare, mentre il personale, in piedi all’alba, deve già smazzarsi tutto il lavoro mattutino, solitamente il più pesante, parente, immagino questuante richieste assolutamente irreali a quest’ora, mi sovviene un’unica idea: “Che vuole questa, adesso?”.
“Questa”, piuttosto seccata, mi dice “Mio padre è sordo” –come dire: “Non sei nemmeno in grado di accorgertene, sciocco?”. Dopo una notte di lavoro intenso, la risposta, sorprendentemente, è no!
Allora chiedo a lei: “Con quanti cuscini dorme suo padre?”.  “E che ne so. Ci ha abbandonati quando eravamo piccoli. Non lo vedo da decenni”.
Ma allora che ci fa qui “Questa”? Mi chiedo.
I miei toni si smorzano subito, per l’intuizione di trovarsi al cospetto di qualcuno “più grande”. Quella ragazza d’aspetto poco più che adolescenziale è una donna sulla quarantina, sposata con prole, che in gioventù provvide al mantenimento di parecchi fratelli più piccoli, nonchè della madre: vissero tutti del suo reddito, prodotto, in parte, addirittura come emigrante, all’estero, da teen-ager, con la rinuncia finanche agli studi di medicina, di cui è fortemente appassionata!
Ma ciò non le ha impedito attualmente di occuparsi dell’ istruzione dei figli altrui.  Chapeau!
Il padre, ad un certo punto, non li volle e li lasciò. Ma ora, malato, li ha cercati e loro se lo riprendono, perché, come dice lei “Il sangue non è acqua!”.
Finalmente torno a casa, incapace di pensare al sole, al cielo azzurro, al prato verde e via discorrendo.
Quella notte insonne, di dura lotta per la sopravvivenza mia e dei poveracci che mi capitano tra le mani, tra le imprecazioni per l’ennesima urgenza o perché mancano i guanti monouso e i rantoli di chi è giunto a fine corsa mi ha comunque arricchito, poiché qualcuno disse, a ragion veduta, che una bella storia non ha prezzo!
E ripensando ad essa storia, quella che ti sorprende, quella che non ti aspetti di certo all’alba, guadagno sereno il meritato riposo.
E con quanti cuscini dorme il paziente? Boh! Non l’ho mai saputo! Nonostante ciò, però, mi risulta in salute.

“Nella pietà che non cede al rancore, madre ho imparato l’amore” (F. De Andre’).

Zarianto

highlander

Posted by zarianto on agosto 03, 2011
cronache / 2 Commenti

Margherita è una signora di…novantanove anni e mezzo! Ripeto: novantanove anni e mezzo. Vedova, vive sola, in campagna, nei dintorni di una grande città. Spesso, la figlia, ultrasettantenne, le fa visita e le reca aiuto…nell’orto, di cui Margherita si prende amorevole cura; non nelle faccende strettamente domestiche, perché, per quelle, la mamma è del tutto autonoma. Assume una pillola per la pressione e l’aspirinetta. E’ una signora minuta, tutta pelle e ossa che ha attraversato indenne l’intero ventesimo secolo, testimone diretta di due sanguinose guerre mondiali, che, insieme, hanno provocato più di una trentina di milioni di morti e la distruzione di intere nazioni e popoli; della diffusione della penicillina e dei vaccini, che continuano a salvare vite umane; dell’evoluzione dei trasporti, dal cavallo all’ aeroplano e ai veicoli spaziali che hanno condotto l’umanità sulla Luna, gli automi su Marte e Titano e che solo recentemente varcano i confini del sistema solare. Ha vissuto tutto questo, in prima persona! Chissà che potrebbe raccontare! La immagino, di sera, parlare ai bisnipoti degli ultimi regnanti d’Italia, della guerra partigiana e dei bombardamenti, di Carnera, Coppi e Pozzo, della mezzadria, dell’eroico medico condotto del paese che fece nascere i suoi figli e di Papa Giovanni XXIIIesimo. Gli stessi racconti dei miei nonni!
Margherita ha un aneurisma dell’aorta addominale, ovvero una bomba a orologeria nella pancia, pronta ad esplodere da un momento all’altro, provocando un’emorragia quasi sempre mortale. Quando integro, sarebbe anche operabile, in un soggetto più giovane, poiché le statistiche provano che i rischi di sottoporre un ultraottantenne a un tale intervento superano, di gran lunga, i benefici. Quindi, l’aneurisma rimane dov’è e quando si romperà -perché sicuramente si romperà, a meno che il portatore non muoia prima, per altre ragioni- si vedrà.

Un di’ Margherita si reca nell’orto… a zappare la terra, insieme con la figlia. Di pomeriggio, d’un tratto, s’accascia, in preda a un violento dolore addominale. La figlia, conoscendo la probabile causa, chiede immediatamente soccorso e Margherita giunge al dipartimento di emergenza e accettazione dell’ospedale di provincia più vicino, dove vengono praticati antidolorifici ed  effettuate le indagini clinico-diagnostiche del caso, che confermano i sospetti di rottura dell’aneurisma. Le viene spiegato che la cura consiste proprio in quell’intervento sconsigliato in precedenza, cioè ancora in condizioni controllate, che ora sarebbe assai più problematico e rischioso, ma in assenza del quale non vi sarebbe sopravvivenza. Margherita chiede che comunque si tenti di salvarla. E così, il piccolo ospedale di periferia, sprovvisto di competenza specifica, contatta il centro cittadino di riferimento, cui trasferire il caso. Ricorderò sempre l’espressione quasi colpevole, nonché dimessa, del chirurgo vascolare che mi si fa incontro alle ore 22.00 circa, nel corridoio della sala operatoria, dopo aver preso accordi telefonici per il trattamento del caso, che, guardando in terra e allargando le braccia, mi dice: “Che ci posso fare? Me la mandano!”. Così operiamo e Margherita, dopo una esanguino-trasfusione, cioè la sostituzione di tutto il suo sangue con emotrasfusioni, alle ore 06.00 del mattino è seduta sulla barella antistante la sala operatoria, quasi pronta per raggiungere il reparto di chirurgia vascolare, dove rimane per circa un mese (giusto il tempo di guarire da una brutta polmonite insorta successivamente!) per poi tornare alla sua casa in campagna, dove, sei mesi dopo, festeggeremo il suo compleanno!

Ma ricordo altri particolari di quella vicenda, direi quasi surreale e incredibile, se non l’avessi vissuta in prima persona, nell’intima, consapevole e inspiegabile solitudine che si prova durante una lunga notte di guardia, soprattutto nella completa clausura di un blocco operatorio e nonostante si sia circondati dal resto dell’equipe chirurgica. Uno è la faccia divertita del nipote medico che, guardandomi un po’ di traverso, da dietro gli occhiali e con un sorriso sarcastico, sembrava voler dire “Fammi un po’ vedere quel pazzo furioso e incosciente che ha avuto il coraggio di portarla in sala operatoria!”, che è poi esattamente ciò che avrei pensato io al suo posto! In realtà era piacevolmente sorpreso nel ritrovarsi vivo il caro estinto, perché pensava che non avremmo operato.
Il secondo è un articolo di quattro colonne all’interno di un quotidiano di rilievo nazionale, uscito alcuni mesi dopo la nostra vicenda, dedicato non a Margherita, bensì a un ottantacinquenne operato per un aneurisma dell’aorta addominale cresciuto di dimensioni, ma non rotto, trattato in un policlinico,
con tanto di fotografia a centro pagina, del vecchino, seduto nel letto della terapia intensiva che, ahimè, morì alcuni giorni dopo. Margherita ebbe unicamente una colonna sul giornalino del paese, grazie alla nipote fotografa.
E pensare che noi volevamo pubblicare il case report sulla rivista medica
“Criminal Surgery”

Zarianto

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una notte tranquilla

Posted by zarianto on dicembre 29, 2010
racconti / 1 Commento

E’ l’una di notte e ho appena messo in ordine i pazienti della terapia intensiva che probabilmente veleggeranno tranquilli fino a domattina, quando giungerà il mio cambio. Al momento, la loro presenza è scandita unicamente dal monitor che ne trasmette il battito cardiaco, fortunatamente ritmico e regolare – fossero tutti così… Il volume è basso e si diffonde poco oltre la penombra della sala degenza, dove, abbassate le luci, per consentire agli sventurati ospiti di conservare almeno una parvenza di ritmo sonno-veglia normale, qualche infermiere, vinto dal sonno, si assopisce, chi su una sedia a sdraio, chi reclinando il capo sulla scrivania. E resto solo! Solo, in cucina, alla luce fioca di una cappa, a sorseggiare placido un bicchier d’acqua naturale da frigo, che di più la mia salute con consente. Dinanzi a me, l’enorme vetrata che, dall’alto del colle su cui mi trovo, domina il borgo sottostante, appena abbozzato dai lampioni che disegnano viali deserti e geometrici. Una luna brillante si affaccia tra nubi rade a tratteggiare i contorni degli edifici, bui, in cui gli altri, giustamente, riposano. Alcune stelle biancheggiano – o rosseggiano – minuscole nel cosmo. Una quiete irreale e insolita avvolge il nosocomio. E io rimarrei qui, a farmi sorprendere da un’alba che mi apparirebbe in tutta la sua grazia. Ma non posso. Devo tentare di riposare, per essere fresco, lucido e forte, qualora dovessero chiamarmi a soccorrere un paziente vittima di trauma maggiore, di avvelenamento, di emorragia cerebrale, di arresto cardiaco, di insufficienza respiratoria… Così, svogliatamente mi sollevo da una sedia piuttosto scomoda, volgo le spalle all’infinito e mi dirigo verso il corridoio, unico ambiente illuminato a giorno. Non appena attraverso la porta della cucina, vedo irrompere nel reparto… il mio cambio in borghese, che a quest’ora, da disposizioni turnistiche, dovrebbe essere comodamente adagiato nelle lenzuola di casa sua! Non faccio a tempo a chiedergli cosa accada che d’improvviso… intuisco! E mi faccio prima serio e poi triste. Di ciò che mi racconta, capisco solo il nome della moglie, l’altro mio cambio del mattino, gravida di un bimbo tanto cercato! Ricordo come nei giorni scorsi si portasse spesso la mano sull’addome e lamentasse fitte. E ciò che tutti temevamo, e a cui nessuno voleva credere, si è avverato. Ora tocca rivedere il cavo uterino, cioè “raschiare” – come si dice – i resti dell’aborto spontaneo. L’ingrato compito di sedarla, è mio!
Mestamente e in silenzio, il mio cambio e io ci dirigiamo verso la scalinata che conduce alla camera operatoria della sala parto e la percorriamo, guardando, ma non vedendo, uno ad uno i gradini che da essa ci separano… Non una parola. Non oso sollevare lo sguardo.
In sala operatoria, lei mi attende, nuda e indifesa, assicurata al letto, in posizione ginecologica. Vorrei abbracciarla e proteggerla e anche il marito, persone al cui fianco lavoro già da qualche anno, che conosco da ancor più tempo e che frequento fuori di qui, nel mondo reale! Amici? Non so, forse. Se no, qualcosa di molto simile. Sono piuttosto imbarazzato, ma, sorridendomi, la mia amica mi scioglie subito.
Terminata la procedura, dolcemente si risveglia e, liberata dai lacci di contenimento, atti ad evitarne la caduta durante il coma anestesiologico, mi prende la mani per poggiarvici le labbra, in segno di ringraziamento! La consegno al marito e mi reco nella stanza del medico di guardia, dove l’alba, filtrando dalle fessure delle serrande semichiuse, mi coglierà supino, con le mani incrociate dietro la nuca e rigorosamente sveglio, poiché non sarò riuscito a fare altro che pensare al mio, cambio!

Zarianto

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