cronache

i mostri

Posted by alti on Giugno 01, 2011
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Sono le 3,33 della mia terza notte di guardia…
sarà un segno del destino? Il tempo sembra essersi arenato ormai da giorni, ore, mesi, gli occhi faticano a restare aperti, l’encefalo bisticcia con quel poco di lucidità che mi rimane, insomma, non è che quando faccio il turno di giorno la situazione sia poi tanto migliore, l’encefalo è poi pur sempre quello; comunque è proprio alle 3 e 33 di questa notte di guardia, attaccato a questo computer, che mi chiedo che cosa abbia da guardare quell’individuo dallo sguardo torvo che sembra quasi prendere nota di ogni mio più impercettibile movimento.
Il tempo sembra non passare mai ma questa notte di tempo per distrarsi ne rimane poco, in circa 10 minuti netti, allo scopo di battere ogni record nella digitazione di vocaboli composti, ho registrato:
2 coliche renali (evidentemente le 3,33 è l’ora della colica), 1 otorrea, 1 peritonite, 1 BAV di 3°, che in 10 minuti non è proprio male. Il tempo stimato di attesa attualmente è di circa 4 h e 30 e spero che chiunque abbia mai avuto a che fare con un pronto soccorso riesca ad immaginare quale possa essere il buon umore che accompagna ogni persona in attesa e che sembra aver in questo momento adottato l’infermiere di triage quale punch ball…
Sarà che è la vigilia di natale, sarà che sono le 3,33, sarà che c’è l’influenza circolante e che non sarà suina ma porca maiala quanta ce n’è, sarà che la gente arriva per ogni cazzata ma soprattutto sarà che quello li non la smette di fissarmi un momento, ma io mi infilerei volentieri sotto il mio piumone abbracciato al mio cane e soprattutto sarà pur vero che di notti di guardia su ‘ste divise ne passano tante, ma se ci ricordassimo di lavarle, forse, puzzerebbero anche un po’ di meno… ehi non è che quello mi guarda per la puzza che emana la mia divisa? Eppure l’ho cambiata questa sera.
Ma… lo sapete… l’avevo già detto… forse pure un po’ troppe volte… ma le macchie sulle divise compaiono a iosa, a macchia di leopardo, una ogni centimetro o anche meno ed ogni volta raccontano pur sempre qualcosa. Quella che vi racconto questa sera è la macchia che parla di uno studente infermiere durante un tirocinio presso il SERT.. me lo ricordo ancora, era obbligatorio farne almeno uno o nel meraviglioso ambiente delle tossicodipendenze, o nell’area materno-infantile, a me non piacevano né i bambini malati, ne i tossici sani, però, essendo obbligatorio… Intanto sia chiaro, qui lo scrivo, qui lo denuncio e lo metto nero su bianco, se quello li continua a guardarmi tra qualche minuto mi metto a fissarlo… comunque la macchia questa volta non comparve proprio sulla divisa, piuttosto sulla pelle, nell’anima, nel profondo. Era il primo giorno e sto SERT lo dovevo ancora trovare e voi avete mai provato a cercare un SERT? Passa quasi del tutto inosservato, viene reso il più anonimo possibile, se si potesse lo vestirebbero da albero nel mezzo di un viale alberato o da foglia nel bel cuore dell’autunno; comunque arrivo al luogo indicato con largo anticipo, giro un po’, rigiro un po’, ri-ri giro un po’ e poi sarà che non ho proprio l’aria del bravo ragazzo (in genere se c’è una macchina dei carabinieri mi punta il faro addosso da Km di distanza) sarà che avevo l’occhio un po’ pesto per l’emozione che comunque, ogni nuova esperienza comporta, ma sto SERT non lo trovavo… Così, mi decido ad entrare dentro i locali dell’ASL nell’intento di trovare la mia meta…. (Ma ditemi voi se intanto devo essere continuamente spiato da quell’individuo… sarà un ritrattista..) mi aggiro con indifferenza verso la bollatrice ed affianco una bella ragazza bionda, truccata a sufficienza, occhio azzurro, scarpa con tacco, gonnellina della giusta misura e mi permetto di pronunciare le prime due parole della giornata (purtroppo sono un po’ come le macchine diesel, devo scaldare le candelette e le prime parole riescono sempre come l’emissione di un suono gutturale): “Scusi, il SERT?” 3 decimi di secondo e viene immediatamente compiuto il passo indietro, vengo scannerizzato dalle scarpe ai capelli, ed immediatamente vengo invitato ad accomodarmi verso l’uscita, mi permetto di dire due mah e tre boh ma il tempo di pronunciarli e mi ritrovo fuori, ed invitato o più che altro spinto di forza, verso un corridoio esterno della larghezza massima di 1 metro per percorrere il quale è necessario fare lo slalom tra le cacche di piccione che volano dai cornicioni e camminando con passo laterale (ripensandoci sembra di assistere ad una lezione di aerobica, un po’ come quella cui farò assistere al signore che continua a spiarmi di sottecchi se non la finisce) insomma, dopo le peripezie necessarie arrivo all’ingresso e vengo accolto dentro ai locali del SERT e ovviamente qualificandomi immediatamente come studente infermiere prima di ritrovarmi già con un flacone di metadone in mano…
Beh pensavo di trovarmi chissà quale popolazione di mostri inorriditi dalla dipendenza, il cui sport preferito consisteva nel grattare la guancia dalla incolta barba o rubare il portafoglio del primo venuto ma l’esperienza insegna e anche quella volta ho imparato qualcosa (spero che anche il signore dallo sguardo vitreo impari qualcosa fissandomi), dicevo, anche quella volta qualcosa l’ho imparato, i mostri non erano li dentro, erano tutti li attorno, sono quelli che quel SERT l’hanno ubicato al posto delle camere mortuarie, sono quelle del tipo “la bionda alla bollatrice” sono quelli come il signore che continua a spiarmi perché io da quella esperienza di cose ne ho portate a casa tante, lo spirito che anima gli operatori, la fiducia nelle persone, la voglia di lottare di alcuni e la delusione di non farcela di altri, ma soprattutto mi sono portato a casa la macchia indelebile del preconcetto, non che non ne abbia credo e non che non mi sbagli mai eh, ma brucia accorgersene… e così il signore dallo sguardo apallico si avvicina, il volto serio e lo sguardo deciso non fanno presagire niente di buono, lo sapevo, me la sentivo, respira e conta fino a mille prima di partire e soprattutto niente parolacce, mordersi la lingua, tirare il freno e se proprio non ce la si può fare fanculo all’URP… :”Signore” mi dice “sa… questa notte l’ho osservata… volevo farle i complimenti, vorrei che fossero molti i professionisti come lei”.
Ingoio l’amaro rospo, il boccone velenoso e poi… dicevo… I MOSTRI… eh…

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entro in c ward… poco dopo

Posted by Aral on Marzo 03, 2011
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Poco dopo entro in C ward. Provo a non farci caso, ma spontaneamente butto l’occhio sul letto vuoto. Lei è tornata alla missione cattolica, un’oasi di felicità, dove ha la possibilità di studiare e stare assieme ad altre ragazze diversamente abili, perché abili lo sono ma a modo loro, con le loro difficoltà che non hanno vergogna di nascondere. E anzi di mostrare su un palco dove danzano con i loro sogni, le loro protesi, le loro carozzine. Si, danzare! Perché tra i vari progetti della missione c’è anche una scuola di danza per ragazze disabili.

Poco dopo la sua ammissione nel nostro ospedale Reaksa è distesa su un lettino, in attesa di entrare in sala. Sul quel letto immenso, i suoi occhi sembrano ancora più grandi. I nostri chirurghi provano a toglierle le ossa del coccige, puliscono bene la piaga e cominciano così le medicazioni ogni due giorni. Comincia cosi l’ennesima speranza di guarigione, quella che accomuna tutti noi, tutto lo staff di Emergency, ognuno di noi guarda i pazienti con questa attesa.

Poco dopo comincia l’amicizia con Chanta, la bambina saltata su una mina con la sua famiglia, e salvata grazie alla bravura dei nostri medici e infermieri. E con Soknga, la bambina con l’osteomielite a cui si tenta di salvare la gamba. Tutte e tre giocano assieme, vanno a mangiare assieme, si toccano, si guardano, si rispettano, ognuna con la sua disabilità.

Poco dopo arriva un materasso ad acqua donato da Emergency alla missione cattolica, il cuscino antidecubito per la carozzina e alcune medicazioni speciali dalla generosità di alcune persone dall’Italia.

SI, poco dopo aver visto gli occhi e il sorriso di Reaksa non si può fare a meno di volerle bene e di desiderare di vederla danzare con la sua carozzina negli abiti tradizionali Cambogiani.

Buona fortuna Reaksa. Che la gioia dei tuoi occhi rispecchi la tua vita.

Aral

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dualità

Posted by Magamagò on Febbraio 09, 2011
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Una serata sola in casa: sola? Non proprio: mi fanno compagnia una cagnetta di nome Lulù stravaccata sul divano (si sa, i volpini sono cani da salotto!) e una bimba piccolissima, tanto piccola che è ancora in me, poco più di una speranza, anzi molto più di una certezza, enorme, coinvolgente tutto e tutti nel mio microcosmo. E’ piccola, ma crescerà.
In lontananza una sirena d’ambulanza: non potrebbe essere la Polizia, o i Vigili del Fuoco, o vattelappesca? O, figurarsi, il mio sesto senso (o perchè sono una streghetta come mia nonna bonanima) mi dice di no, e che forse fra poco qualcuno avrà bisogno di me, del mio amore per il prossimo, della mia professionalità, del fatto che in questo piccolo paese, in quel piccolo Ospedale oggi ci sono solo io come Anestesista. Eh sì, bimba mia, hai scelto una mamma con un lavoro un po’ burrascoso e tosto, una mamma che ama l’imprevisto anche se non lo cerca… Suona il telefono: lo dicevo io! Mentre nelle mie vene scorre a fiumi l’adrenalina rispondo, con in mano i vestiti ed il guinzaglio, già pronta per uscire. Poche parole, un romanzo non detto a cui manca il finale. “Un incidente… un ragazzo in coma, c’è bisogno di te… lo conosci”. Volo per le scale, corro in ospedale col cane in macchina che mi segue ovunque fin dove può e poi mi aspetta paziente. E naturalmente porto dentro di me la mia bimba. Scusa Chicca, non vorrei strapazzarti ma laggiù c’è un bimbo cresciuto che sta male e una mamma che dopo tanta fatica rischia di vederlo andar via in un attimo. Scusami non è colpa tua se sono un’anestesista, è casomai colpa mia, ma è il mio lavoro, quello che ho scelto lottando duramente e voglio svolgerlo con impegno e poi fino a un attimo fa tu non c’eri. Al Pronto Soccorso bastano pochi minuti, decisioni rapide prese coi colleghi, alcuni gesti essenziali e l’ immediato colo sembra scongiurato, o almeno rimandato. Ma non basta: bisogna trasferire il ragazzo in un Ospedale più grande, più attrezzato; lo si “carica” sull’ambulanza. E’ così tranquillo ora, sembra che dorma, e invece è in coma e vive solo perchè è aiutato da noi, dai farmaci e da Dio soprattutto. Di nuovo la sirena che lacera l’aria e nella notte buia si ingigantisce di più. Reggiti forte, bimba mia, dentro la tua mamma, anche se ti senti sballottata, anche se sei piccolissima e fragile. Ti abbiamo cercata per anni il tuo papà ed io; non siamo genitori cattivi, nè il tuo papà in camice bianco che al PS ha fatto quello che ha potuto e poi ci ha lasciate salire sull’ambulanza, nè io stessa che mi affanno attorno a questo ragazzo in fin di vita. Vedrai piccolina, non ti succederà niente, Dio non baratta una vita con un’altra e noi lo salveremo anche grazie alla forza tua, la forza della Vita nascente!

Però ti prometto che da domani farò la casalinga e niente più ambulanze, niente stress… e niente strizze!

Magamagò

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amami, Alfredo

Posted by blue dolphin on Gennaio 19, 2011
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Alfredo ha 55 anni, una moglie simpatica e una figlia adolescente.
E’ ricoverato in rianimazione da oltre 3 mesi, battendo svariati record provinciali e regionali. Ha all’attivo una fibrosi polmonare occupazionale, una cardiopatia dilatativa, uno shock settico e due arresti cardiaci, da cui il meritato nomignolo di Highlander. A vederlo, soprattutto quando è in buona, non lo diresti… certo, le masse muscolari sono solo un vago ricordo, la crymine lo ha indebolito tanto da renderlo quasi incapace di parlare, tanto che la cannula fonatoria giace spesso inutilizzata nell’apposita scatolina e il colorito non è dei più sani, ma in realtà il nostro eroe è stato dichiarato dimissibile da settimane. Eppure anche stanotte è qui. Eccoci all’annoso problema: quei fantasmi dei “reparti a bassa intensità di cure” che, a quanto pare, esistono solo sulla carta, anche in questa regione così figa dal punto di vista sanitario (dicono…). Nei fatti, nessuno è in grado di prendersi cura di Alfredo, della sua tracheostomia e del suo ventilatore domiciliare, come i molteplici e spesso drammatici tentativi di trasferimento hanno dimostrato: Alfredo è sempre tornato al mittente, talvolta ripreso per i capelli, con un’espressione allucinata e colpevolizzante del tipo “ma dove accidenti mi volevate mandare?? vi sembro uno da corsia?”. Perplessità comprensibili, ma… che fare? Con tutto il bene che ti vogliamo, Alfredo, dove ti mettiamo? La soluzione è per ora una lunga lista d’attesa in una “struttura speciale”. Nessuno sembra veramente convinto e l’attesa sta diventando secolare, ma se qualcuno ha un’idea migliore, batta un colpo per favore.
Per il momento, insomma, il Nostro resta in famiglia. E non si limita a governare il proprio box, ma da lì ci sorveglia tutti, reclama le nostre attenzioni battendo le mani (gli facciamo il verso: “cameriere, il conto!” e lui ci risponde con un garbato segno dell’ombrello) e commenta con pollice verso l’arrivo dei medici che gli stanno antipatici (non ho ancora capito cosa diamine pensi di me…). Non solo: dal proprio trono giudica, con inequivocabili espressioni del volto, l’arrivo degli altri pazienti, in un turnover che – per fortuna – gli porta dei vicini di casa nuovi quasi ogni giorno. Sembra una zitella inacidita che osservi il via vai di gente dal balcone: faccia indifferente, forse un po’ snob, per i banali postoperati; espressione mesta per i neurolesi; disgusto per i politraumi; rassegnato scuotimento del capo per chi secondo lui non ce la farà… e c’è da dire che è diventato più bravo di qualunque score multiparametrico!
Ma quello che veramente lascia esterrefatti è guardarlo mentre si gestisce le proprie invasività: si aggiusta le medicazioni del cvc che non lo convincono e quando gli gira, scelto il sondino più opportuno, si broncoaspira con gusto le secrezioni, dopo aver sconnesso con attenzione il circuito dalla tracheo. Uno spettacolo! Intendiamoci, nessuno gli ha mai chiesto di farlo. Ma lui è ostinato e ci si impegna, un po’ per sentirsi autonomo, un po’ perchè forse si annoia; e poi, insomma… credo che lo farei anch’io al suo posto. La tracheo è mia e la gestisco io!
Il suo stato psichico è spesso un problema. E’ difficile immaginare di passare 3 mesi in una rianimazione, 2 dei quali in piena coscienza: perdi la consapevolezza della notte e del giorno, i tuoi ritmi circadiani si confondono col cambio turno degli infermieri, sei condannato ad un inquinamento acustico spesso assordante e soprattutto aspetti senza sapere bene cosa, quando e soprattutto perché. L’assistenza psicologica e la terapia antidepressiva qualcosa fanno, ma spesso Alfredo si scoraggia, a volte piange, a volte sillaba con le labbra “tanto muoio”; a volte invece per fortuna si arrabbia, ti manda a fanculo senza motivo e poi sembra stare decisamente meglio.
La sera, dopo che sua moglie se ne va, è il momento della tv. Non ne ha sempre voglia. Spesso scrive sulla sua lavagna “ma perchè paghiamo il canone?”. Sempre lucido, senza dubbio…
Stasera sono reperibile e mi hanno incastrato. Tra 20 minuti vado in sala. Ho mangiato qualcosa e ci sarebbe giusto il tempo di guardare un po’ della mia telenovela preferita. Sia ben chiaro, non che io la guardi spesso, ma ogni tanto, per svagarmi un po’… e poi stasera Angela e Franco si dovrebbero rimettere insieme, è un puntatone. Mi affaccio nel box di Alfredo, aria assente e depressa: “che guardi?”. Scuote la testa con indifferenza. “Ti scoccia se cambio?”. Fa spallucce. Mi appoggio al letto, monopolizzo il telecomando e seguo rapita le commoventi scene d’amore-vendetta-ritorni di fiamma, dimenticandomi quasi del mio ospite, che comunque non si ribella alla cosa. Dopo un po’ si affaccia il collega di guardia, il vice-capo: “ma tu non dovevi andare in sala? e che è sta roba trash che guardate??”. Mi sveglio dalla trance e davanti al mio serissimo Responsabile, un po’, sinceramente, mi vergogno. Ed ecco l’idea geniale e perversa: “Facevo compagnia ad Alfredo…il programma l’ha scelto lui!”. Gli faccio l’occhiolino e scappo in sala, mentre lui scuote la testa in segno di profonda disapprovazione. Tanto la fonatoria non ce l’ha neanche stasera, non farà la spia…

Blue Dolphin

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notti di guardia

Posted by Gaddo on Gennaio 10, 2011
cronache / 2 Commenti

Ore 19.45. Entro in ospedale in fretta e con una punta di rimorso: avrei voluto arrivare prima per mandare a casa il mio collega della guardia pomeridiana, ma non ce l’ho fatta. Fra i saluti ai bambini, una cena ultrarapida con piatto unico che farà le veci del cenone di capodanno e il caricare tutto in auto, non ce l’ho proprio fatta.
Ore 20. Faccio il mio ingresso trionfale in PS. In sala d’attesa radiologica c’è gente, e io non credo ai miei occhi: fra poco cominciano i festeggiamenti e le danze, non riesco a trovare motivi per una presenza così assidua e affezionata al pronto soccorso. E infatti non la trovo nemmeno quando comincio a refertare esami: dolori alla spalla da settimane, distorsioni di cinque giorni prima, dolori al petto in giovani ventenni ansiosi. Mi chiedo cosa stia succedendo, nel mondo in generale e in questo paese in particolare.
Ore 20.43. Mi chiama l’ortopedico di guardia e mi comunica che alle ventidue e trenta, urgenze permettendo, ci si vede su da loro in reparto per una bicchierata e un taglio di panettone. Io dico che ci sarò, salvo sorprese, e lui cala l’asso: Ho una paziente in reparto che respira male, l’ha vista la geriatra di guardia e dice che può essere un’embolia polmonare. Embolia polmonare, come no. Non so perché, ma dal tono di voce del mio collega inferisco l’estrema improbabilità statistica che si tratti di embolia. Potrei scommetterci un intero mese del 2011.
Ore 21.05. In Tac. La paziente dell’ortopedia non ha l’embolia polmonare, è ufficiale. Il mio mese del 2011 è salvo.
Ore 21.30. Porca miseria, mi sono accorto di aver dimenticato l’Ipod a casa. Bene: notte dell’ultimo dell’anno senza nemmeno un po’ musica. Che culo.
Ore 21.44. Mi telefona una cara amica: Non è che per caso sei di guardia stanotte? Perché mia figlia ha appena ingoiato una batteria. Portala subito qui, le dico.
Ore 22.05. Mi richiama l’ortopedico: c’è una donna che si è buttata giù da un balcone non troppo alto, non è riuscita nel suo intento ma in compenso si è fatta molto male. Serve una Tac del bacino perché secondo lui le radiografie non sono chiare. Io mi chiedo perché mai le persone aspettino le feste comandate per arrecarsi danno: se per una inclinazione irreversibile legata alla malinconia delle feste in solitudine o se per farla pagare a chi invece le feste se le sta godendo alla faccia di chi minaccia il suicidio. Forse entrambe le cose insieme. Nessuna delle quali, a mio modesto parere, giustifica la conclusione di ritrovarsi in un triste letto dell’ortopedia con il bacino fracassato. Se proprio vuoi ammazzarti, insegna il saggio, meglio scegliere un piano abbastanza elevato.
Ore 22.30. Arriva la mia amica con la bimba, in un felice istante lavorativo in cui fuori non c’è nessuno che aspetta. Facciamo la radiografia alla bimba in un istante e la batteria c’è per davvero. La rispedisco in pediatria, mi richiameranno loro per discutere il caso.
Ore 22.55. Incredibile, qui fuori c’è ancora gente che aspetta. Mi ero portato il PC portatile per scrivere qualcosa, ma non riesco a staccarmi dalla consolle del PACS. Quando esco dalla mia sala di refertazione per andare in ecografia le persone in attesa hanno una faccia incredibilmente priva di espressione. Come se fossero altrove: in treno, in coda alle poste per pagare una bolletta, davanti alla tivù mentre guardano il Grande Fratello. Forse è solo la tristezza del luogo, forse è la stanchezza fisica. Forse è il senso di disperazione che ti assale ogni volta che entri in ospedale dalla porta d’ingresso sbagliata, quella del paziente.
Ore 23.35. Viene in studio uno dei due chirurghi di turno. E’ una persona simpatica, con cui vado d’accordo a prescindere: sono contento di vederlo anche se in realtà è venuto a pormi un problema. C’è la paziente a cui ho fatto l’ecografia poco prima: ha mal di pancia ma è molto grassa e non è facile visitarla. Ha un po’ di sangue nelle feci e una leggera anemia. Gli esami del sangue per il resto sembrano a posto, salvo i lattati alti. Insomma, per farla più breve di come la fa lui: Secondo te, mi chiede, è legittimo chiedere una Tac con questo quadro per una sospetta ischemia intestinale? Beh, gli rispondo, non è che bastino i lattati alti per sospettare un infarto intestinale. Ma è la notte di Capodanno, non ho voglia di discutere e neanche di essere sarcastico; e ho intuito che né lui né la collega di PS ci hanno capito nulla. Facciamola pure, questa Tac. A una quasi novantenne, una volta tanto, aver preso raggi per niente non farà grossi danni.
Ore 23.57. Il tecnico mi chiama al telefono perché la paziente è già sul lettino, pronta all’esame. Io entro in Tac, oltre al tecnico ci sono due infermiere dall’aria stanca. Parte l’esame: e la mezzanotte scocca durante il bolus tracking, in un silenzio rotto solo dal ronzare del tubo radiogeno che fa il suo dovere. Ci scambiamo gli auguri, io, il tecnico e le due infermiere, mentre l’esame finisce. Nessuna traccia di ischemia intestinale né di altre patologie. Quale che sia il motivo del mal di pancia, e non c’erano molti dubbi che non di trattasse di infarto, il mio amico chirurgo dovrà cercarselo altrove.
Ore 0.10. Dopo un fitto scambio di SMS sull’inutilità della peretta evacuativa e sulla somministrazione di un purgante più robusto alla bimba, la mia amica dice che viene a farmi gli auguri. Scende dopo pochi minuti: ha la faccia stravolta dal sonno mentre la bimba è vispa come se l’avesse punta un calabrone, e a più riprese cerca di smontare la sala refertazione. Andiamo dai tecnici, in un momento di pace, con un pandoro e una bottiglia di prosecco. La tecnica va a procurarsi un cavatappi, e alla fine si aggiunge anche l’otorino di guardia. Alla vista della bottiglia ghiacciata si rianima, e racconta che in reparto ha appena brindato con un vinaccio che sembrava fatto con la polverina. Brindiamo anche noi a momenti migliori, ognuno concentrato sui propri desideri. La bimba è irrefrenabile, allegra più di noi tutti messi insieme.
Ore 01.30. L’emorragia di esami si arresta, la sala di attesa è vuota come solo una sala di attesa ospedaliera può essere. L’albero di Natale lampeggia a intermittenza, gli occhi mi bruciano. Decido che è ora di ritirarmi nelle mie stanze. Leggo un libro per cinque minuti, poi le palpebre mi si chiudono e prendo sonno.
Ore 02.00. Anziano paziente dispnoico, Rx torace.
Ore 02.30. Anziano paziente dispnoico. Rx torace e addome diretto.
Ore 03.00. Anzianissima signora con un probabile ictus cerebrale. Rx torace di benvenuto.
Ore 03.30. Anziana signora con difficoltà respiratorie. Rx torace.
Ore 04.00. Giovane con sospetta frattura del polso. Che non ha, of course.
Ore 04.30, 05.00, 05.30, 06.00. Altri ultranovantenni, sempre per gli stessi motivi. Faccio davvero fatica a tenere gli occhi aperti, vedo praticamente doppio. Converto il mio privato desiderio di fine anno in quello di non finire in galera per aver sbagliato uno degli esami notturni, refertati praticamente con un occhio solo.
Ore 06.30. Ancora l’ortopedico, implacabile come l’anno della fame. C’è un’altra paziente ricoverata in cui la geriatra sospetta un’embolia polmonare. Gli chiedo, con voce implorante, se il sospetto è proprio così terribile da non poter attendere almeno un’ora, in modo che possa riprendere un minimo di conoscenza. Dalla risposta allegra del collega (ma questo non ha mai sonno?) re-inferisco che all’embolia polmonare non ci crede molto nemmeno questa volta. Per amor del vero, l’ortopedico non mi sveglierà fino alle 8 di mattina, e la tac per embolia la faremo insieme io e il mio collega, al cambio guardia. Negativa, of course.
Ore 07.59. Squilla il cordless, ancora e ancora. E’ il mio collega del cambio, mi chiede dove sono ma lo capisce subito appena rispondo con voce cavernosa. Mi alzo, mi bagno la faccia, lavo i denti. Disfo il letto in cui praticamente non ho dormito, rimetto a posto le coperte.
Ore 08.15. Porto il cordless al collega. Scambiamo due chiacchiere, gli auguro migliore fortuna durante il turno giornaliero e prendo la strada di casa. In strada nessuno, nemmeno un cane. La mia macchina è ricoperta da uno strato di ghiaccio spesso un dito. Ci sono tre gradi sotto zero, l’aria è davvero magnifica. L’alba è rosa.
Ore 09.00. Sono a casa. Tutti dormono, anche la piccola: che in genere alle sette di mattina salta sul letto intonando canzoni natalizie. Mi siedo sul divano, accendo la televisione, guardo un pezzo di film degli anni cinquanta. Il silenzio è perfetto. Dopo mezzora i miei bimbi irrompono nella sala e mi abbracciano: e l’anno comincia per davvero, nel migliore dei modi possibili.

Gaddo

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non alzare il gomito

Posted by manuele on Novembre 01, 2010
cronache / 3 Commenti

Amo il mio mestiere. Desideravo già da bambino diventare medico. Dentro di me desideravo sempre stare dalla parte del più debole, forse perché debole e timido sono sempre stato anch’io. Finché un bel giorno eccomi Medico Rianimatore-Anestesista. Questo mestiere mi ha plasmato, ha modificato il mio carattere, ha infuso pian piano, giorno per giorno, in me il modo di controllare la timidezza, di prendere sicurezza, di tenere a bada la tensione, di riuscire nel panico generale ad essere calmo, prendere secondi preziosi di riflessione per me stesso e successivamente agire rapidamente per il bene del paziente con la mente sgombra dalla paura di commettere errori, di non essere all’altezza, di arrecare danno e non beneficio. Insomma, ora, dopo quasi 15 anni che faccio il medico, posso dire di convivere con essa, di aver accolto i “demoni” che continuano a bisbigliare al mio orecchio e ascoltare sempre più la mia “vocina buona e ottimista”.
Fine Novembre, domenica. Turno lungo. Un freddo cane. Il mio turno in elicottero 118 quel giorno non passava mai, non eravamo ancora usciti ed erano solo le 16.00. In base le ore passavano, tra chiacchiere, battute, caffè e qualche sigaretta con gli altri componenti dell’eli, con Marco il comandante pilota, con gli infermieri simpaticissimi e veramente in gamba.
“Beh io mi butto 5 minuti sul divano ok raga?”
“Tranquillo doc, guarda che c’è Valentino oggi…”
“Azz! E’ vero! Oggi c’è il motogp!” Mi getto sul divano, faccio appena in tempo a metter la testa tra le mani e: “BIRIBIRI-BI / BIRIBIRI-BI / BANNONE, TRAUMATICO, PEDONE INVESTITO DA AUTO… RIPETO…” Le solite piccole imprecazioni, un attimo di batticuore e in 30 secondi siamo sull’elicottero. Marco ha già acceso i motori. “Allora abbiamo tutto?” Sì. Metti le cuffie, il marsupio coi farmaci ce l’ho, con me ho Paolo e Luca, sono a posto, sono bravissimi. Poi c’è Marco. Beh dai almeno tre apostoli ci sono! Ahah! Due feriti, forse, ci sarà da intubare, credo. Beh dai, vediamo sul posto. Decolliamo e poi sentiamo cosa ci dice la centrale”.
Amo vedere la mia città dall’alto che diventa sempre più piccola, le persone minuscole, guardare l’orizzonte. Col sole pieno e le giornate limpide si riescono a vedere anche le Alpi a volte. “Cinque minuti al target. Bannone 206 hai notizie dei feriti?” la radio gracchia per un istante nelle cuffie alle nostre orecchie.
“Bannone 206 a Sierra eco, un solo ferito pare in modo non grave, il pedone, cosciente, respira”
Ok, dai tra pochi minuti siamo lì. Marco vede l’ambulanza sulla strada, solito giro di 360° a 2G. Ma perché Marco deve sempre farci venire lo stomaco in gola io non lo so..
Dall’alto vedo un camioncino a lato della strada parallelo all’asse senza evidenti segni di intrusione del veicolo, un omone vestito di bianco e braghe blu che sembra agitato, in piedi, che cammina. L’altro è seduto sul ciglio della strada, giubbotto lungo verde. I vigili sono già sul posto e hanno chiuso i due sensi di marcia. Perfetto. Atterriamo, nel campo adiacente. Tutti e tre diamo a Marco indicazioni sui possibili pericoli nelle vicinanze dell’eli in atterraggio, si tocca terra, togliamo le cuffie, aspetto che Luca apra il portellone laterale e ci indichi la via da seguire mentre ho il marsupio a tracolla coi farmaci , il monitor defibrillatore, e Paolo che mi segue a ruota con lo zaino. Passi spediti arrivo sul luogo, Paolo è già ai piedi del ragazzo seduto sul ciglio della strada, ha già capito come me che è lui ad esser stato investito. Il conducente impreca come un forsennato verso il ragazzo e subito non capisco perché.
“Come ti chiami?” Non proferisce parola. Sarà lo shock. Tasto il polso periferico, è ok, respira da solo, benissimo. L’energumeno del camioncino sbraita ancora anche con fare preoccupato e mi dice: “Dottore, Come sta? S’è fatto male? Porca p…mi è sbucato fuori all’improvviso, in un secondo, l’ho appena sfiorato con la fiancata di destra, cazzo è sbucato fuori barcollando, ho sterzato ma non ho fatto a tempo a evitarlo !!!” Mi alzo un attimo e gli dico: “Sì sta bene, sta bene. Adesso lo controlliamo. Lei piuttosto s’è fatto male? Ha battuto la testa le gambe? Aveva la cintura?” “Sì sì dottore tranquillo sto bene, andavo pianissimo, non mi son fatto niente”. Gli do una rapida occhiata, il cosiddetto colpo d’occhio, lo visito un minuto. Sta bene. Ritorno dal ragazzo che è sempre con Paolo che cerca di farlo parlare, e che lo controlla col saturimetro.
In effetti c’è qualcosa di strano: l’auto non ha evidenti segni di collisione, il ragazzo muto è seduto, mi han detto che si è rialzato da solo sempre barcollando un po’ dopo che la macchina l’ha toccato con lo specchietto laterale. Quindi si è messo tranquillo a lato della strada senza un lamento. Continua con la mano destra a tenersi stretto il gomito di sinistra. Ha un impermeabile da caccia lungo, lordo.
“Come ti chiami, ti senti bene? Ti fa male il braccio?” Faccio per aprirgli il giubbotto ma lui si divincola e non me lo permette. “Senti, fammi ascoltare il torace, dai, non ti faccio niente sono il medico. Lo so che ti fa male il braccio ma o togliamo sto impermeabile o te lo devo tagliare”
Paolo mi guarda e con un gesto mi fa capire che questo è fuori come un cammello.
In effetti l’alito da cammello ce l’ha ! Lo convinco a farsi mettere il collare per il rachide e a caricarlo in ambulanza. Chiudiamo le porte. Parametri vitali tutti nella norma. “Mi fai vedere sto braccio che ti fa così male per favore?
Il ragazzo muto, dentro “le mura” protette dagli sguardi dei curiosi, lentamente si lascia aprire l’impermeabile, prima il lato destro e poi pian piano la parte di sinistra. Continua a tenere il gomito sinistro sempre un po’ vicino al torace.
“Nooooo !!” esclamo. Io e Paolo ci guardiamo…abbiamo un grosso sorriso sulle labbra, pronto a scoppiare in una fragorosa risata che tratteniamo con professionalità.
E’ il più grosso bottiglione di grappa che io abbia mai visto. Ma davvero, sarà tre litri!
Il ragazzo sta benone, neanche un graffio al gomito né al braccio. Era solo spaventato. Non voleva assolutamente far notare né al conducente né ai vigili il prezioso nettare che lo aveva colto per alcune ore tra le braccia di morfeo e che ancora con lui stava passeggiando sul ciglio della strada.
La mia “vocina buona e ottimista” aveva ragione: mi aveva bisbigliato che sarebbe andato tutto bene, era come se mi stesse dicendo “dai, facciamo un giretto tra i cieli, oggi è una giornata bellissima, rilassati.” Esco dall’ambulanza, compilo il modulo dell’eli e consegno il nettare alle forze dell’ordine. Saluto tutti, consegno il referto, all’autista energumeno dico di stare tranquillo, è tutto ok. Lascio il ragazzo ai militi con un codice 2 per il PS. Rimontiamo con le nostre selle fatte di monitor e di zaini medicali sul nostro cavallo alato quadrielica. Il nostro decollo è ammirato da tutti. Dall’alto, tutti i gomiti dei curiosi e dei più piccoli sono alzati per salutarci. Paolo salta su e in cuffia dice: “Oh, l’unico che ha ancora il gomito giù è il nostro amico muto!” Fragorosa risata generale e Marco canticchiando ha già effettuato la sua virata di 180° a 2G per portarci in base. E il tramonto è spettacolare.

manuele

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la macchia

Posted by alti on Ottobre 21, 2010
cronache / 2 Commenti

Di notti di guardia ne scivolano diverse su queste divise, ti passano sopra, qualche macchia alla fine ce la trovi sempre e per ognuna, per piccola e insignificante che possa sembrare c’è una storia da raccontare.
Ricordo la storia di quella macchia per cui non feci assolutamente niente di importante, quella per cui feci soltanto il mio lavoro e neppure particolarmente bene o male, lo feci e basta.
Certo è che il modo in cui ti poni… beh… qualcosa fa… certo è che l’abito non fa il monaco… però… certo è che di cose che ti fanno incazzare ne vedi tante però puoi mica essere sempre incazzato? Io mi pongo sempre rispettosamente però insomma con un po’ di elasticità due battute anche con le persone che arrivano le faccio con piacere, il mio abito è quasi sempre sgualcito, non so se perché tengo le divise rannicchiate nell’armadietto, i miei piercing e tatuaggi fanno capolino dalla mia divisa e sono quasi sempre incazzato… però…. proprio adesso… mi trovo davanti un pirla di collega che si diverte a correre spingendo la barella e facendo lunghe scivolate con le zoccole e mi chiedo: “ma sono io che non sopporto proprio più niente o ci siamo completamente persi? Vorrei proprio che provasse ad immedesimarsi un secondo nel mondo reale, quello in cui anche la crisi d’ansia in questo momento si crede di avere, come minimo, un infarto e un pirla le passa davanti divertendosi a fare le scivolate… mah… torniamo alla macchia… cosa dicevo? Mac… chia. Ah…. si, quella macchia è comparsa sulla mia divisa una notte in cui, dentro questo bellissimo, magnifico, spettacolare pronto soccorso ci saranno state 35, 40 barelle, un buon numero per renderle difficilmente gestibili, età media 80 anni, tutti completamente schierati o in degenza o lungo i muri del corridoio, categoricamente spondine alzate, cercate di non fare rumore mentre vi soffiate il naso, vietato parlare con il vicino, vietato l’accesso ai non addetti, vietato fumare, vietato pensare, vietato interrompere il personale mentre lavora, vietato chiedere qualcosa al primo che passa, di divieti ne mettiamo tanti è che poi li dimentichiamo… dovremmo mettere il divieto di fare le scivolate con le zoccole perché il pirla di prima non ha mica ancora smesso… cosa dicevo? Divieti… mac… chia. Ah… si… età media 80 anni e si sa, gli uomini di 80 anni, anche se sulla barella, anche se è vietato, la pipì la devono fare lo stesso e la prostata grande come un’arancia di certo non aiuta. A me i divieti non piacciono proprio per niente, anzi sono uno di quelli che se ne vedono uno vengono immediatamente risucchiati verso l’imponente ed inarrestabile desiderio di infrangerli… domani se mettono il divieto mi metto a fare lunghe scivolate spingendo barelle… lui non ha ancora smesso ma di sicuro smetterebbe… quella macchia, dicevo, comparve perché facendo scendere l’ottantenne incartapecorito che deambulava con il bastone ed aveva un’anamnesi patologica remota comprendente tutte le patologie citate nell’Harrison, quello che nessuno dei miei colleghi si era degnato di fare scendere per tutto il pomeriggio quello che è stato spogliato, munito di pannolone e che se non riesce a pisciare nel pannolone o nel pappagallo si becca pure il catetere, quello che non smette di chiamare un attimo perché sta pipì proprio non la vuole fare… insomma quello che più di tutti spacca i maroni… e beh, io quello l’ho fatto scendere… da solo… non ho dovuto chiamare i pompieri, l’elisoccorso, allertare la direzione sanitaria, l’emodinamica, la stroke unit… niente di che, al massimo avrò infranto un’ottantina di divieti ma così andiamo in pari con i suoi anni, l’ ho fatto scendere, gli ho tolto il pannolone, il camice a fiori azzurri che tiene scoperte tutte le natiche, l’ho accompagnato in bagno a fare una gran pisciata, gli ho messo il suo pigiama, ho dedicato forse tre minuti del mio prezioso e stipendiato tempo, l’ho riaccompagnato sulla barella e nel fare tutto questo una piccola macchia di sangue proveniente dal suo accesso venoso ha sporcato la mia divisa… è piccola, infinitesimale… insignificante ma, ci siamo guardati negli occhi, ci siamo ringraziati con un bel sorriso, lui perché l’ho trattato da uomo e non da cretino… come sto trattando il deficiente che nonostante tutto continua a fare le scivolate… io perché ho fatto qualcosa che non si aspettava, qualcosa di premiante, qualcosa che a suo parere andava oltre quello che mi era richiesto… oltre cosa? Oltre quel cretino che a forza di fare scivolate é finalmente caduto?

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il nero

Posted by zarianto on Settembre 19, 2010
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E’ notte. Mi segnalano un paziente vittima di trauma maggiore che dovrà accedere alla sala operatoria per sottoporsi a sintesi di frattura di femore, verificatasi durante una fuga in motorino, per sfuggire alla cattura, da parte della polizia. Si tratterebbe di uno spacciatore che presenta anche una frattura vertebrale cervicale, senza deficit neurologico, stabilizzata con collare rigido. Poiché l’addestramento di anni mi spinge ad anteporre i problemi clinici ai giudizi morali, che per mia fortuna sospendo sempre con immediato automatismo, mosso dalla necessità di verificare le condizioni del paziente, mi reco in pronto soccorso, dove un nigeriano di colore, poco più che ventenne, dal fisico asciutto e atletico e dall’espressione tesa e preoccupata, giace in barella. Non parla italiano, evidentemente è da poco nel nostro Paese, ma, come molti nigeriani, si esprime assai bene in inglese, sicuramente meglio di me. Dopo aver parlato coi colleghi del pronto soccorso e presa visione della documentazione clinica, tento l’approccio con lui, nel mio inglese approssimativo, reso ancora più maccheronico dall’ora tarda della notte. Nella testa, cognizioni mediche e linguistiche si accavallano, minacciate dalle ombre incipienti del sonno. “Do you suffer from allergies? What about your medicines and drugs?…”. And so on! Ovviamente omette l’inseguimento da parte delle forze dell’ordine, ma mentre parliamo, quel viso, inizialmente ingessato di serietà, pian piano si anima, per sfociare, infine, in un sorrisone divertito e smagliante a trentadue denti, che tanto contrasta con il colore della pelle. Complice, sicuramente, la mia involontaria comicità linguistica. Mi chiedo quindi come quel giovane, dall’aspetto così “normale”, sano e finanche educato, possa vendere la morte e mi rispondo che forse, se fossi disperato e alla fame, lo farei anch’io!
Poco dopo arriva in pronto soccorso quello che presumo sia il fratello maggiore, alto un metro e novanta e piuttosto grosso e adirato o preoccupato -non riesco a capire: forse tutte e due le cose – scortato dalla polizia municipale; non appena si avvicina alla barella, i due si scambiano uno sguardo fugace e il giovane abbassa gli occhi e si fa serio. Non capisco quel breve incrocio di sguardi: rimprovero per l’atto delinquenziale o per essersi fatto beccare? Vista la collaborazione offertami dal fratello maggiore, penso si tratti di riprovazione. “Faccia tutto ciò che può”, mi dice, sempre serio e preoccupato e poi mi ringrazia in anticipo. Coi vigili urbani, alla ricerca di dati, è un po’ più oppositivo, sicuramente infastidito: non li manda a stendere, ma quasi, nonostante il loro garbo, ossequioso delle corporature!
A paziente sveglio e collaborante, procedo all’inserimento del sondino naso gastrico e poi, in sala operatoria, all’intubazione naso-tracheale col fibroscopio. Quindi addormento e il paziente viene operato. Al risveglio, le prime parole che sento sono: “God bless you”. Le ripete anche nei giorni seguenti, ogni volta che mi vede, accompagnandole con tanto di sorrisoni e imbarazzanti baciamano. Anche i famigliari mi augurano benedizioni divine: forse loro ringraziano tutti così! Sicuramente, io ringrazio loro.

“…dal letame nascono i fior” (F. De Andrè)

Zarianto

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finalmente riesco a stendermi

Posted by il Professore on Agosto 24, 2010
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Finalmente riesco a stendermi, sono le 2 di notte… finiti i giri. Liquidi messi su, parametri presi, diuresi scaricata, pompe sostituite su tutti e due, non dovrebbero suonare fino alle 6, l’ora dei prelievi e delle EGA. Il 3 ed il 4 così sistemati non dovrebbero disturbare… non ne posso più.
Oggi è stata una giornata pesantissima, dalle 9 alle 18 BLSD: sempre la solita storia, sia la lezione che i partecipanti al corso. Cerco di metterci entusiasmo, di variare, di aggiungere particolari a qualcosa che è sempre uguale. ABCD… GAS… DAE… una serie di sigle che ai più non significano niente ma che rappresentano l’universo dell’arresto cardiaco. “Signore, signore, c’è una persona incosciente chiamate il 118!” e poi la storia dei crediti formativi ha snaturato il tutto: non gliene frega un niente del corso, di utilizzare il defibrillatore, di imparare a ventilare, della manovra di Heimlich. L’unico interesse è finire presto e superare il test e la prova di valutazione finale. Davanti a loro solo un pallosissimo insegnante, che insegnante non è, che professore non è, che docente non è ma è solo uno che fa un po’ di corsi per “prendere un po’ di soldi in più”.
Non bastasse questo per la mia frustrazione, c’è anche la notte da andare a fare e se sono stanco stai sicuro che non riesco a riposarmi! È la solita storia: se il giorno non dormi la notte balli!
Il turno in rianimazione promette bene. Oggi non sono di uscita per le emergenze intraospedaliere questo significa che se và bene posso stare per i fatti miei con gli arti in scarico e la mano destra sul mouse rapida nei movimenti dello SPIDER. In più oggi ho due pazienti cronici, deconnessi, con un’unica pompa di furosemide, che il medico mette per scaricare il circolo.
Vicino di postazione un giovane chiacchierone che ha voglia di sapere ed un posto vuoto che ha voglia di essere occupato. Risultato??? Ore 23 telefonata dal PS: vogliono un rianimatore e lui parte e dopo 10 minuti telefona per farsi prepare la postazione ed ecco il ricovero che si prolunga un po’ troppo. BPCO già intubato dal 118 che ha solo bisogno di un buon ventilatore, ma il medico, che oggi ha dormito, vuole anche ECG, esami completi, un’arteria radiale, telefonare ai familiari per sapere perché non sono venuti in ospedale… ed un CVC (che significa RX torac ed una lunga attesa per quando con calma arriverà il tecnico reperibile da casa sua).
Le 2 arrivano subito. Dovrei anche riguardare le slide per il corso di EBP di domani, il mio riposo, per l’ennesimo corso e poi le domande del curioso neoassunto (“perché non usano la NIV? Come mai non c’è morfina in ambulanza? Perché non posso andare al congresso???…”)
Speriamo che le 6 arrivino presto…penso proprio che oggi mi merito la sdraio, 4 lenzuoli, uno a coprire la sdraio, 2 sotto la testa e con uno mi copro se non mi ammazza il sonno ci pensa l’aria condizionata, schermi in funzione numeri grandi ed eccomi in mezzo al 3 ed il 4 pronto a far spuntare l’alba. Un’ultima rapida occhiata al teleschermo prima di chiudere un po’ gli occhi e le onde del 3 che iniziano a ballare, quella dell’ecg all’impazzata e l’arteria piatta. Mi alzo accendo tutte le luci, avvicino il carrello dell’urgenza e chiamo tutti intorno a me. Giù il letto, sgonfio il materasso, accendo il defibrillatore, apro la busta attacco il connettore e le piastre… “TUTTI VIA TUTTI VIA STO’ PER SCARICARE” e il sogno di passare una notte tranquilla se ne và con il cuore del 3 che non ha nessuna voglia di far vedere a tutti quanto sono bravo a fare la RCP, ad usare il DAE, a ricordarmi l’ABCD, ad insegnare BLSD…

il Professore

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surreale

Posted by Magamagò on Agosto 10, 2010
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“Dottora, scendi, c’è un codice rosso, un trauma toracico”. Già lo so: chi mi chiama così può essere solo Alfonso, l’infermiere di Pronto Soccorso e anche se è l’una di notte e ho appena finito coi miei pazienti in Rianimazione, l’appellativo mi mette come sempre di buonumore. In fondo è più corto di Dottoressa, e punta sulla professionalità mettendo da parte il sesso di appartenenza, è più semplice, più cameratesco, specie per noi che ci incontriamo anche sott’acqua, durante le immersioni, laddove le parole sono inutili e contano solo le cose essenziali…
Intanto che penso sono arrivata alla porta del Pronto Soccorso immaginando mille film diversi, come si usa dire adesso, e sperando di trovarmi di fronte a quello a lieto fine tra i tanti possibili! “Allora,ditemi tutto”. “Maschio, cosciente, politrauma da incidente stradale, in respiro spontaneo, stabile, ma è un po’ confuso, respira affannosamente e potrebbe precipitare da un momento all’altro”, dice il collega giovane (io non più) del 118 che lo ha raccolto sulla strada ed accompagnato in ospedale.
OK, vediamo dico a me stessa: esagera? Ha manie interventistiche? Deve ripassare il capitolo sull’intubazione, o che? In fondo l’uomo è lì nella barella, monitorizzato, parametri vitali apparentemente nella norma, neanche troppo tachipnoico, sanguina solo da una ferita lacerocontusa della fronte, parla, parla, parla. Occhio, non fidarti, non abbassare la guardia, mi dico! Intanto che raccolgo dati, faccio l’esame obiettivo ed eseguo un prelievo per Emogasanalisi faccio caso alle sue parole e mi rendo conto che ha lo sguardo un po’ allucinato e sembra ansioso più che confuso. “Stavo guidando tranquillamente vi dico, io viaggio sempre di notte, sono rappresentante di commercio, mi è più comodo arrivare dai clienti al mattino presto, ma andavo piano lì per la 74 (Strada Statale 74 in Maremma per la precisione); sapete dove stanno facendo i lavori per raddrizzare le curve…” “Mi sa che ne ha raddrizzata una di troppo lui!” Sento alle mie spalle questo commento sussurrato ed io, senza voltarmi, faccio gli occhiacci agli infermieri: e state tranquilli che se mi imbestialisco gli occhiacci si vedono anche attraverso la nuca! Odio i commenti gratuiti, inutili e cattivi che non servono a nulla.
“Dicevo Dottoressa andavo tranquillo e poi, ad un certo punto, arrivo dove c’è un tratto di strada dismesso allato del tracciato nuovo e improvvisamente la macchina ha preso via per conto suo, seguivo con le ruote la vecchia linea bianca di mezzeria, mi allontanavo sempre più e non riuscivo a sterzare per tornare sulla strada, non riuscivo, vi dico, e non è che lo sterzo si fosse bloccato, l’avrei capito. No, semplicemente puntava su quella linea bianca dipinta per terra e la seguiva mantenendo la macchina perfettamente a cavallo di essa…”
Sì, decisamente è confuso: controllo di nuovo i parametri respiratori, la PaCO2 temendo una carbonarcosi, controllo che nella lista degli esami ematici effettuati all’arrivo siano stati inclusi i test tossicologici, annuso discretamente il suo alito, penso ad una TC del cranio e fulmino con lo sguardo il tecnico di Radiologia dietro di lui che fa quel classico gesto col dito indice sulla tempia: pazzo, matto, svitato, sbroccato… Ancora sciocchezze!
Allora stringo le mani di quel giovane, anzi i polsi, perchè è un gesto più rassicurante e gli sorrido, anche se sono un po’ stanca e avrei preferito una patologia semplice, chiara, da manuale con cui interagire in modo quasi automatico. E invece la psiche umana sta dando il meglio di sé, e allora mi siedo vicino a lui e lo invito a continuare a raccontare, perchè sembra la cosa di cui abbia più bisogno. “Io volevo fermarmi, tornare indietro sulla strada di prima quella nuova insomma, anche se questa vecchia tutto sommato non era brutta, un po’ stretta magari ma con tanti alberi fioriti ai bordi, peschi e ciliegi mi sembra, con tanto verde; pensi, ho pure visto una volpe che occhieggiava dalla formetta, è stato un attimo ma gli occhi scintillavano alla luce dei fari, e l’ho riconosciuta perchè da piccolo abitavo in campagna, in un’altra regione magari, ma la Natura è uguale dappertutto. Da una parte ero sereno, rilassato, dall’altra avevo paura di questo tuffo nel passato, di non poter più decidere della mia vita, imprigionato su quella strada, legato ad una striscia bianca dipinta anni e anni fa. Volevo scappare, sapevo di dover scappare, e ho premuto l’acceleratore, ho sterzato di botto, ma non succedeva niente, e poi la riga bianca a cominciato a curvarsi e sembrava scrivere sull’asfalto grigio, scolorito dal tempo …” Intanto però la sua pressione arteriosa crollava, la saturazione era in calo, tachicardia e tachipnea segnalavano una instabilità emodinamica che stavamo tutto sommato aspettando, ed intanto che interveniamo lo sento ancora farfugliare: “la riga scriveva sull’asfalto: ah sì,sono una strada dismessa, una strada vecchia, non servo più? Mi avete soppiantato. E io mi vendico! E mi vendicherò ancora!”
Dopo un po’ torna la calma, e a paziente intubato, ben ossigenato, stabile, pronto per la TC cranio-torace, ripenso alle sue parole deliranti e mi volto verso il collega del 118 tentando un commento ironico per allentare la tensione, ma lui mi guarda più stralunato di quell’uomo e con un filo di voce dice: “Sai una cosa buffa? L’automobile era accartocciata contro il tronco di un albero sul ciglio della strada, e la riga bianca era contorta, strana, sembrava quasi…(esita a dirlo) sembrava quasi un ghigno diabolico!” Il silenzio nella sala si fece palpabile.
Sì, è stata una nottata lunga e si preannuncia un’alba inquietante, ma per fortuna il mio turno è quasi finito. Prima di andare via però mi volto e con nonchalance, almeno spero, chiedo ad Alfonso: “Ma di preciso poi, dov’è che è avvenuto l’incidente?” “Dottora, sa dove c’è quel casale rosso coi platani, in cima al poggio? Ma sì, dove passa sempre lei per tornare a casa? Proprio lì”.
“Ah,grazie. Mi sa che mi fermo ancora un po’ in ospedale stamattina…” NON SI SA MAI!

Magamagò

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