cronache

primanotte

Posted by Ania on Aprile 12, 2009
cronache / 3 Commenti

Sono le ventuno, avevo avvisato che sarei arrivata un po’ più tardi, tutina blu elettrico , zoccoletti azzurri e camice bianco , tutto stirato alla perfezione e tutto col profumo che solo le mamme sanno dare al bucato, eppure anche io uso gli stessi detersivi, ah si… ma questa è un’altra storia.
Metto sul taschino tre penne, tutte griffate con il nome dei farmaci, con i colleghi facciamo a gara a chi riesce ad averne di più, metto in tasca una calcolatrice, un prontuario un blocchetto per gli appunti e il fonendoscopio al collo, Littman naturamente, però in effetti messo così attorno al collo sa tanto di E.R. o di Grey’s Anatomy, magari poi sembro ridicola e un po’ convinta, ma si dai, mettiamolo in tasca, anche se poi mi si impiglierà ovunque, ora attacco il cartellino che dice “Dottoressa… medico tirocinante”.
Io medico?? Stamattina mi hanno chiamato e mi hanno confermato l’iscrizione all’ordine, mamma mia, ma se fino a qualche mese fa mi disperavo per l’esame di neurologia!
Mah che dire, ecco, sta pure arrivando un’ambulanza, va bene, la vestizione è finita, leghiamo i capelli e andiamo: ora non ho più scuse e poi ho sempre sognato di essere qui.
Arrivo al piano superiore di fronte alla saletta delle emergenze, ecco la mia tutor, non si è accorta che sono arrivata, tutti si affannano attorno al paziente, il medico del 118 che parla di infarto e tutti che si adoperano, aghi, aghetti, monitor, ossigeno, provette, mi infilo nella stanza e mi metto in un angolino da cui posso vedere tutto senza essere d’intralcio, ognuno fa qualcosa, l’uno perfettamente coordinato all’altro, come una danza provata mille volte, quasi a ritmo di musica, io mi stringo nel camice che sa di ammorbidente impaurita, quasi a trovare coraggio nel profumo che solo i panni lavati dalla mamma hanno. Sollevo lo sguardo sono passati già 15 minuti, che strano, ma siamo sicuri? Magari l’orologio corre troppo in fretta. Ora il paziente è stabile, l’infermiera avvisa i cardiologi, adesso bisogna portarlo al quarto piano. Ecco la tutor si è accorta di me, mi sorride e mi chiede se sto bene ” Sì sì – dico io – sono sempre cosi pallida”.
Non le dico che il cuore sta per saltarmi via dal petto, mi sorride ancora e mi dice: “Vieni lo portiamo su in cardiologia, prendi lo zainetto di emergenza e chiama l’ascensore. Sei pronta per la tua prima notte dottoressa ? ”

aspirante anestesista

un gelato per Chanta

Posted by Rachele on Aprile 04, 2009
cronache / 1 Commento

Un giorno come un altro, una famiglia di contadini come tante qui in Cambogia si sta recando al lavoro nei campi con il carretto trainato dai buoi, sopra ci sono un padre, una madre con una piccolina di 6 anni in braccio e altri 3 fratelli più grandicelli, davanti al carretto cammina la sorella più grande di 17 anni. La ruota del carro fa pressione su quella mina anticarro che chissà da quanto tempo era lì sotto, il boato è forte e improvviso, la sorella più grande si gira e nel tempo di un respiro ha perso metà della sua famiglia… il padre e tre fratelli muoiono sul colpo e la madre con la figlioletta più piccola sono scaraventate a terra… Vengono portate all’ambulatorio più vicino dove la bimba appare subito in condizioni molto gravi, respira male e si lamenta di dolori addominali… La caricano su un ambulanza e via verso l’ospedale che dista 3 ore di auto… E’ sera quando l’ambulanza che porta la piccola Chanta arriva al nostro pronto soccorso, la visitiamo, la studiamo con le radiografie del torace ma nulla è chiaro… siamo perplessi perchè le condizioni sembrano stabili anche se quel respiro e quel addome non ci convincono e poi è così piccola, ha 6 anni ma pesa solo 13 kg…

Decidiamo di farle una tac torace e addome: ha contusioni polmonari bilaterali e un immagine molto dubbia di sanguinamento sul fegato, le controlliamo l’emoglobina ogni ora… scende di 1 grammo e poi un altro… decidiamo di portarla in sala…

E’ sulla barella con un pupazzetto rosso tra le mani, una infermiera le chiede se ha mai mangiato un gelato… lei dice che non le piace poi ci pensa un po’ e ci dice che lo vorrebbe proprio tanto un gelato… l’infermiera la guarda e le sussurra: “te lo prometto Chanta, lo mangerai quel gelato…”

Nell’addome c’è sangue… ci guardiamo con il chirurgo e pensiamo la stessa cosa, Dio fa che non sia il fegato… e invece ha proprio una lesione epatica molto grave… lo staff della sala si mobilita… comincia l’ennesima battaglia per la vita al di qua e al di là dei teli verdi… noi anestesisti che speriamo che il chirurgo faccia il più in fretta possibile per arrestare l’emorragia e guardiamo i bottiglioni dell’aspiratore con angoscia… ci affanniamo a trovare le vene, a trasfondere, a ventilare la paziente, non ci sono ventilatori pediatrici… né infusori per bimbi così piccoli… L’emostasi riesce e il chirurgo chiude l’addome lasciando un packing di garze… ma le condizione respiratorie sono brutte… ci vuole più di un ora per estubare la bimba e non è brillante… passa la notte nella terapia intensiva ma la mattina successiva ha 50 di frequenza respiratoria, broncospasmo, un respiro superficiale, piena di secrezioni e poi comincia ad avere delle apnee… In queste condizioni – dico allo staff- non ce la farà, presto andrà in arresto respiratorio e non possiamo aiutarla, non abbiamo i ventilatori… non c’è modo… Gli infermieri mi guardano, la loro responsabile, che è anche l’infermiera più esperta dell’ospedale, mi dice che se la intubiamo, la ventilano loro a costo di stare lì 24 ore… Penso ma come fanno a non rendersi che non è possibile! Se non si danno per vinti loro allora va bene, ci proviamo… Ogni volta che va in apnea – spiego- la aspirate dal naso così lei si sveglia comincia a tossire, migliora la saturazione… ma dovete andare avanti così tutta la notte… ve la sentite? Mi rispondono che ci sarà un infermiere solo per la piccola Chanta per tentare di farla arrivare viva al mattino dopo quando la riopereremo per toglierle le garze…

Il mattino è arrivato, sono passate 48 ore. Ci serve sangue fresco per i fattori della coagulazione e le piastrine… non c’è problema, mi dicono, ci sono due donatori compatibili pronti a donare il mattino dell’intervento: una è la sorella e l’altro è il nostro amministratore… Ormai c’è tutto lo staff che fa il tifo per Chanta… Si va in sala… l’emostasi ha tenuto, il packing rimosso e ora la piccola deve respirare… Ce la teniamo 2 ore in sala, sulla barella… guardo l’infermiera che la assiste e che le dice con tenerezza: “su Chanta, respira piccolina, ricorda che devi mangiare il gelato…”.

Sono passati alcuni giorni, Chanta con quelle misteriose risorse che solo i bimbi hanno, ce l’ha fatta, tornerà a correre con gli altri 5 fratellini. Chiedo alla sorella più grande se è contenta… è stata al suo capezzale nei giorni più critici… Non sorride, non è felice, pensa al padre morto, l’unica fonte di sostentamento della sua numerosa famiglia non c’è più… mi dice che non sa ora come faranno a tirare avanti, non si possono sfamare 6 bambini solo raccogliendo legna, lei è la più grande e si sente responsabile per tutti, lei non sa neanche cosa è una scuola ma sa cosa è la fame e sa che dovrà tornare presto in quei campi maledetti che le hanno distrutto la famiglia, sperando di non finire su altra mina.

Rachele

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l’emergenza e il territorio

Posted by Sun-Tzu on Marzo 11, 2009
cronache / 5 Commenti

Ci sono posti che sono delle sacche di resistenza organizzata alla divulgazione della cultura medica.
Sono roccaforti inespugnabili di obbiettori di coscienza nei confronti del pensiero scientifico e della pratica clinica più elementare. Qui si nascondono anche pochi, isolati entusiasti cultori della emergenza extraospedaliera ortodossa. Sono una minoranza, probabilmente destinata all’estinzione. Travolti da uno tzunami di inoperosi affacendamenti più prossimi allo sciamanesimo che alla medicina moderna.
Capisco che sia necessaria una frequentazione, almeno occasionale, di un corso di medicina per sapere che Glasgow non è solo una ridente località della Scozia ma, che, quando associata a Coma Scale indica diversi livelli di stato di coscienza.
Mi rendo conto che vien difficile ricordarsela come la maestra ci ricordava i vari tratti delle Alpi. Mica c’è una filastrocca in rima per il coma.
Vien da se che ogni regione o paese ne elabora una con leggere modifiche. Così che ci possa essere l’Omegna Coma Scale e con pari dignità anche la variante di Cuggiono.
Per i linguisti più puri, poco inclini all’uso dei numeri, sono disponibili scale locali più descrittive in cui il coma può essere duro o grave, ma anche barzotto, utilizzando una terminologia con licenza da classificazioni più prosaiche.
Non volendo inopinatamente insistere su argomentazioni di carattere nozionistico affronterei con slancio la prima pruriginosa questione: L’intubazione oro-tracheale al di fuori dell’Ospedale per i pazienti in coma (indipendentemente dalla scala utilizzata) può comportare il malocchio persistente per l’operatore? Apparentemente si. Solo pochi sventurati hanno ricevuto questo privilegio. Da dati recenti sembra che gli operatori avessero Urano nel Leone. Una condizione estremamente favorevole.
Inoltre se allo stato di coma si associa quello di shoch emorragico è noto dal cofanetto deluxe della prima serie di E.R. che la questione si complica.
Era inoltre propedeutico alla formazione in emergenza ed urgenza sul territorio la visione di almeno uno (meglio due) epici film con John Wayne. Qui a fronte di un copioso sanguinamento da una ferita da taglio il posizionamento di una cintura stretta a monte della ferita stessa risultava di notevole aiuto. Il sorso di whyskey pare a tutt’oggi opzionale.
Sfortunatamente il nostro soccorittore aveva privilegiato Tom e Jerry per la sua formazione. Secondo questa diversa corrente di pensiero anche gli approcci più fatalisti spesso si risolvono con voluminosi ma benigni bernoccoli, uccellini che cinguettano e qualche stellina che ruota sul cranio.
Uno dei problemi della medicina moderna è, inoltre, la superspecializzazione. Una competenza universale per un particolare. Nel nostro caso il soccorritore era da generazioni un profondo conoscitore della storia e dello sviluppo del futon. Lo sventurato, è vero, non aveva una protezione delle vie aree, respirava a stento, sanguinava come un vitello sgozzato ed aveva una pressione arteriosa non pervenuta come la temperatura di Vladivostock. Ma era posizionato sulla sua tavola spinale che lo potevi fotografare. Un capolavoro di simmetria assiale. Ogni singola cinghia del ragno era tesa alla perfezione. Accordate come le corde di un pianoforte; se le sfioravi nella sequenza giusta ottenevi la sigla del Dottor Kildare.
Insistere sul razionale di tale scelta si è rivelato dirompente. Una critica all’estro del singolo. Una inopportuna limitazione della libertà del soccorritore cui venivano tarpate le ali della fantasia creativa costringendolo ad ammettere che no, lo sventurato non aveva subito traumi da precipitazione; no non era lecito chiedersi se l’asse spinale avesse una funzione. Era come chiedere a Dechamp se la ruota sullo sgabello avesse un fine pratico. Una domanda inopportuna e fastidiosa. Posta da chi certe raffinatezze non le può mica capire. Lo sventurato era lì, ora ed adesso, per volere dell’artista. E se proprio vuoi una ragione qesta è che lo sventurato sanguina. E se uno sanguina si mette sulla spinale. Pragmatismo dogmatico. Non si discute.
Andava capito subito che il tempo delle domande era finito. I frequentatori delle roccaforti del negazionismo scientifico sono persone di poche parole. Spesso anche scoordinate. Ma soprattutto poche.
Devono fuggire. All’interno degli Ospedali hanno pochi minuti di vita. Si teme che nano particelle di pensieroscientifico disciolto nell’aria associate alla pratica clinica elementare possano irrimediabilmente contagiarli. Sarebbe sufficiente ascoltare qualche stralcio di discorso tra operatori sanitari a vaporizzarli. Solo alcuni di loro, praticanti la mesmerizzazione trisettimanale, possono prolungare la permanenza. Sfortunatamente non era il caso del nostro. La sfrontatezza con cui si soleva proprio capire quale meccanimo avesse prodotto una tale lesione era insopportabile. Dopo che lui aveva con solerzia e precisione consentito che il male presente nelle vene e nelle arterie dello sventurato fluisse libero sul pavimento liberandolo e purificandolo, che altro ancora si poteva volere da lui. Piccinerie di noi menti semplici. Condannati a sapere se dover redigere una comunicazione alla Procura della Repubblica oppure no.
E’ noto, infine, che gli appartenenti a queste congregazioni di negazionisti della medicina tradizionale sottoposti a stressanti interrogatori inerenti il loro operato divengono violenti. Unendo così la peculiare caratteristica di un eloquio colorito, seppur difficilmente comprensibile, ad atteggiamenti aggressivi.
Si profila così un quadro completo composto da una popolazione piuttosto omogenea e diffusa sul territorio nazionale di individui legittimati a scegliere per la salute di alcuni sventurati in accordo a leggi non governate dal pensiero scientifico ma dall’estro o dal caso, accompagnate dalla presunzione e dalla supponenza di chi sa. Data la precisa localizzazioni geografica di tali congregazioni taluni auspicano, come per i dinosauri, l’avvento prodigioso degli asteroidi.

Sun-Tzu

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candle in the wind

Posted by OSS on Marzo 02, 2009
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Inizio il turno del pomeriggio… sembra tranquillo oggi. Poche consegne, solite cose: il fibroscopio da ritirare, un trasferimento, una tac e due probabili ricoveri, ma ancora non si sa nulla, devono chiamare dalla sala. Bene, allora subito caffè e poi si aprono le danze.
Ma come, abbiamo aperto 13° letto? Non l’avevo visto… Mi avvicino: noooooo, ma non l’evamo dimessa ieri? E’ di nuovo qui? Ma se era uscita dal reparto leggendo il giornale? Boh…
Oggi il caffè è particolarmente buono… ma si porta dietro il solito richiamo: “C’è un oss? Corri!”. Mollo tutto, caffè e compagnia, esco dalla tisaneria e cerco di capire da dove arriva la voce… letto 13 (l’ospite in più), prona e 5 infermieri intorno.
Che c’è? Chiama un medico, è in arresto.
COSAAAAAA?
Tutti intorno, dobbiamo supinarla e iniziare il massaggio…
Porta il defibrillatore… carica… via tutti… scarica! Ancora e ancora… Dammi un filtro nuovo, questo è pieno di sangue… aspira… adrenalina… presto…
Sono passate quasi due ore e siamo ancora lì: il primario, la caposala, due rianimatori, tre infermieri ed io…
Sembrava un film. Proprio E.R, non quelle stupide fiction italiane sugli ospedali, no no. Ma purtroppo era tutto vero.
Quella signora che ieri mi ha salutato col sorriso ci stava lasciando. Ogni sforzo sembrava inutile… Eravamo tutti impotenti di fronte a tutto ciò che succedeva.
Fuori, nel corridoio, le figlie in lacrime. Sentivamo le urla della disperazione.
La caposala corre fuori, prova a consolarle, ma tutto è difficile, il momento e la lingua. Già, la lingua… le ragazze parlavano un italiano stentato e la caposala non parla il rumeno. In questi momenti le parole non sono tutto, ma aiutano…
Intanto dentro il delirio. Consumati dalla fatica ci arrendiamo all’evidenza. Ora del decesso 17.45.
Ci guardiamo demoralizzati, delusi, tristi e sfiancati…
Dov’è l’oss?
Sono qui capa. Dimmi…
Non c’è tempo da perdere, bisogna sistemare la signora subito, le figlie vogliono entrare…
Ti prego capa, un attimo di respiro, non ce la facciamo più!
Nessun respiro, muovetevi, subito… E poi manca una cosa fondamentale.
Cosa?
Come, cosa? Lo sai che loro vengono dalla Romania?
Certo che lo so, quindi?
Quindi sono ortodossi…
E allora?
Basta con le domande! Corri a prendere una candela, accendila e mettila ai piedi del letto.
Come scusa? Cosa devo prendere? Una candela? E dove la trovo?
Non mi interessa dove. Vai a rubarla in Chiesa!
Non ci posso credere. Dopo tutto quello che è successo anche questa! Per un attimo ho avuto la visione: io, incappucciata, al settimo piano che mi infilo con passo furtivo nella cappella dell’ospedale, rubo una candela e scappo. Poi torno in me, chiamo il sacerdote al telefono e gli chiedo gentilmente di portarne giù una.

Gli ortodossi, decisamente, hanno ragione. La candela è un simbolo che descrive esattamente quella che è la nostra vita: accesa dalla fiamma della passione, dona luce e calore, ma è sufficiente un alito di vento…

OSS

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viaggi quotidiani: mezzogiorno in Tunisia

Posted by Trilly on Febbraio 19, 2009
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L’autunno si era ormai annunciato da qualche settimana con i suoi colori particolari: foglie gialle sugli alberi, il primo freddo e giorni di pioggia accompagnati ormai quotidianamente da temporali quasi equatoriali.
Pioveva a dirotto quel giorno.
Papà Nasser mi aveva chiesto una visita domiciliare per sua figlia Hergere che vomitava da un giorno ed aveva febbre alta.
– A che ora viene dottoressa?-
– Quando ho tempo, comunque prima di sera – gli risposi frettolosamente e forse non molto educatamente.
Alle 12,30 comunque ero a casa sua.
Un odore intenso, di spezie africane inondava la casa, il vapore del cibo che bolliva nella pentola aveva appannato tutti i vetri.
Mi tolsi il cappotto.
Il tepore della cucina mi accolse insieme al sorriso aperto e riconoscente di Nasser.
La bambina era sdraiata sul divano: il viso pallido, un po’ sofferente.
La tazza del tè appoggiata sul tavolo, lì vicino.
-Dato da bere a piccoli sorsi, come hai suggerito – mi assicurò la mamma.
Visitai la bambina, mi sorrideva, giocava con i giochi che le avevo messo tra le mani.
Assicurai i genitori: era soltanto una gastroenterite virale. Un giorno di dieta liquida e leggera, una soluzione di sali minerali e la nostra Hergere sarebbe stata decisamente meglio.
Stavo per rimettermi il cappotto quando Nasser mi invitò a sedermi a tavola.
Aveva cucinato il Kus Kus per me.
– Una volta mi hai detto che ti piace tanto.
– Alle 13 devo essere in ambulatorio – mormorai imbarazzata, cercando di rifiutare l’invito.
– Non ci vorrà molto, sono le 12.40 e c’è tempo.
Accettai con un sorriso.
Mi fece accomodare sul tavolo in cucina.
La moglie aveva apparecchiato con cura solo per me.
– E voi? –
– Noi mangiamo dopo, ora facciamo compagnia a te – mi dissero sedendosi al tavolo con me.
Era veramente squisito e francamente quel Kus Kus stava ristorando non solo il mio corpo, ma soprattutto il mio cuore.
Al termine del pranzo mi offrirono un’arancia sbucciata a forma di fiore.
Completai il pranzo e poi li salutai commossa.
Tutto velocemente, in venti minuti, ma quanto bastava.
La primavera era ritornata a rifiorire dentro di me, anche se fuori continuava a diluviare.

Riflessione: Per tutti i momenti in cui mi sento orfana nella mia giornata, per tutti gli sputi invisibili di molti, la riconoscenza e la semplicità di Nasser e di sua moglie è qualcosa che nessuna somma in denaro potrebbe mai uguagliare.

Trilly

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come dire

Posted by Herbert Asch on Gennaio 22, 2009
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Sarà stato un anno fa più o meno, iniziavo il turno, niente in consegna, un giorno d’inverno qualunque.
Poi il triage del Pronto telefona che arriverà un intubato con l’eli, hanno avvertito.
Scendo a vedere.
Il Pronto, al solito, sembra traboccare, ma qualche buco c’è ancora, liberiamo una postazione, preparo il respiratore, mi accordo con l’infermiere per i farmaci da preparare, solite cose che fai per colmare l’attesa, tenendo a bada il sottile filo d’ansia che ti mette il preallarme: in fondo non sai mai cosa arriva, può essere un paziente normale, anche se grave, ma puoi trovarti anche improvvisamente nella melma più fonda per un’intubazione difficile, un paziente instabile, una diagnosi insidiosa o impossibile.
Tutto quel che hanno detto dal 118 è che arriva un trauma da un grosso incidente.
Ci mettono forse un pochino più di quel che ci aspettiamo, ma alla fine distingui le divise rosse con l’imbrago giallo. Sono loro.
Il mar rosso dei pazienti in attesa si apre, arriva l’infermiere che comprime l’ambu, il collega con in mano la scheda che sta finendo di scrivere.
È una donna giovane tutta confezionata a puntino, sulla tavola spinale con la metallina dorata e le cinghie che la fasciano, monitorizzata, intubata, sedata, ventilata.
Il collega che l’accompagna mi riconosce e mi saluta, anch’io facevo parte del circo qualche anno fa.
Mi lascia le consegne: grosso incidente, scontro tra auto e furgone, più altri veicoli coinvolti.
Sul furgone viaggiavano due donne e un bambino dietro.
Gli autisti, feriti, smistati negli ospedali vicini, lei da noi che avevamo dato un posto di Ria. Degli altri non sapeva, erano intervenute anche altre ambulanze
La paziente al loro arrivo era sbalzata nel prato a qualche metro dal furgone, non rispondeva, ma non sembrava avere grossi traumi evidenti. Vista la dinamica e per sicurezza nel trasporto l’ha confezionata come da protocollo e via andare.
Mi dice anche che vicino a lei, nel prato, c’era un bambino 4-6 anni, morto, che viaggiava con lei.
Mi dà i documenti che aveva addosso: nome arabo, nazionalità marocchina, una foto presa col velo.
Veloce programma per la paziente, che tutto subito non mi sembra così critica, i parametri sono buoni, non ci sono evidenze di grossi traumi. Facciamo partire gli esami, un gruppo e prove crociate per ogni evenienza. La porteremo a fare la tac, poi in Ria, su ho posto.
La tac mi tranquillizza abbastanza, per fortuna non ha grosse lesioni, ma decidiamo di svegliarla lentamente e la teniamo lo stesso in Ria monitorizzando l’evoluzione.
Mezz’oretta dopo arrivano i risultati degli esami, e mi telefona il collega del Centro Trasfusionale: c’è qualcosa che non quadra, il gruppo sanguigno dei prelievi fatti su di lei non coincide con quello che risulta per quel nome e data di nascita all’AVIS, tempo fa aveva fatto un piccolo intervento, avevano però fatto il gruppo e la tipizzazione era diversa.
Guardiamo meglio la foto, comparandola al viso ma come riconoscere un volto, per di più con la foto presa col velo…?
Intanto segnalo al poliziotto di guardia che forse il nome non quadra, anche loro mi confermano il sospetto che i documenti appartenessero ad un’altra persona, anche lei coinvolta.

Due ore dopo suonano alla porta, un magrebino piccino, dimesso, la camicia abbottonata senza cravatta, una giacca modesta.
Gli chiedo chi è, chi cerca, ma già sospetto.
-Mia moglie è qui? Mi hanno detto che l’anno portata qui, ha avuto un incidente-
L’italiano è incerto, parlo lentamente cercando di capire se riesce a comprendere.
Gli spiego che c’è una signora, ma non siamo proprio sicuri di chi sia, non dovrebbe avere grosse cose, abbiamo fatto degli esami, però è meglio per sorvegliarla, aspettiamo che si svegli. Lui dice se può vederla che può riconoscerla.

Lo faccio passare, poi si volta e mi fa la domanda che non volevo sentire:
-e mio figlio? …Anche lui è qui?-

Nicchio che non so, che hanno portato solo lei, ma lui è ancora più inquieto
– allora dov’è, dove l’hanno portato?!-
Dico che mi sarei informato, che intanto se voleva vedere la signora…
Lui va avanti, io passo al bancone, telefono in centrale 118 per sapere il bambino dove l’han portato.
Mi dicono che è nelle camere mortuarie dell’ospedale vicino al luogo dell’incidente, a una cinquantina di chilometri da noi.

Intanto il nostro ha riconosciuto la moglie, e ci spiega i documenti erano dell’altra donna coinvolta nell’incidente.
Lo rassicuriamo che tra poco pensiamo di svegliarla, la teniamo lì per sicurezza, per sorvegliarla meglio.
-e mio figlio?-
-mi hanno detto che lo hanno portato all’ospedale vicino al posto dove hanno avuto l’incidente-
Intanto telefono al centro Trasfusionale, adesso che ho i dati giusti e al poliziotto.
Lui si avvia verso la porta, dove lo aspetta un altro parente o un amico.

Poi mi richiamano.
Vado alla porta
-ma mio figlio come sta?-
-non so, non mi hanno detto, forse è meglio che chieda laggiù-
Non me la sento di essere io a dare la notizia, non voglio essere io accidenti!
Parlano ancora tra loro.
– L’ospedale è distante e adesso non abbiamo la macchina: ci sono autobus per arrivare là?-
-Non saprei, credo sia lunga… – non so cosa dire e capisco il dramma che sta vivendo questo poveretto. Non voglio neanche che, nell’incertezza delle condizioni si precipiti magari su un taxi, nella nebbia, per una situazione che, ormai non ha più nessuna urgenza. -Vuole che proviamo di nuovo a telefonare?-
-lei può?-
-venga dentro. Proviamo- Tiro in lungo, ma non so cosa fare.
Telefono al Pronto Soccorso dell’altro ospedale, mi informo sui feriti, e se ci sia effettivamente anche un bambino di sei anni morto.
Mi confermano..
L’omino è di fronte a me, e scruta il mio volto in attesa di notizie.
Ovviamente della telefonata non ha capito un accidente, sono stato volutamente scarno di parole.
Metto giù.
Gli sguardi si incrociano.
Lui parte per primo, ma ha cominciato a capire:
-Ma… è morto?-
Stringo la bocca con una smorfia e accenno appena con la testa.
Adesso ha capito anche lui, senza errore.
Ed io preferirei essere, di gran lunga, improvvisamente nella melma più fonda per un’intubazione difficile, un paziente instabile, una diagnosi insidiosa o impossibile ecc. ecc. ecc.

Herbert Asch

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Biancaneve

Posted by Giro Batol on Gennaio 10, 2009
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31/12/2008, h 20.00: ho ancora negli occhi mio figlio che stamattina sciava con me, ma ho già addosso la casacca azzurra un po’ stinta e l’immancabile fonendoscopio portafortuna al collo, un Littmann cardiologico da sballo: qualche piccolo vezzo bisogna anche concederselo!
Neanche il tempo dei saluti e “Pronti,via!”: paziente in edema polmonare acuto in cardiologia. Situazione seria: ottantenne, agitato, ipossico, al saturimetro 72% e ovviamente nessun posto libero nelle terapie intensive; e allora via, in Sala Emergenza di Pronto Soccorso. All’arrivo le ormai solite schermaglie di battute con medici, infermieri ed OSS, più amici che colleghi, quasi ad esorcizzare l’implacabile ripetersi di scene che ci augureremmo sempre irripetibili. Ma questa volta le cose vanno bene, per le 23.30 il paziente si è ripreso ed è stabile: intorno a lui in compenso il Pronto Soccorso freme del solito caos per nulla calmo:
“Non respiro, mi manca l’aria, toglietemi questa maschera vi dico!”
“Aiutatemi, ho dolore al torace.”
“La faccia, la faccia, mi è andato l’olio bollente in faccia!”.
Riesco a salire in Rianimazione in tempo per gli Auguri ed un accenno di brindisi: siamo nel 2009, chissà che cosa ha in serbo per noi:
Driinn, Driinn!!!!, 2240 la MedUrg, accidenti. “Ehi, scherzavo, non avevo alcuna fretta di scoprirlo, sono solo le 00.15! Ma forse è solo per gli auguri”, pensa tra sè e sè quell’inguaribile ottimista che mi porto dentro.
” Un anestesista urgente, paziente in arresto, stanza C, letto 10″.
“Alla faccia degli auguri, però precisi quelli della MedUrg, gli unici che quando ti chiamano ti dicono dove andare e non giocano a nascondino: stanza C, letto 10.”
Arrivo nel corridoio del reparto ed individuo da lontano la stanza C: accanto ad una porta infatti vi sono una giovane donna, di circa 30 anni ed il suo fidanzato, come poi mi verrà presentato. Lei piange, singhiozza, urla “E’ morta, la mamma è morta”! Lui freddo, “Dai, chiama tuo padre!”
Entro nella stanza in cui sono già febbrilmente in corso le manovre rianimatorie, massaggio cardiaco, ventilazione con AMBU, monitoraggio ECG, Carrello Emergenza dispiegato in tutta la sua operatività. Saluto, dò una sommaria occhiata alla paziente che a prima vista appare molto anziana e segnata da parecchie malattie e vado alla sua testa per la gestione delle vie aeree: quante volte quella stessa scena, quante volte quelle stesse facce e quelle stesse espressioni!
Chi guarda il monitor corrucciato come cercando di carpire il segreto di quell’arresto, la sua causa e magari la sua terapia; chi ha le gote rosse, la fronte imperlata di sudore ed il fiato sempre più grosso causato dallo sforzo del massaggio; chi si muove freneticamente intorno al carrello per prendervi l’occorrente con movimenti talmente automatici da sembrare quasi marionettistici: “larincoscopio, tubo numero sette, siringa per cuffiare, fonendoscopio, cerotto, adrenalina 1 fiala ogni tre minuti” e così via.
Anche la signora del letto 11, la sua compagna di stanza, ha assunto quella che ormai ho capito essere la modalità di risposta classica a quella situazione: è girata su un fianco, verso la finestra, apparentemente come se dormisse e come se gli eventi che si stanno svolgendo a poco più di un metro da lei altro non fossero che un fastidioso temporale estivo che presto si risolverà permettendole di riprendere il meritato riposo.
Le prime volte che ho notato questi comportamenti mi sembrava impossibile che le persone potessero assumerli.
“Ma come, dicevo tra me e me, una persona con la quale parlavi fino a mezz’ora fa sta morendo, e tu ti giri dall’altra parte? Non dico di venire ad aiutarci, non dico di stare lì ad incoraggiare gli sforzi rianimatori almeno con lo sguardo, ma addirittura far finta che non stia accadendo nulla mi sembra eccessivo!”
Eppure passando gli anni, rispondendo agli immancabili Driinn!, aprendo porte e porte su rianimazioni in corso, ho osservato che è proprio questo il comportamento della maggior parte dei “compagni di sventura”.
Penso che sia spiegabile con la paura di ciò che più temiamo, la morte, vissuta per giunta proprio in un momento di maggior fragilità come può essere quello di un ricovero. In questi momenti torniamo fragili come bambini e, come i bambini pensano di nascondersi portando le mani davanti agli occhi, noi ci nascondiamo alla morte girandoci dall’altra parte e pensando che la campana non stia suonando per noi.
Ma torniamo alla mia signora della stanza C: dopo quaranta minuti di manovre rianimatorie inutili constatiamo il decesso: la mia collega ed io ci guardiamo in faccia e sappiamo entrambi che adesso stiamo per affrontare il momento che ognuno di noi detesta più di ogni altro, la comunicazione del lutto. Portiamo con fatica la figlia della signora ed il suo fidanzato in uno studio tranquillo, li facciamo sedere e gli comunichiamo la morte della signora. Inaspettatamente la figlia pur tra lacrime e sussulti si rasserena ed assume un contegno da moderna principessa (Biancaneve, penso guardando fuori). Si assicura che la madre non abbia sofferto e dopo essere stata confortata su ciò, ci dice di come ormai si fosse resa conto che le sofferenze legate alle malattie fossero divenute per lei insopportabili. Ci dice che i suoi genitori sono separati e che il padre ha rifiutato il suo invito a giungere in Ospedale asserendo di essere troppo stanco: in fin dei conti è stata pur sempre la notte del Veglione di Capodanno, le ha consigliato di andare anche lei a riposare che poi se ne sarebbe riparlato l’indomani mattina. Mentre ci racconta tutto ciò è proprio triste la nostra Principessa Biancaneve, quasi più che per la morte della madre. Cerca conforto nel suo fidanzato, il suo Principe Azzurro, il quale non trova di meglio che consolarla così: “Faresti meglio a dire a tuo padre di alzare il culo dal suo letto”.
Driinn! E’ il Ponto Soccorso: “serve un anestesista per una cardioversione
Urgente”.
“Povera principessa Biancaneve, penso mentre mi allontano dal reparto, se è questo il principe azzurro che ti ha trovata…”
E intanto la neve fiocca copiosa.

Giro Batol

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via da qui

Posted by joyce on Novembre 16, 2008
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Emanuele oggi esce dall’ospedale… dopo mesi passati tra un reparto e l’altro.
Ho incontrato la madre sulle scale mentre usciva, una giornata memorabile per lei il figlio finalmente lascia questo luogo anonimo e torna a dormire nel suo letto di quando era bambino, torna alla realtà.
una grossa vittoria per lei che in barba a notizie sempre più scoraggianti continuava a vedere il figlio come se da un momento all’atro dovesse alzarsi da quel letto in cui era legato a doppia mandata con tubi, cavi, drenaggi. Mi è sembrata più piccola come se un po’ alla volta si fosse consumata ad aspettare dietro le porte l’orario di visita, ad origliare ogni più piccolo gemito del figlio, a controllare l’integrità di una figura che un po’ alla volta si è trasformata davanti ai suoi occhi, i ineamenti alterati da gonfiori, la voce che per giorni non esce fino al vederlo scrivere con la mano sinistra per una paresi ormai quasi irreversibile.
Eppure sempre lì, ogni giorno, tranquilla, con lo sguardo perso intenta a pensare ai nipotini che avrebbe stretto tra le braccia o a quale pietanze mettere in tavola per la cena di Natale.
Incredula l’ho guardata per mesi accanto al letto del figlio, non capendo questa farsa della vita normale che tanto continuava a propugnare.
Come non accorgersi delle trasformazione in atto come non vedere tutto quel che accadeva attorno al letto del figlio come ignorare le assenze che ogni tanto lo colpiscono come non capire che già solo tornare ad una stazione eretta per Emanuele è quasi un miraggio come ignorare che dopo tanta sofferenza il tumore del figlio continua ad essere lì, racchiuso nella sua testa, fortezza inespugnabile, punto irraggiungibile.
Sembrava quasi di parlare con un automa quasi convinta che il figlio fosse lì per una gita istruttiva o per un suo capriccio e non per un reale problema, come se fosse uno scherzo.
L’ho vista invidiare le dimissioni dei vicini, l’ho vista guardarci con rancore come se fossimo responsabili dell’assenza del figlio da casa sua, dai suoi luoghi, dalla sua vita.
L’ho vista diventare più aggressiva, più rigida e tronfia come una matrona quando lui da solo è uscito dal suo letto per cambiare reparto.
Per i mesi successivi lo intravista trafelata, sulle scale tra un piano e l’altro a rincorrere le diverse degenze del figlio, oggi sulle scale mi ha fermata.Mi ha gridato la sua vittoria e poi tradita dalla stanchezza è scoppiata a piangere.

Quasi senza parole l’ho abbracciata e con voce calma le ho ricordato tutti i progetti che aveva in serbo per il figlio e che durante i colloqui continuava ad enumerare, mi ha guardato stupita e poi come se nulla fosse è riapparso il sorriso beffardo e la vita normale è ricominciata.

joyce

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la visita

Posted by il guardiano on Ottobre 13, 2008
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Il ragazzino diede l’ultimo tocco di colore sulle foglie in primo piano, poi si scostò dal quadro e lo guardò da lontano, come gli aveva insegnato a fare suo nonno. E’ finito, pensò, e decise di sottoporlo al giudizio del maestro. Sapeva che avrebbe dovuto aggiungere ancora qualcosa. Una luce, un’ombra. Del bianco (ma non del nero: il nero non esiste, nemmeno la notte è nera). Il più era comunque fatto, da domani avrebbe potuto dedicarsi al suo progetto.Il nonno guardò con i suoi occhi acuti e severi. Si fece passare i pastelli e indicò i punti da correggere. Ora andava bene. La mamma sarebbe stata contenta di quei papaveri da appendere sul suo letto. Molto meglio di quel crocifisso che si era impuntato di fare durante tutta la settimana, e che era rimasto solo abbozzato sul cavalletto dello studio (il “suo” progetto). Tutti la pensavano così. Tranne lui, il ragazzino, che vedeva invece nel crocifisso un compagno fedele della malattia. Un’immagine concreta di quel dolore. Il crocifisso sarebbe stato lì a succhiare quel male che stava uccidendo la mamma. Molto di più di quel mazzo di papaveri rossi. Ma era inutile spiegarlo. Il crocifisso non sembrava adatto, e alla fine, non sapeva bene chi doveva fare contento con quel quadro.

Cercò di iniziare il discorso con suo padre mentre andava all’ospedale. Partì dall’idea di diventare pittore, e finalmente dipingere tutto ciò che voleva (compresi i crocifissi), ma subito il discorso si spostò sulla sua vocazione alla medicina. Vero anche quello. Aveva proprio detto così al medico che gli aveva parlato qualche giorno prima. Forse ci credeva anche, ma fondamentalmente gli era sembrato importante per quel dottore là, non per lui. D’altra parte quando vedeva Miriam fuori da scuola che lo guardava con quegli occhi vellutati e indifesi, sognava di diventare un soldato, per poterla salvare dalla terza guerra mondiale. Nel frattempo non avrebbe mai rinunciato ad un giro intorno al mondo, ad una caccia a tesori dimenticati, ad un viaggio nello spazio. Impossibile decidere lì in macchina, in poco meno di un’ora.
Per entrare in ospedale bisognava mentire sulla sua età, ovviamente, altrimenti la guardia dell’ingresso non lo avrebbe mai fatto passare. Poi una volta dentro era più facile. C’era di nuovo quel dottore dell’altra volta. Gli disse che la situazione non era cambiata molto, e che la mamma era sempre nello stesso letto. Il ragazzino entrò, appoggiò il quadro con i papaveri sul lenzuolo, e vide che quella macchia rossa sul verde del letto sembrava aver ritrovato una sua naturale collocazione. Si rincuorò un po’. La mamma dormiva, non le disse niente, e decise di recitare sottovoce una preghiera. Poi uscì, lasciando dentro solo suo padre.

Tornando a casa pensò molto al crocifisso che aveva deciso di dipingere. Pensò che lo avrebbe finito e lo avrebbe fatto vedere a Miriam, forse lei avrebbe capito.

il guardiano

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qualcuno di più importante

Posted by il guardiano on Settembre 27, 2008
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Questa notte ho ricevuto una telefonata. Era una donna e chiedeva informazioni su di un uomo che era ricoverato da un po’. Le ho risposto che non era possibile avere informazioni per telefono, lei ha insistito. Ma lo ha fatto in un modo… C’era una sorta di disperazione nella sua voce, una sorta di supplica nella sua richiesta. E io ho avuto la sensazione che quella donna fosse l’amante dell’uomo. Non solo una sua amica o una conoscente, proprio l’amante. L’uomo era sposato, e nessuno al di fuori dei famigliari poteva ricevere direttamente da noi sue notizie, e io in quella voce ho sentito questo: la disperazione dell’amante che non può sapere niente, che non ha nessun diritto. Ci ho pensato tutta la notte. Cioè ho pensato a questa donna e al suo uomo che si salutano, e che si danno un appuntamento da lì a qualche giorno. Loro non possono comunicare in nessun modo (niente messaggi, niente email, niente telefonate) perché lui (e forse anche lei) è sposato, insomma si danno quegli appuntamenti da romanzo dell’ottocento. All’angolo di una piazza, davanti ad un locale, di fronte ad un monumento, in un parco; ad una certa ora in un certo giorno, magari il martedì alle quattro, tutti i martedì alle quattro, e se salta un martedì, ci si incontrerà il martedì successivo, senza possibilità di appello. Uno è lì e aspetta. Aspetta che lei o lui arrivi, e solo l’amore ti tiene in piedi, ti sostiene qualsiasi cosa capiti. E quella volta capita che lui non arriva. E il martedì dopo non arriva di nuovo. E anche quello successivo. Così lei tutte le volte torna a casa o va al lavoro – vorrebbe scappare, morire, ma non può farlo, perché nessuno sa della sua storia, segreta, clandestina, travolgente, quindi non può parlarne con nessuno. Torna a casa o al lavoro perché anche se il mondo le è crollato dentro, nessuno se ne deve accorgere, nessuno sa che sotto i suoi vestiti si apre un baratro più buio e profondo della morte stessa. E dall’altra parte niente. Niente messaggi, niente email, niente telefonate. Lui non si è presentato all’appuntamento e lei non sa perché. Sa solo di essere rimasta sola. Poi in qualche modo questa donna scopre che il suo amante ha avuto un incidente, che è ricoverato nella rianimazione di un certo ospedale, per cui si arma di santo coraggio e telefona.
Di cosa avrebbe avuto bisogno questa donna per placare almeno un po’ quell’angoscia e quel terrore che soffocava il suo cuore? Quante parole, quante spiegazioni sarebbero state necessarie da parte mia? Quante volte noi dobbiamo ripetere le stesse cose ai famigliari di un paziente? Quante volte dobbiamo ribadire concetti, spiegare parole, ipotizzare prognosi, confermare diagnosi. Tutti i giorni, più volte al giorno, magari sempre alla stessa persona. Quante volte. E invece a quella donna non ho detto una parola. E quando dall’altra parte ho sentito che la voce le si strozzava in gola, ho concesso il più arido dei comunicati stampa.
Ma che stronzo.

il guardiano

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