cronache

stasera proprio non mi va

Posted by Drkrishna on Luglio 16, 2010
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Stasera proprio non mi va, eppure devo, ma non mi va, ma devo. E’ sabato, e il sabato notte in ospedale è corredato di una nota di tristezza in più rispetto alle notti infrasettimanali.

Stasera non mi va di lasciare la mia famiglia, mio figlio, non mi va di fare la persona seria quando tutti gli altri, proprio perché è il weekend, si possono permettere di non esserlo.

Non mi va di impegnarmi con la mente, con l’anima e con il corpo quando gli altri stanno rilassati: non dico che vorrei andare in giro per discoteche che non è più tempo né luogo, (se questi siano mai esistiti!), ma che mi piacerebbe essere stasera anche come chi può abbandonarsi lascivamente ad un programma televisivo o ad una pizza casalinga o ad una nuova ricetta.

Ebbene sì, stasera non mi va di pensare alle vite degli altri, stasera mi va di pensare alla vita mia.

Ma queste sono parole che non posso confidare a nessuno, perché nessuno capirebbe, mi si risponderebbe con un’altra domanda: ma come? Tu sei un medico, e allora perché hai scelto di fare questo mestiere? Come se non fossi un essere umano anche io,come se non avessi una famiglia anche io, come se una volta tanto, ma una volta solamente, non potessi avere voglia di tirarmi indietro… Come se non potessi sentirmi male anche io, non di un male fisico, ma di un male dentro. Eppure la mia notte comincia ore 20.

Il benvenuto non è male… Al marcatempo è tutto un brulicare di “beep” di entrate e di “beep” di uscite. Quelli che entrano hanno il viso uguale al mio, un po’ stanchi per la giornata trascorsa, e il sabato si sa è il giorno della spesa e dei servizi in casa e con i figli, un po’ spaventati per quello che succederà ma con l’aria sicura di chi pensa “non è mica la mia prima notte in PS!!!”; quelli che escono sono visibilmente stanchi ma contenti, la loro giornata è finita.

Incrocio vari colleghi, “ciao, tutto a posto?”, “si tutto ok, grazie e a te?”, “senti ma poi quella signora?..” fra questi una serie di “buonasera dottorè” che sono poi sono i saluti che personalmente gradisco di più, perchè mi capita spesso che con il personale paramedico riesco ad instaurare un rapporto di maggiore autenticità.

E’ tempo per me di salire in reparto, I piano, servizio di Radiologia. Neanche il tempo di andarmi a cambiare che subito arrivano 2 eco addome del PS, chiama la chirurgia “una diretta addome urgente sospetto di perforazione”, scendono 4 bambini della pediatria “non abbiamo posti e prima di mandarli a casa vogliamo stare sicuri con un’rx del torace” … e io sempre in borghese.

Nonostante i miei 35 anni ed un abbigliamento non proprio da teenager i miei momentanei pazienti si ostinano a darmi del tu (ma questo è per ignoranza credo) a chiamarmi “bella” e a non farmi domande sul loro status perché forse non gli sembro credibile… sarà, ma io non affiderei i miei organi addominali ad una sonda ecografica manovrata da una che non abbia laurea né specializzazione. Uno dei tecnici di radiologia più anziano è quello che i pazienti individuano come “il dottore” e a lui pongono tutte le domande, pure sulle ecografie che IO ho appena fatto… Bene! Ho trovato la strategia per spersonalizzarmi da me stessa stasera, per non essere io, per non essere quello che stasera non ho voglia di essere… e invece no, il referto lo firmo io, solo e soltanto io.

Finalmente mi riesco a cambiare, adesso sono vestita da medico, adesso porto pure un cartellino appeso al camice vicino al dosimetro. Adesso potete pure farvi male, che il radiologo sta qua. Qualcuno ascolta la mia voce dell’inconscio e arriva un codice rosso, forse viola. E un codice così rosso a metà serata non è mai un buon indice di predittività positiva della notte. Parlo con i colleghi, loro richiedono eco addome, rx torace, tc cranio etc etc… Ma che perdiamo il tempo? Via direttamente TAC e pure con il contrasto non c’è tempo da perdere: inizio le scansioni e ingurgito a mano a mano che vedo le immagini. Il chirurgo col fiato sul collo – che in quel momento odio, però poi penso, poveretto questo qui lo deve operare lui! – incalza “allora? Che tiene? E il torace? E l’addome?” e io “Calma, ancora 20 secondi e ti dico tutto…”. Rivedo tutte le immagini e comincio “PNX a sinistra con emotorace, aree contusive parenchimali polmonari multiple bilateralmente, frattura di milza, frattura di rene sinistro, frattura dell’ala iliaca sinistra, abbondante liquido libero in addome, fegato e rene destro apparentemente nella norma.”… Che guaio… E via dritti in sala operatoria. Via. Sono andati tutti. Da che il corridoio trasbordava di gente fra chirurghi anestesisti infermieri e barellieri, ora il vuoto assoluto. E io ancora con l’adrenalina in corpo.

Riesco a mangiare un boccone in compagnia dei tecnici di radiologia mentre continuano ad arrivare altri pazienti con banali contusioni, qualcuno con la colica renale, qualcuno ha mangiato un po’ troppo, qualcun altro si è fratturato un dito, e io continuo a pensare a quel povero disgraziato in sala operatoria che pare avesse perso il controllo del motorino e fosse andato a sbattere violentemente contro un albero. Sono le 3 e mezza. Vengo chiamata urgentemente in sala operatoria per un’eco. Corro pensando di aver fatto un guaio, che magari non ho visto una lesione al fegato, che magari non ho visto qualcosa di lampante e invece no, si tratta di tutt’altro: un uomo con un’arteria del braccio recisa dopo un trauma e zampillante… non potevano portarlo in radiologia in queste condizioni, ma bisogna fare una valutazione di eventuali traumi agli organi interni. Mi avvicino con la sonda ma… sono troppo bassa per il tavolo operatorio, col mio braccio destro non arrivo fino al lato sinistro del paziente per cui, tra le risate di tutti, mi viene gentilmente concesso uno “scannetiello per la dottoressa” ovvero uno sgabellino. Così vi salgo e comincio l’eco, ma stavolta, grazie a Dio, non c’è nulla. Stando all’in piedi sullo sgabellino porgo il mio di dietro ad un collega, maschietto, che in maniera simpatica non manca di fare un commento… in altri tempi gli avrei reciso una carotide col suo stesso bisturi, ma stanotte no, quella specie di complimento me lo prendo per buono, e anzi rispondo come solo una donna medico ospedaliero sa rispondere e nessuna altra donna sa.

Torno in reparto, si sono fatte quasi le 5 e vengo graziata da una pioggia scrosciante… Nessuno esce di casa, diluvia e fa troppo freddo… Mi appoggio sul lettino…

Toc toc… “Dottorè!” – “No, ancora?” – “Dottorè sono le 7,30… c’è il caffé!”

drKrishna

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la consapevolezza della gravità

Posted by DEA on Giugno 11, 2010
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Finalmente una notte feriale… la sognavo da tempo, per non dover combattere nuovamente con corpi estratti da macerie di automobili trasformate per attimi in shuttle dalla magia dei fumi dell’alcool…
Tranquilla fino alle ore 5.00, quando il magico tic tac del conto alla rovescia delle 12 ore di guardia pulsa ormai forte e deciso nelle orecchie e nel cervello.
Io e il mio compagno di turno decidiamo di dividerci e lo spedisco in branda mossa a pietà dai suoi racconti di notti insonni grazie alle ripetute coliche del suo bimbo di neanche un mese e dall’adrenalina che ancora mi pervade nonostante si intravedano le luci dell’alba.
Rimaniamo io e i miei infermieri, a pensare alla colazione e a sbirciare dalla finestra, sperando che la neve non attacchi e ci permetta di raggiungere in fretta i nostri giacigli.
“C’è un giallo” risuona una voce stanca “dolore toracico”
“Portiamolo dentro… il solito ragazzi” che sta per ECG e prelievi, mentre io guardo la documentazione clinica e mi preparo psicologicamente a ricevere le informazioni del caso
“guarda Doc…” butto un occhio sul tracciato e lo vedo subito, ma sono al contrario e per un attimo mi sembra sottoslivellato, poi realizzo: “chiamami il cardio sul cicalino” e intanto il giovane signore, che visto da vicino è proprio sofferente, mi dice che il dolore gli pare proprio lo stesso del 2006 quando “ha fatto l’infarto e poi la plastica con il palloncino”
Suona il telefono e il mio Collega Cardiologo mi risponde con una voce proveniente diretta dall’oltretomba.
“Abbiamo un IMA” “E io questo dove lo metto?” risponde “Va beh, scendo”
Il Cardio arriva, getta un occhio cerchiato sull’ECG e prende il telefono, sbuffando bofonchia: “Dobbiamo portarlo su”
Mentre attacchiamo il monitor per il trasporto in Reparto ecco il suono: linea diretta con il 118. Squilli dall’Inferno e penso che è mercoledì sera, ne sono certa, e di tamponamento ce n’è già stato uno verso le 2.00, che c’è ora?
“Questo è rosso, un’emiparesi. 5 minuti, arrivano dal centro città”
Pensavo peggio, rifletto un secondo se preallertare la Stroke Unit e poi penso che prima me lo guardo io, che ho tempo.
Arriva. Ha un emilato in una posizione innaturale e mi dice che è perché è caduto dal letto, che sciocco, ma io leggo nei suoi occhi che oltre a mentire a me mente anche a se stesso.
Lo valuto rapida e poi parlo con la moglie, una bella signora sui 50 anni, seguita da un ragazzo alto alto, che cammina un poco curvo, una zazzera di capelli spettinati sopra gli occhiali dalla montatura spessa.
Lei mi dice che non è riuscita a sollevarlo da terra, che non è mai stato in ospedale prima, che non sa come funziona. Mi chiede fra quanto lo manderemo a casa.
Io le spiego che i sintomi del marito mi preoccupano, che probabilmente è successo qualcosa a livello cerebrale, che sicuramente questa sera non andrà a casa, lo devo ricoverare, ma prima facciamo degli accertamenti, voglio vederci chiaro. Non pronuncio la parola “ictus”, non ancora, tento di farle capire la gravità piano piano, poi le chiedo di accomodarsi in sala d’attesa perché arriva il Collega Neurologo ed inizia a valutare a voce alta se è il caso di trombolisare oppure no. Magari ci sanguina, bisogna avere più informazioni, preferisco che lei non senta. Non subito quantomeno.
Mando il paziente a fare la TC, accompagnato dal Neurologo, mentre io accolgo un nuovo dolore toracico e, di nuovo, chiamo lo “sbuffatore professionista” che, questa volta ormai ben sveglio, quasi non ci crede quando gli dico che ho un altro IMA ST-sopra a distanza di soli 20 minuti dal precedente. Però non brontola più e mi raggiunge anche più rapidamente.
Di nuovo il telefono, questa volta il mio, è il Neurologo dalla TC che mi dice di chiamare il Collega Neurochirurgo perché il paziente è emorragico e che la linea cerebrale mediana quasi non si vede più, tanto è schiacciata da un lato.
Lo aspetto e torniamo dalla moglie, questa volta in una stanza separata. Io più che provata, il Collega preoccupato, il figlio-zazzera e la signora. Le spieghiamo cosa abbiamo visto con la TC, che tutto quel sangue sarà difficilmente raggiungibile chirurgicamente e che preme proprio sopra i centri del respiro, che può peggiorare da un momento all’altro.
Il figlio si siede. Il colorito bianco-verdastro. Improvvisamente lo vedo invecchiare di almeno 10 anni. Lo sbircio cautamente per controllare che dalla sedia non crolli a terra, non sarebbe la prima volta.
Lei no, la consapevolezza della gravità non la raggiunge subito. Inizia a parlare a raffica, del marito, di come sia sempre stato bene, del fatto che non abbia ancora voluto andare in pensione, di sua madre morta a 97 anni (“sono geneticamente forti, mai visto un medico”) all’inizio usa il presente, poi inizia a parlare del marito al passato. Capisco che non siamo più davanti ai suoi occhi, che il dialogo è per se stessa, per poter accettare quella terribile verità che le abbiamo detto che ancora non riesce a farsi completamente strada nella sua mente.
E mi chiedo chi sono io per distruggere le sue illusioni? Che diritto ho di portarla bruscamente con i piedi per terra? Di farle ingoiare questa terribile e fredda realtà?
Ma poi penso che non ho nemmeno il diritto di lasciarle credere che andrà tutto bene, perchè quando la consapevolezza arriverà sarà uno schiaffo forte e secco e le farà troppo male.
Riprendo piano piano le redini del discorso, ripeto cose già dette, più lentamente, la guardo dritta negli occhi e finalmente la vedo, vedo spegnersi una luce nei suoi occhi verdi, le labbra tirarsi e scomparire. Sono pronta a sorreggerla, invece: “Grazie, dottoressa. Ora ho capito” sono le parole che sento. Le stringo la mano e il Neurologo le dice che se ha qualcuno da pregare quello è il momento per farlo. Sono belle parole, io non ne sarei stata in grado.
Ci allontaniamo da loro e continuiamo il nostro lavoro. Guardo l’ora: le 6.45. Mi metto mascherina e guanti puliti – non posso permettermi il lusso di fermarmi – saluto il signor Riccardo, che con la rima buccale deviata, riesce comunque a farmi un sorriso. Ancora stabile nonostante il caos regni sovrano nel suo cranio e per un attimo è lui a fare coraggio a me.

DEA

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Edoardo

Posted by Nuccia on Maggio 09, 2010
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Uno sconosciuto nella notte

Le 3 del mattino. Questa notte di guardia è iniziata male: solo ora entro in camera dopo ore dall’inizio del turno, la voglia di un po’ di riposo. Il camice appeso come ogni volta all’ “ometto” (così qui da noi  chiamiamo la gruccia), la pelle che suda costretta dal pesante cotone che non conosce stagioni. La voglia di riposare distesa  almeno un pochino.  Le forze non sono le stesse degli  anni passati, il dovere è lo stesso, i problemi di più.  Terapie intensive, pazienti oncologici, malati complessi , risorse ridotte, infermieri stressati, recuperi quasi impossibili.

Apro il mio libro “da notte di guardia” di solito un romanzo leggero, distensivo, per far riposare la mente.  Solo poche pagine e già una nuova chiamata: ” il numero 3 , non mi sembra stia male , ma ha chiesto di Lei.”.

Risalgo le scale, la sezione è al piano di sopra, cerco di ricordare il numero 3. Non è il mio reparto, il paziente  non l’ho visto altre volte, il collega del turno di giorno non mi ha detto nulla di lui , ma nel tempo ho imparato che a volte anche un piccolo sintomo vuol dire qualcosa di più.

 Un’occhiata alla cartella: metastasi cerebrali , non vedente, pz terminale. L’infermiera mi aggiorna “parametri stabili, sta come al solito, non so cosa vuole”.

La stanza in penombra, la solita luce notturna, un corpo emaciato, il vicino che dorme. Accanto al suo letto, domando di lui , che cosa si sente,  di cosa ha bisogno: una mano un po’ incerta mi cerca, lo guardo, un viso scavato, uno sguardo che reputo azzurro è fisso nel vuoto. “Sono diventato cieco, dottoressa non la vedo, ma prima ho sentito la sua voce in corridoio: un suono che odora di  dolc , di una persona che forse è anche bella,  mi dia la sua mano. Io sto per morire, da solo; da tempo non sono più niente, non lascio nessuno, il  mio buio aspetta una luce che presto vedrò. Ormai non mi resta più nulla se non l’illusione che ogni notte sia l’ultima. Mi dia  la sua mano un momento e mi scusi se l’ho disturbata.

Non sembra stia male, forse ha solo bisogno di una voce per lui. Gli dico “la voce tradisce, non sono più giovane, il bello è passato da tempo e in questo mestiere è meglio essere bravi”. La mano nella sua gli strappa un sorriso: la  pelle sciupata, le dita nodose, intuisce un’età quasi uguale alla sua. Mando via l’infermiera, mi siedo vicina. Gli parlo di niente, non mi ha disturbata, devo comunque star sveglia, mi può raccontare la sua malattia. Non vuole, la voce è un sussurro per non disturbare il vicino, mi spiega i colori dei fiori, i cieli azzurri che può solo immaginare e che non sono mai sempre uguali, i bambini  dai volti ridenti, di come ne amava i capricci e le gioie improvvise, mi parla dei  loro disegni, di tanti ricordi di un mondo felice, faceva il maestro di scuola; di com’era  in passato, della “fortuna” di non vedere  come può essere ora il suo viso; di giorni che sono soltanto notti più lunghe, ormai ne distingue i rumori, immagina i volti di chi lo circonda in base alle voci, ai modi di porsi,  ai profumi o agli odori di ognuno. Vuole sapere di me, di come mi piaccia di più la miseria che trovo ogni giorno, invece del verde di un prato, di un sole che splende, di gente che ” vive”, di occhi ridenti anziché sofferenti. Si scusa di nuovo perché mi fa perdere tempo, un tempo che per lui non esiste e invece è prezioso per me. Voleva “sentirmi” , ancora , ripete,  lo aveva colpito la voce, udita per caso. Gli dico qualcosa di mio; che fare del bene  mi dà ancora gioia, che la sofferenza degli altri ha ancora bisogno di me,  che questo lavoro difficile è vita.  Racconto di alcuni di loro, persone che ho potuto guarire, soltanto alcuni mi ricordano ancora,  persone che non ho potuto salvare e che non ho dimenticato.  Persone che hanno sofferto, persone che ho aiutato a soffrire di meno. Persone. Come me, come tante , a cui in ogni momento può capitare di essere nel letto ove ora sta lui.

La mano pian piano si stende intanto che ascolta. Il silenzio è rotto d’un tratto dal  suono stridente di un campanello.  Mi chiamano altrove. Sussurra un semplice  grazie  e mi lascia con poche parole: “non vedo il suo volto, ma vedo il suo cuore. Soltanto un consiglio: il mondo è più bello di quello che sembra, lo guardi davvero, si fermi un istante a osservarlo, è una grande fortuna  poterlo vedere.”

Arriva il mattino. Il turno finisce. Riprende il rumore del giorno. A casa di corsa, una doccia veloce, un caffè super forte al solito bar sotto casa perché devo tornare al più presto: “dottoressa ha avuto una brutta nottata? Si vede dagli occhi.”

No, è stata una bella nottata, ho conosciuto un poeta.  Mi colpisce una parola: occhi

La riunione mi aspetta, per strada mi vien da  guardare in modo diverso, rallento, mi accorgo di quanti colori ci sono, di quanto sia bello il più brutto degli alberi intorno: arrivo un pochino  in ritardo, ma ho  voglia di andare un momento al piano di sopra, dal numero 3 a salutarlo e dirgli che oggi c’è il sole. 

Il letto è rifatto e  Lui non c’è più.  Allo sgomento subentra un sorriso, il mio questa volta: il suo buio è finito e qualcosa  di bello ha lasciato: una stretta di mano e un semplice grazie che vale un tesoro.  Mi accorgo di non sapere il suo nome e lo chiedo: Edoardo. Adesso  sono io a ringraziarti. E tu sai perché. E chissà, forse ora mi vedi e mi aspetto un sorriso.

Nuccia

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biglie

Posted by Giramondo on Aprile 29, 2010
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Ero così felice.
E devo ammetterlo, anche un po’ orgoglioso.
In questo Ospedale in Pakistan, in una città vicino al confine con l’Afghanistan,
sono arrivato da circa due mesi.
Quella mattina ero felice.
Durante il giro dei reparti, anche un po’ forzando la rigida separazione tra uomini e donne che vige in queste terre, avevo preso per le braccia Shaiza, una ragazzina di 12 anni che avevo operato due settimane prima, e l’avevo messa fuori dal letto a camminare.
Che gioia !
Shaiza era arrivata in Pronto Soccorso di notte, dopo un viaggio di una decina di ore, con una profonda ferita alla testa in regione parietale destra del diametro di
4 centimetri in seguito ad un bombardamento che, come effetto collaterale, aveva colpito anche il suo giardino di casa.
Glasgow Coma Scale di 9, pupille isocoriche isocicliche, materia cerebrale che fuoriusciva dalla ferita e, dato clinico che non quadrava con la ferita a destra, una emiparesi di tutto il soma di destra.
Parlo con i Parenti per avere il permesso per la craniotomia.
Pianifico Rx del cranio (non c’e’ la TAC…) e poi sala operatoria.
Alla radiografia capisco il perché dell’emiparesi destra:
Shaiza ha 2 biglie di acciaio in testa; una in regione parietale destra, e l’altra che ha attraversato tutto il cervello e si è impiantata nella profondità della materia cerebrale del lobo parietale sinistro, irrangiungibile.
Eseguo una craniotomia destra: estraggo la biglia di destra che è rimasta superficiale, rimuovo un po’ di teca cranica per evidenziare la lesione della dura, riparo la dura con un “patch” di fascia del muscolo temporale.
Tracheotomia per facilitare l’aspirazione delle secrezioni in reparto (non ci sono comunque ventilatori; anzi, non esiste una terapia intensiva).
Mi soffermo sulla biglia: una sferetta di acciaio di circa 5 mm di diametro.
Dalle nostre parti si trovano nei cuscinetti a sfera.
Mi viene in mente che quando ero ragazzino io biglie così le usavo per giocare al campetto sotto casa a ” buca”, a “galletto”… strane associazioni.
Lo stesso oggetto io a 12 anni lo usavo per giocare.Ho chiesto: si chiamano bombe a frammentazione.
Vengono lanciate da aerei o da elicotteri.
Ogni bomba contiene centinaia di biglie così, e quando esplodono vengono sparate come proiettili in tutte le direzioni.

La ragazza nei giorni seguenti progrediva giorno per giorno.
Abbiamo potuto rimuovere la tracheotomia dopo 5 giorni.
Si nutriva per bocca.
E, incredibile, aveva recuperato la motilità dell’arto inferiore destro grazie a un grande lavoro dei fisioterapisti.
Permaneva una marcata astenia dell’arto superiore destro, che però migliorava lentamente.
Niente febbre. Glasgow 15.

Ecco, quella mattina vederla mangiare, parlare e camminare era felicità.

Dopo due notti mi hanno chiamato che improvvisamente ha avuto un arresto cardio-respiratorio.
Sono arrivato in Ospedale e ho potuto soltanto constatare che era morta.

Probabilmente la biglia rimasta nell’emisfero di sinistra ha fatto sanguinare qualche vaso… non lo saprò mai.
Ho provato a spiegare alla madre che era presente: ma come si fa a spiegare una morte che nemmeno io capisco?

Ho imprecato dio (con tutti i suoi nomi).

Mi sono rimangiato la felicità.

E mi sono dato del coglione per l’orgoglio.

Giramondo

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dottore, che Apgar mettiamo?

Posted by Rabuccia on Aprile 03, 2010
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L’ ostetricia extraospedaliera, chiamamola così, è sempre stata oggetto di grande timore per gli operatori del 118… ad un certo punto in una piovosa notte d’estate i timori stessi erano diventati cosa concreta…Sono passati tanti anni ma, con un piccolo sforzo, facendo riemergere i ricordi ed il loro sapore come faceva Proust con la sua madeleine nel the… ecco riaffiorare pienamente questo indimenticabile episodio…

Era ancora, per il sottoscritto, il periodo della specializzazione in Anestesia e a completamento ore svolgevo dei turni di 118 in montagna presso il servizio di P. L’attività non era particolarmente affaticante… i codici rossi erano pochi, l’ambiente giovane, e l’esperienza che si accumulava in sala operatoria dava garanzie di sempre crescente manualità… insomma lavoravo sereno con quel candido entusiasmo, quella santa voglia di fare e strafare che tutti noi conosciamo bene…

L’operatrice della centrale fa squillare il telefono in stanza alle tre e mezza di una notte d’agosto da tregenda in cui, proprio in quel momento, un temporale si abbatteva gagliardo su tutta la valle con un repertorio completo di lampi e tuoni…

Quello che nell’obnubilamento del sonno interrotto sentivo al telefono mi faceva subito accapponare la pelle: “C’è una ragazza che sostiene di essere sul punto di partorire nel bagno di casa a B. Alla fine del paese c’è una casa bassa sulla destra… Non sa più cosa fare… Non è venuta subito in ospedale perchè dice di aver nascosto la gravidanza ai genitori… Dottore, sembra quasi uno scherzo a dir la verità, ma bisogna andare a verificare. Tra l’altro ha chiuso il telefono.”

L’operatrice mi dà l’indirizzo completo. Il paese di B. è piccolo e dista dieci chilometri… Il posto è piuttosto semplice da raggiungere. Partiamo con l’ambulanza veloci ma senza troppa convinzione. C’erano stati diversi procurati allarmi provenienti da B. nelle settimane precedenti quindi… onestamente dentro di noi si sperava, soprattutto stavolta, nell’ennesimo scherzo…

Il pensiero di quello che ci poteva aspettare sul posto però aveva spento gli sbadigli molto rapidamente… nessuno apriva bocca… Si, beh dai l’assistenza al parto… più o meno sappiamo cosa fare…
“Hai preso la borsa da rianimazione pediatrica?”
“Si dottore”

Il tergicristallo dell’ ambulanza col suo scrin-scran seguiva in perfetta sincronia la rotazione della luce blu… le case dei paesi lungo la valle del B. sfilavano attraverso dai finestrini… e le facciate e sembravano arcigni spettatori intenti a guardare con dileggio dei concorrenti dilettanti intenti ad una gara troppo grande… Pensieri…

“Abbiamo il kit ostetrico in ambulanza?”
Il mio infermiere stavolta rispondeva con solo un grugnito di affermazione…

L’autista ad un certo punto rallenta, si ferma: “Dottore siamo arrivati. Deve essere questa la casa”
Mentre cercavamo il civico in mezzo allo scrosciar del diluvio, una figura si avvicinava spuntando dal buio dalla nostra destra. Un fantasma. Un lampo illumina la strada… Una ragazza bionda ed alta si avvicinava a noi con in mano un fagotto… In quel momento abbiamo capito che non si trattava affatto di uno scherzo. Scendiamo tutti dall’ ambulanza sotto la pioggia… “Sali, sali… presto…”

Dal fagotto spuntava quella che senza alcun dubbio era una placenta sanguinante…

“Ma cosa hai fatto…!” Non sapevamo cosa dire… La neo mamma era frastornata… e noi anche… “Partite subito che i miei genitori si svegliano…”

Non avevo dubbi: partiamo subito… Distendiamo la ragazza sulla barella. Prendo in mano il fagotto inzuppato di pioggia e e due occhioni azzurri mi fissavano accompagnati da uno di quei meravigliosi sbadigli che solo i neonati possono fare! Il mio infermiere mi fa: “Dottore che Apgar metto sulla scheda…?”

“Apgar?… si,si… ah… si… beh metti 9…!!!”

Apriamo il pacchetto ostetrico e senza pensarci troppo zac! due clamp sul cordone, taglio… controllo che la paziente non sanguini… il bambino non era neanche da aspirare in bocca. Un virgulto di vitalità… Comunicavo alla radio: “Rientro con parto espletato. Avvisate il pediatra reperibile. Neonato vivo con Apgar 9. Codice 2 per la madre”

Il bambino era splendido… Un maschietto biondino… Si guardava attorno con due occhi da aquilotto… Lo tenevo in braccio io… Lo asciugavamo per bene…

“Ma come è successo… perchè? Perchè così?”
“Ho nascosto per nove mesi la gravidanza. I miei me le avrebbero date… ed ora è nato in bagno… nel water… Ho chiamato col cellulare… non mi credeva quella del 118… Ma il bambino non voglio riconoscerlo… non so neanche chi sia suo padre…”

A quelle parole… beh non sapevo davvero cosa dire. Ho stretto il neonato più forte e ho pensato:
“Ce la farai… lo hai già dimostrato!”

In ospedale compilavo il modulo di assistenza al parto obbligatorio sotto lo sguardo incuriosito della ostetrica di turno… Il mattino dopo, smontando dalla guardia, mi recavo io personalmente a registrare la nascita nel comune di B. visto che nessuno si era fatto vedere. Il funzionario del comune che non aveva ben realizzato chi fossi… mi ha chiedeva con curiosità e stupore se ero il padre. “No, no lei scherza! Non sono io il padre ma un pò forse si…! E’ come se lo fossi”

Una notte-di-guardia un pò diversa… dolce ed un pò amara, come la vita.

Rabuccia

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se fossi Marco…

Posted by Ultiva on Febbraio 11, 2010
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Ho incontrato G. al terzo anno, docente di Area Critica ed Emergenza. Lui è uno dei miei Medici, e soprattutto, uno dei miei Maestri. Sempre gentile, mai brusco, perennemente pronto a difendere la causa di chi si guadagna da vivere maneggiando cateteri e padelle (o almeno così pensa il pubblico…). Mio relatore di tesi, rappresenta il mio gancio per entrare a lavorare nel reparto di Terapia Intensiva del mio Ospedale. Da allora è passata diversa acqua sotto i ponti.
E’ un bel pomeriggio di giugno quando dal 118 arriva la richiesta di usufruire del nostro posto letto per un ragazzo di 23 anni precipitato da 10 metri. Marco, per l’appunto.
Marco è sempre stato triste, ce lo dicono i genitori. Fin dall’adolescenza soffre di una grave forma di depressione, dominata con difficoltà dai farmaci. Ha minacciato il suicidio più volte, senza mai provarci. Marco ha una sorellina. Oggi sembrava che fosse su di giri: dice al papà che gli piacerebbe fare una passeggiata con lui, quando rientra dal supermercato. Mentre il padre si avvia, Marco esce sul balcone e si butta.
I soccorsi sono tempestivi: l’equipe dell’elicottero arriva immediatamente, l’evento è pressoché di fronte all’elibase. 
In ospedale Marco arriva intubato, con la pressione più bassa del suo umore. Mentre i ragazzi della CRI lo passano dalla barella al lettino della shock room, Marco va in arresto. F., del Trauma Team pratica una toracotomia resuscitativa ed una splenectomia che sono seguite da un invio a razzo in sala per una revisione chirurgica ed un emostasi più approfondita. Il tutto coronato da un angiografia intraoperatoria che non evidenzia altri sanguinamenti.
Marco entra in reparto alle 15:00; prima del rumore dell’ambu, il monitor GE ci informa con il suo laconico “BEEEEEEP” che la PA è molto bassa (50/–). La linea verde dell’ECG danza veloce sotto il nostro sguardo: tachicardia sinusale, FC 150 bpm. La PVC è bassa, emoglobina e crasi ematica fanno ridere i polli, mentre a toccarlo Marco sembra un ghiacciolo. Le due anestesiste-galline della camera operatoria se la ridono e se la raccontano mentre spingono il mobilizer della CO. I loro risolini isterici non riescono a coprire la tensione e a mascherare il problema: se Marco è ipoteso, loro non sanno perchè. Nulla di cranico, niente di mielico. Perdite intraoperatorie corrette. Nulla dal drenaggio in emitorace sinistro.
Now, it’s our job: PiCCO, riscaldamento, gasanalisi venosa e arteriosa, lattati, emocromo, funzionalità epatica e renale, coagulazione, TEG, riscaldamento attivo, 7 french in femorale e Voluven come se piovesse. Con il consueto “savoir faire” G. coordina: adrenalina a 20 ga/kg, nora idem, vasopressina… non cambia un tubo. L’assetto emodinamico è pessimo: l’indice cardiaco è depresso, le resistenze inesistenti. L’ecocardio mostra un cuore complessivamente ipocinetico. Non pnx iperteso o tamponamento. Massa nobile a non finire, coagulopatia trattata come da manuale e anche di più, grazie al VII ricombinante. Tentiamo provvedimenti quasi fantascientifici: vasopressina, idrocortisone. 
Mentre qualcuno dice ECMO, V. propone di lasciarlo andare. Voleva morire, c’è praticamente riuscito. Non accaniamoci. Ma G. no, proprio non ce la fa a lasciare andare quello che fino a ieri era un bambino. Si legge nel suo sguardo. 
Andiamo avanti, l’addome si gonfia sempre di più. La IABP sempre più alta. Sanguinamento a nappo, dicono i chirurghi. Sarà, ma in quella Marco inizia a buttare anche dal drenaggio toracico, andiamo in emorecupero. Al monitor la stessa fotografia di ormai ore prima: 150 di frequenza, 50 di sistolica. 20 i lattati. Midazolam e remifentanil scendono lentamente erogati dalle pompe siringa nel tentativo di proteggere Marco dal nostro accanimento, nel senso buono del termine.
Sono passate 6 ore. Richiamiamo i chirurghi. Fino ad allora G. si era espresso parlando al plurale: “facciamo questo, istituiamo quell’altro…”. La mia collega L. è sfatta, anche S., stoico per anzianità e per credo, accusa i colpi del fallimento. Poi, ad un certo punto, intorno al letto, G. dice “Ragazzi, adesso vediamo se i chirurghi possono metterci mano: diversamente, STACCO tutto”. F., il chirurgo, dice che in sala con 50 di pressione non ce lo può portare. G. concorda e incassa, sempre più curvo, sempre più tirato. Si avvicina a noi e ci dice: “Ragazzi, basta”. Spegne le pompe della nora, dell’adrenalina, della vasopressina. Ferma i liquidi e il sangue. Passa Marco in pressure support, a FiO2% 21%. Aumenta Ultiva e Ipnovel. Ha gli occhi lucidi. Mi avvicino, e lo aiuto a spegnere, a chiudere. Non può, non deve, non vuole sopportare tutto questo da solo. 
Mi tolgo i guanti, prendo la mano di Marco, lo accarezzo sulla testa fino a quando il monitor GE inizia il suo concerto di allarmi. E’ finita.
In corridoio devo avere più o meno le sembianze di un lombrico. G. mi fa una carezza sulla nuca, ha quasi l’età per essere mio padre. 
“Andiamo a fumare?” Ma si, proviamoci, anche se oggi mi sa che una sigaretta e qualche lacrima non bastano a lavare via tutto ciò che ci è arrivato addosso.

Ultiva

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sulla strada

Posted by Riverrun on Novembre 15, 2009
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Notte come tante altre, fino a questo momento.

Suona il telefono, un sobbalzo, il sonno viene automaticamente ricacciato indietro all’estremo limite della percezione. Resta una leggera nausea ma di notte ci sono abituato.

Un codice rosso, mi viene riferito.

Fuori è freddo e mi vesto pesante.

Quasi una cerimonia, la vestizione, come prima di una tauromachia, solo più rapida.

Salgo sull’auto medica.

Si tratta di un incidente.

La tensione che si accumula silenziosa fra l’autista e me durante il tragitto. Rimaniamo in silenzio. La luce blu del lampeggiante che rotea intorno a noi, le nostre immagini debolmente illuminate riflesse dal vetro delle finestre.

Capiamo che stiamo per arrivare, vediamo automobili ferme e fanali in lontananza, gente in piedi sull’asfalto che ci fa segno. Ci facciamo strada. Apprensione ormai palpabile, diventa angoscia, gli occhi cercano, esco dall’auto.

Due persone coinvolte sedute sul ciglio, appoggiate ai platani, apparentemente in discrete condizioni.

Dentro l’ambulanza, mi dicono, c’è un’altra persona. Dalla voce concitata del soccorritore, dal linguaggio non verbale capisco che è grave.

Salgo sul predellino ed entro.

Mi chiudo la porta scorrevole alle spalle.

Sulla barella un uomo sulla trentina, robusto, agitato. Parla concitatamente sempre la stessa frase “Aiutatemi non riesco a respirare”. Non rimane fermo, gli arti brandeggiano come pale impazzite. Io, un assurdo Don Chisciotte contro i mulini a vento. In due non riusciamo a tenerlo fermo. Posizionare un accesso venoso è oltre l’orizzonte del possibile. Il sibilo continuo dell’ossigeno a tratti si affaccia alla coscienza. Ripartiamo subito. Mi chino su di lui per visitarlo, una mano mi afferra un avambraccio, faccio fatica a divincolarmi. Agli emitoraci solo movimenti preternaturali e paradossi, la mia mano quasi sprofonda fra il crepitio delle costole. La sirena sul tetto urla, la velocità è elevata, ci dobbiamo attaccare ad ogni appiglio utile nell’abitacolo, ma il tragitto sembra infinito. Lui continua ad agitarsi, le parole sempre più sconnesse. Manca poco ormai. Siamo sul viale. In fondo si vede l’insegna del Pronto Soccorso. Improvvisamente, smette di respirare, le membra si rilasciano e si accasciano senza più volontà propria, preda della forza di gravità e dei bruschi movimenti del mezzo. In una frazione temporale, da essere umano a cadavere. Mi rendo conto di avere il laringoscopio in mano, lo infilo fra gli strattoni e i sobbalzi nel laringe inerte.

Immagini mentali in successione rapida, intrusive, parallele a quanto accade nella realtà e destinate a non entrare mai in contatto con essa: flash delle ultime vacanze, una musica da camera in stile baroccheggiante mai udita prima, fulmini globulari di luci variegate.

In sala emergenza sarà tutto inutile. Il medico anziano, prossimo alla pensione, ne ha viste tante ormai, compila i vari moduli, la constatazione e il resto.

In sala d’attesa arrivano la moglie e la figlia adolescente. Resta da comunicare loro la notizia. Solo in quel momento mi viene voglia di piangere.

Qualche notte dopo, a casa, un sogno: mi manca l’aria. Mi sveglio sudato e boccheggiante. Una specie di contrappasso, sbiadita ricostruzione autogena di quanto doveva avere provato lui.

Riverrun

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una sera all’improvviso

Posted by Rachele on Ottobre 30, 2009
cronache / 1 Commento

Sono le 19 quando una fortissima esplosione vicina a casa mi ricorda che non siamo in un paese “normale”, il primo pensiero che mi assale è “speriamo che non abbiano ammazzato nessuno…”, l’ora è cruciale, dopo la preghiera si riuniscono le famiglie, si mangia tutti insieme, dopo un giorno intero di digiuno.
Le ambulanze partono e tornano con il loro carico di sofferenza, morte e speranza.
Un quarto d’ora dopo siamo in ospedale… i pazienti arrivano insanguinati, coperti di calce sono portati a braccia, a spalle dai parenti, dagli amici, da chi è sopravvissuto…
Più di 30 arrivano già morti e sono quasi 60 i feriti che arrivano in un’ora, con lacerazioni, fratture, traumi cranici senza speranza ma ancora vivi, altri con la faccia che sanguina, non riescono a respirare e non gridano, altri con addome duro come una pietra, ci sono anche dei bambini.
Non ci sono quasi donne tra i feriti. Probabilmente sono rimaste schiacciate sotto le macerie con i loro figli mentre si affannavano a preparare tutto per la festa, la cena tutti insieme, la gioia di ritrovarsi, madri, mogli, mariti, dopo un giorno di digiuno, per assaporare insieme il gusto di ciò che si è tanto atteso. Improvvisa è arrivata la morte che si è portata via vite, speranze, gioie che non ha guardato in faccia nessuno. Mi chiedo come si può fare questo ai propri fratelli, come si può arrivare a tanto, come può l’uomo essere così crudele.
Passo da una stanza all’altra dell’emergenza, dove regna il caos più pazzesco… vedo i chirurghi sporchi di sangue dalla testa ai piedi, si affannano a soccorrere i pazienti, cercano di capire chi è grave, gravissimo, chi è quasi perso, gli infermieri che incannulano, medicano, bendano gambe braccia, tanti pazienti, tanti parenti anche loro sporchi, pieni di sangue, hanno scavato con le mani per tirarli fuori.
C’è chi si lamenta, chi non ha più fiato in gola per lamentarsi, chi si sta soffocando nel vomito e nel sangue, chi non riesce a respirare.
In emergenza c’è un paziente che sta soffocando per la polvere e i calcinacci che lo ricoprivano, ha la testa aperta da una profonda ferita da cui esce materiale cerebrale. Sarebbe uno di quelli persi, ma non sta a me decidere.
Partono le barelle verso quel posto che pare risolva tutti i problemi… la sala operatoria dove non c’è Dio ma solo poveracci come noi che cercano di fare anche nel disastro più totale del loro meglio.
In sala c’è solo un infermiere anestesista, uno giovane entusiasta della vita e sempre pronto a scherzare. Cominciano a intubarne uno, poi un altro che pare già morto sul tavolo e lo diventa subito dopo. Mi rendo conto che in due possiamo fare ben poco perché non abbiamo ventilatori, e non possiamo rimanere attaccati ai pazienti per ventilarli altri richiedono il nostro supporto o valutazione. Arriva un bimbo con addome acuto, laparotomia. Intanto esco per vedere la situazione, mi viene incontro una barella con uno che urla come un matto con la faccia insanguinata che dice di avere mal di pancia. Finalmente arriva il mio collega medico anestesista, va a vedere in pronto soccorso, la situazione giù pare sottocontrollo, anche perché li hanno mandati tutti nel reparto di terapia sub intensiva, moribondi insieme a quelli che devono essere operati, i gravi con quelli meno. Insanguinati vanno e vengono dalla radiologia, i parenti sono i portantini. Arriva un sacco di gente, perché quando capitano queste disgrazie tutta la comunità si mobilita, c’è chi ha un camice ma magari è solo un portantino, ci sono più parenti di pazienti, tutti vogliono aiutare, tengono su le flebo, spostano i malati, portano le barelle. “E’ pazzesco – penso – questa gente è veramente incredibile: mezza città è qui, dopo tre ore dall’esplosione tutti i chirurghi e gli anestesisti sono arrivati, senza bisogno di essere chiamati”.
Il mio collega anestesista va in terapia subintensiva. Dopo un quarto d’ora lo vedo tornare in sala affranto, mi dice di andare di là che è un disastro non si capisce niente, tutti che muoiono, il chirurgo sta rifacendo il triage, sono tutti urgenti!! Pennarello indelebile scrivo le categorie e la diagnosi sulla pelle di ciascuno, pensando che dalla velocità in cui andranno in sala potrebbero essere vivi o morti.
Mi chiamano i parenti di una giovane donna che abbiamo operato 10 giorni prima per una craniotomia, una scheggia le ha perforato il cervello mentre era in casa a fare i lavori. Li conosco questi parenti sono dieci giorni che ci parliamo a gesti e sorrisi, sono delle brave persone, mi chiamano perché nel letto vicino a quello della sorella hanno messo uno che mi fanno capire non sta tanto bene, infatti è morto.
Un altro è nel letto in un bagno di sangue. E’ in coma, continua a vomitare e si sta soffocando, gli infermieri, i parenti mi guardano, come se potessi fare qualcosa. Ma cosa vuoi fare?? È uno di quelli con shock inarrestabile, magari non lo opereranno neanche. Ma si può lasciare un uomo morire soffocato? No non si può. Lo sedo lo intubo, lì al letto con tutti i parenti che mi guardano e gli do un ambu, lo ventilano loro, morirà forse ma almeno non se ne renderà conto.
Ci sono tante altre cose che potremmo aiutare a fare ancora, ma noi dobbiamo andare via, le regole di sicurezza non ci permettono di stare tutta la notte in ospedale.
Non riesco ad addormentarmi, mi assale un profondo disprezzo per il genere umano che riesce a compiere certe azioni, ma anche una ammirazione per tutti quelli che si sono mobilitati, i parenti, la gente comune, penso ai miei colleghi di questo sfortunato ma incredibile paese. Sì, penso a loro che staranno tutta la notte a farsi in quattro per salvare vite umane e non per il denaro, né per la gloria ma semplicemente perché sentono che è il loro dovere di uomini, di medici.

Rachele

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diversamente felice

Posted by Morris on Ottobre 20, 2009
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Ci sono giornate in cui ti senti in guerra col mondo intero, e in cui purtroppo il mondo sembra a un passo dalla vittoria finale.
Le nuove linee guida dell’ASL, la governance, la prossima settimana abbiamo la verifica per la qualità, oddio, saranno a posto tutti i documenti. “Dottore, ci sarebbe da adeguare il massimale dell’assicurazione professionale, perché sa, al giorno d’oggi…” “Dottore, sono la Benedetta, sto facendo i turni delle guardie per il prossimo mese e ho un bel po’ di fine settimana scoperti, mi dà una mano?”
Poi, lavorando in un ospedale, ti capita occasione di scoprire che in fondo molte cose di cui ti preoccupi sono futili, e che l’essere perennemente incazzato come il Dottor House non è un obbligo, ma una scelta, probabilmente la più facile e anche la meno coraggiosa.
Ieri l’ altro ci è arrivata in reparto, inviata dal Pronto Soccorso una paziente di quelle che contraddicono l’Harrison. Se si va a leggere l’illustre tomo alla voce “Sindrome di Down” si scopre che difficilmente i portatori di questa condizione raggiungono età avanzate, per il più rapido instaurarsi di patologie cardiovascolari e per l’accresciuta incidenza di malattie tumorali. La nostra paziente però, Down, sessantaseienne, non ha mai letto quel capitolo, e probabilmente nessun altro capitolo in vita sua, e, come il calabrone del famoso aforisma, a cui nessuno ha detto che con quelle alucce e quel corpaccione è impossibile che possa volare, ha svolazzato più o meno bene fino a questa età.
Fino all’incontro con una malaugurata “polmonite acquisita in comunità”, e adesso giace in un letto di ospedale, con un respiro superficiale e rantolante, e l’abbandono di una marionetta a cui qualcuno ha tagliato i fili. La visito scettico, guardo la parsimonia con cui il numero sale sul display del saturimetro e mi viene da pensare che questa paziente probabilmente non la ritroverò al giro di domani pomeriggio. Imposto ossigeno in maschera, antibioticoterapia ad ampio spettro, broncodilatatore, un po’ di cortisone che non fa mai male.
Fuori dalla stanza trovo un paio di signore non più giovani neanche loro. Mi dicono che sono le cugine “della mongolina”, e curiosamente in quell’appellativo non colgo scherno o disprezzo, ma solo affetto. Sono le uniche parenti ancora in vita, le uniche persone che si preoccupano di lei e la vanno a trovare nella RSA dove è ospitata. Spiego loro che la situazione è grave, che le prime ventiquattr’ore dopo il ricovero sono le più critiche, che purtroppo questi sono pazienti fragili, con risorse più deboli. Le solite menate, insomma. Capiscono, mi ringraziano, sono addolorate e preoccupate, ma fiduciose in noi e in qualche modo anche preparate al peggio. Trovarne, di parenti così.
Il giorno dopo quando entro in turno alle 14 noto qualcosa di strano in Reparto. Lì per lì non riesco a capire che cosa sia: sembrerebbe quasi…
No, è impossibile. Sembra proprio buonumore.
La caposala, che è sempre sull’orlo della crisi di nervi, ha un sorriso sulle labbra. Persino l’aiuto anziano, che da quando c’è il nuovo primario ha sempre l’aria di uno che viene a fare il giro con le scarpe di due numeri più piccole, sta canticchiando qualcosa a mezza bocca.
Già comincio a fare ipotesi sul possibile malfunzionamento dell’impianto di condizionamento che probabilmente mette in circolo un qualche anestetico, quando un infermiere mi fa: “Ehi, Doc, vuol farsi due risate? Perchè non va a dare un occhiata alla 320?”
La 320? Ma è la stanza della mia “mongolina”! Entro e non riesco a credere ai miei occhi.
La moribonda di ieri è sveglia e vispa come un grillo, e, abbracciata ad un enorme coniglio rosa di peluche, ride, ride di una risata limpida e contagiosa, puntandomi contro una sguardo pieno di gioia, della felicità di essere qui, di esserci adesso, più forte dell’Harrison, dei dottori presuntuosi e pessimisti, delle nostre idee preconcette.
E, diamine, è più forte di me, ma scoppio a ridere anch’io.

Morris

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Michel

Posted by il Cinque on Ottobre 11, 2009
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Il Pronto Soccorso pediatrico è pieno, come tutte le domeniche. E se dall’altra parte della porta giunge il vociare dei genitori innervositi per l’attesa e dei bambini divertiti per i pochi giochi della sala d’aspetto, da questa parte della porta il caldo torrido del pomeriggio estivo, il camice pesante di attrezzi e sudore, il cercapersone continuamente in funzione e lo stomaco ancora vuoto preannunciano altre 6 lunghissime ore di guardia. Per fortuna non sono sola. Oggi siamo in tre. Io e due colleghe, tutte tre alle prime armi e tutte e tre desiderose di imparare e di aiutare il prossimo.
Dall’entrata in servizio ci è passata davanti una sfilata di occhioni di tutti i colori e di tutte le fogge, tutti ad osservarci, chi con curiosità, chi con terrore, e tutti con un’incredibile dolcezza. Ed ecco comparire un altro paio di occhioni blu. E’ appena entrato Michel, un ragazzino francese di 14 anni.
Il volto è smunto e solcato da una discromia orbitopalpebrale di lunga durata, messa in risalto dalla guancia sinistra gonfia. I capelli sono biondissimi. Porta una giacchina jeans consunta, del tutto fuori luogo col caldo di oggi. Ma quello che ci colpisce è l’espressione dei suoi occhioni azzurri, che ci guardano tristissimi. Michel entra nella stanza senza dire una parola. La sua accompagnatrice è una educatrice di un campo solare, anche lei francese, che ci spiega che il bambino ha un forte mal di denti e che non mangia nulla da almeno due giorni. Gli facciamo chiedere perché non mangia e dopo una certa insistenza, superato un imbarazzo che percepisco essere profondo, il ragazzino sussurra di non riuscire a masticare più nulla. Scherzo con lui con le poche parole in francese che conosco, ma lui non risponde. E quindi lo visitiamo, io e le mie due compagne di avventura. L’ispezione del cavo orale mette i brividi: i suoi denti mostrano lesioni cariose spaventose, presenti praticamente ovunque. Sorridiamo a Michel, continuiamo a scherzare con lui durante la visita, come facciamo sempre perché il gioco ha un linguaggio universale, ma lui non intende partecipare. Non parla. Non sorride. Continua a guardarci con i suoi occhioni tristi.
Chiediamo spiegazioni all’educatrice, che in un inglese stentato ci spiega che il bambino è arrivato in Italia da poche ore, spedito in vacanza da una qualche associazione o da un assistente sociale. E’ riuscita a parlare con la madre la sera prima, venendo a sapere che il bambino soffre come un cane da giorni per il suo mal di denti. Cominciamo a capire. E già ci immaginiamo in quale situazione di disagio stia crescendo questo ragazzino triste e magro. Probabilmente anche malnutrito.
Impotenti, sappiamo che essendo domenica non riusciremo neppure a farlo visitare da un dentista. Gli prescriviamo un antibiotico e un antinfiammatorio, raccomandandoci di farlo vedere subito da uno specialista una volta tornato a casa. La donna dice che lo segnalerà alla madre e all’assistente sociale, ma ci rendiamo conto del fatto che Michel tornerà a casa e non verrà visitato da nessuno fino a che i farmaci maschereranno il dolore. Francia. Un paese occidentale. Non sapremo mai che fine farà Michel. Siamo abbacchiate. Tristi. Il nostro pronto soccorso, di domenica, offre solo questo a Michel: un paio di farmaci e tante raccomandazioni. Ma il prossimo paio di occhioni sta per entrare e dobbiamo salutarlo, dopo esserci accertate che gli vengano somministrati almeno i farmaci che abbiamo prescritto. La donna esce. Michel la segue, silenziosamente. Poi torna indietro. Ci guarda. E senza dire una parola dà un bacio sulla guancia a tutte e tre.

il Cinque

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