emozioni

Passo e chiudo

Posted by Magamagò on febbraio 03, 2016
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foto di HA

foto di HA

 

 

Mi mancheranno… i rumori sommessi dei monitors di notte e le luci azzurrate in modalità sleep che rendevano tutto un po’ fiabesco, facendomi sperare in un lieto fine…

Non mi mancherà scoprire che dovrò fare due turni in più a settimana perchè l’Azienda non sostituirà la collega in maternità…

Mi mancheranno le consegne mattutine, lunghe, corte, accompagnate dal profumo del caffè preso in fretta davanti al computer dove appare la cartella informatizzata …

Non mi mancherà l’apparente asetticità delle parole scritte al PC che sintetizzano, o dilatano, un turno massacrante in Rianimazione …

Mi mancherà l’orgoglio di vecchietta non tecnologica che per amore dei pazienti, e solo per loro, ha imparato a destreggiarsi nel mondo dell’informatica …

Non mi mancherà il chirurgo strafottente che non sa e non vuole riconoscere le proprie inadeguatezze, e dall’alto del suo metro e novanta pensa di aver ragione di me, alta un metro e un barattolo ma con tanta ragione da vendere…

Mi mancherà quella solidarietà di fronte ad un’urgenza, il momento in cui devi accettare anche umilmente il consiglio dell’infermiere smanicato che ne ha viste più di te e per questo ha la chiave giusta per aiutare il tuo paziente …

Non mi mancherà la rabbia di un’inchiesta assurda e immotivata, basata su luoghi comuni di magistrati ottusi, incapaci di comprendere che siamo un gruppo con un solo scopo: migliorare la situazione di una persona inerme che ci è stata affidata da Qualcuno che tutto sa …

Non mi mancherà di essere padrona del mio tempo, sempre sacrificando famiglia, affetti, sogni, al lavoro, agli orari impossibili, alla mancanza di levità nello svolgerlo…

Mi mancherà l’illusione di poter essere utile a chiunque possa aver bisogno di me, perché le sofferenze altrui sono sempre più importanti di me stessa…

Non mi mancherà il cinismo e l’indifferenza di chi ha scelto questa professione per motivi egoistici e di interesse …

Mi mancherà il rumore dei miei passi lungo i corridoi dell’ospedale, il brusio continuo di sottofondo, il cigolio delle barelle in movimento …

Non mi mancherà scoprire una volta di più che mancano le risorse, umane e tecnologiche, ma non mancano le buone idee, per cui bisogna fare salti mortali come al solito, e inventare nuove soluzioni possibilmente a costo zero…

Sono più le cose che mi mancheranno che le altre, per fortuna, e ancor di più col passare dei giorni me ne renderò conto, e sarà bello scoprire che le scelte fatte a vent’anni si sono rivelate, per me, vincenti; ma insomma, anche se continuo a sognare l’ospedale, anche se mi sveglio sempre alla solita ora anche senza sveglia, anche se lunedì o domenica non fa differenza … c’è poco da fare: SONO IN PENSIONE !

S’era capito ?

 

Magamagò

La morte è un viaggio?

Posted by supergiovan8 on gennaio 16, 2016
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“E vado via, vado via 

prendo il largo 
nessuno mi sentirà 

Vado via e insieme a me 
verso oriente 

c’é il sole che nasce la “

(Verso Oriente – Timoria)

 

Dopo una domenica in famiglia purtroppo caratterizzata da un paio di screzi, che mi hanno demolito il morale, e un pisolino di quattro ore è giunta l’ora di montare notte. Fuori piove a dirotto e il vento ulula peggio di un coyote.

In guardiola c’è la collega del pomeriggio che mi accoglie sorridente. Lei ormai qualche mese fa mi ha accolto e fatto amare la cardiochirurgia e credo rimarrà a lungo un punto di riferimento. Ora la mia giornata cambia un po’ e mi sento più tranquillo, meno incazzoso.

Mi racconta della serata precedente trascorsa con la famiglia quando a un certo punto, spiazzandomi, a caso nel mezzo del discorso, fa: “…ah è morto Tizio! Emotorace massivo, han provato a rianimarlo in stanza tendandole proprio tutte ma non ce l’ha fatta!”.

Bestemmio a bocca chiusa. Una sensazione di disagio mi pervade. Sono allibito, incredulo, ancor più incazzato.

Ieri, poche ore dopo che era salito dalla rianimazione, lo salutavo mentre gli mettevo su un Lasix in 250. La moglie mi chiedeva se andava tutto bene e dopo averla rassicurata salutavo lei, il figlio e mi davo appuntamento alla sera successiva con quell’uomo, quel fratello, quel marito, quel padre sempre in quella stanza, dove sarebbe stato adornato da qualche tubo in meno.

Ora, invece, c’è una famiglia che piange e un padre, un marito, un fratello, un uomo in meno. Questo è terribile e ingiusto. È terribile questa precarietà. È terribile la malattia e in questa notte mi viene da odiare un po’ l’ospedale, quest’ultimo capro espiatorio di un male invincibile.

La malattia è ingiusta e terribile, ma è.

La notte è quasi finita. Il vento fischia ancora come per accompagnare più velocemente la sua anima in un luogo adeguato. Lo spero tanto.
Il sibilo, però, è anche per me, per non farmi sentire troppo solo in una notte troppo calma, troppo lunga, troppo dura.

Mai dura, però, come quella di quel fratello, quella moglie, quel figlio a cui il fato ha strappato un affetto gigante senza che nemmeno si immaginassero che la sera prima lo avrebbero salutato per sempre.
Il colpo di grazia arriva mentre faccio i prelievi: tra le tante provette ci sono ancora le sue.
Prima di cestinarle un po’ di mal di stomaco e un’ultima considerazione: ieri la mia giornata è stata decisamente fantastica.

Addio uomo, addio fratello, addio marito, addio padre.

Supergiovan8

Ora so

Posted by folfox4 on luglio 22, 2015
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Ora so.

Attraverserò ogni giorno

come se fosse l’ultimo.

Il viaggio è iniziato.

I cavalli neri

sono in testa.

Un sottile brivido

freddo

mi accompagna.

Il sole

ha iniziato a scendere.

Anche se ancora caldo.

Ora so

dove sto andando.

Tutto è ora chiaro.

Gli abiti per presentarmi

erano già pronti

d’altronde.

I bambini giocano

a pallone nel campo

ora so che il tempo

Si misura per secoli.

 

Folfox4

“….Signor Michele “

Posted by Il Barelliere on luglio 09, 2015
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foto di EP

foto di EP

 

Eccoci.

Sapevo che prima o poi questo momento sarebbe giunto. E sebbene sarà una costante nel mio prossimo futuro, vista la facoltà che ho intrapreso, la prima volta non è mai facile da affrontare.
Le mie mani, una sopra l’altra, come da manuale, comprimono il torace del signor Michele. 27…28…29…30…aspetto che il capo equipaggio, alla testa, esegua le due insufflazioni con l’ambu e poi di nuovo a massaggiare 1…2…3…4… Maledetti capelli lunghi! Continuano a cadermi davanti agli occhi ad ogni compressione toracica. Dove cazzo ho lasciato la fascia per raccoglierli!? Ma soprattutto perché sto torace non scende come sul manichino!? Aumento l’intensità del massaggio.
“Lascia stare; ormai lo sterno è completamente sfondato, è per quello che ti sembra di non massaggiare abbastanza. Continua pure con il ritmo di prima che andava benissimo” mi dice Marta, con tranquillità .
In effetti sappiamo benissimo entrambi che, se anche ora interrompessimo le manovre di rianimazione, non cambierebbe nulla lo stesso. Il signor Michele è morto.
Quasi sicuramente lo era anche all’arrivo della prima ambulanza, composta da due soccorritori: sono loro ad aver iniziato i tentavi di rianimazione, ma essendo solo in due, hanno dovuto aspettare il nostro arrivo per trasportarlo in ospedale. Sono andati avanti almeno per mezz’ora, il defibrillatore semiautomatico ha effettuato 11 analisi, nessuna delle quali seguita da alcuna scarica.
Non sono un medico ( non ancora almeno) , ma non è difficile ipotizzare che il signor Michele è in asistolia : il suo cuore ha smesso di battere da parecchio tempo e nulla potrà farlo ripartire.

Così mi ritrovo qui. Un sabato sera di Gennaio, su un ambulanza che corre a sirene spiegate tra i palazzoni popolari del sud-Milano, a massaggiare un cuore che non riprenderà più a battere. Lo sappiamo tutti : Io, il capo equipaggio e l’autista e forse lo sa anche il signor Michele. Ma non per questo io smetto di comprimere quel torace, Marta di insufflare aria nei polmoni o Matteo di fare lo slalom tra le auto nel traffico. Non tanto perché non possiamo legalmente constatarne il decesso, ma perché in fondo, compiendo quei gesti, codificati, protocollati ripetuti fino all’automatismo, non abbiamo il tempo di pensare…pensare alla morte.
Già…la morte…ma che cos’è in fondo la morte ? Ne siamo quotidianamente circondati, ne sentiamo parlare ovunque: giornali, televisioni, libri…fateci caso ! Non passerà un giorno in cui voi non sentiate, almeno una volta, parlare di morte. Ma finché questa rimane confinata sulle pagine di un quotidiano o dietro uno schermo, non ci scalfisce; certo possiamo rimanerne sconcertati, rattristati o addirittura indignati, ma non siamo in grado di percepirne la profonda tragicità. Davanti alla morte tutto si sgretola : sogni, certezze, speranze…non tanto in chi ormai è già morto, ma in coloro che vi stanno assistendo.
Oggi mi sono reso, forse per la prima volta conto di quanto, nonostante tutti i nostri sforzi per camuffarlo, siamo esseri infinitamente fragili e soprattutto mortali.

Non so che senso abbia la vita, in che modo vada vissuta, e francamente queste domande mi angosciano terribilmente. Non so neanche se sia normale porsele a 20 anni, mentre si finisce di ripulire una barella sulla quale è appena morto un uomo.

Per ora so soltanto una cosa, forse cinica voi direte. Ma allo stato attuale, non posso far altro che ringraziare il Signor Michele: è stato il primo infatti a mettermi faccia a faccia con la morte ed ad insegnarmi come affrontarla.

Il Barelliere

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Ultima notte di guardia

Posted by supergiovan8 on maggio 21, 2015
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Foto di PB

Foto di PB

 

Ultima notte di vita di una centrale operativa

Qui dentro sono state combattute e coordinate tante battaglie, dalle più banali alle più difficili.
Ogni operatore ci ha messo la testa, il cuore e anche la schiena per portare a termine ogni missione con professionalità, avendo sempre come obiettivo il bene per l’utenza.
Ogni tanto sarà sembrato di aver perso ma una missione andata bene cancella la tristezza di 100 negative (forse non sempre…)!
Tante persone hanno affidato completamente la loro vita, quella di un caro o di un perfetto sconosciuto a “ignoti” che dietro a un telefono avevano il potere, e l’onore, di provare a portare la vita a chi, in quel momento, ne aveva bisogno, infondendo speranza e istruendo persone digiune di qualsiasi nozione clinica a valutare il paziente per fargli poi eseguire manovre salvavita, spesso non procrastinabili.
Questi “ignoti”, poi, come per magia si materializzavano in pochi minuti e prendevano in mano le redini del soccorso, infondendo ora qualcosa di più concreto per poi scappare in tutta fretta, come se si trattasse di un rapimento.
Questi “ignoti”, ora, arriveranno ancora in tempi supersonici a soccorrerci però non risponderanno più loro al telefono, il che non è poco!
I nostri ignoti, che hanno fatto la storia del 118, non solo provinciale, veglieranno comunque sempre su di noi, nei giorni più caldi e nelle notti più lunghe.
Grazie di tutto!

supergiovan8

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Davide

Posted by Labile on aprile 25, 2015
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Foto di HA

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Con questi miei occhi azzurri filtro le immagini come dall’acqua del mare, ogni leggera increspatura, ogni piccola onda. Il lampo e il tuono, le foglie strappate dal vento.
Le urla dei bambini in un giardino, le api pascolare sui fiori. L’abbaiare di un cane lontano.
Il sordo borbottio e il soffio osceno del metrò in arrivo.
I mille aggettivi miserabili di una vita per tutti normale.
Allargo gli occhi perché è la cosa che so fare, che ancora posso fare.
Entrano come schiere di uccelli le immagini e con esse il movimento evocato, il sufficiente respiro che ancora posso ottenere dal mio petto.
Leggero, sì, come l’assillo del poeta al risveglio del mattino.
Io che dal giornale leggo e non giro nemmeno una pagina.
A malapena me lo sistema il primo che passa, strategicamente piego il collo se si sposta, fino al prossimo aiuto.
Spalanca la finestra, amico che passi, fuori è già primavera.
Non sento il freddo, vedo solo la luce inondare il prato verde smeraldo, ci annuncia una felicità non più sappiamo.
Moltiplica gli occhi e non temerne la follia che essi sanno contenere e distingui quello che fai, quello che dici, quello che pensi, quello che mangi, quello che respiri, quello che cammini, quello che ami, dall’abitudine del farlo.
Il corpo malato, il mio corpo malato agisce per sottrazione. Senza forza allontana se stesso in isole lontane.
Resto così nei posti dove il mio occhio mi conduce.
L’isola trovata, profumata delle mille e mille mie primavere, il mio Paradiso Perduto.

“Uno spirito è con lui che non si cangia
Per loco o per età, giacché lo spirito
A se stesso è dimora, e può del cielo
Farsi un inferno, e dell’inferno un cielo.”

John Milton (1608-1674) Paradiso Perduto

Labile

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Mai avrei pensato…

Posted by Mentepreziosa on aprile 12, 2015
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Foto di NC

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Mai avrei pensato che sarebbe stato per uno di loro che avrei scritto: uno di quelli che ci mandano talmente complicati che, per consentirgli di sopravvivere, si dovrebbe iniziare a ricostruirli dalla A e finire alla Z. Però non c’è abbastanza tempo. Uno di quelli che arrivano da sconosciuti, con parenti incapaci di raccontare, disattenti, trascurati, incoscienti o soli, con la propria storia dentro la loro bocca chiusa o dentro la loro mente chiusa: lui, laringectomizzato da epoca imprecisata, cachettico, quasi sordo e quasi cieco, brandiva il suo “microfono” con le manine secche e ossute solo per comunicarci con voce da E.T. che aveva male alla schiena. Ma tanto male. E che “Graziella era andata al bagno”: Graziella, l’amore di una vita, mancato l’anno scorso o la nipote?
Lui, talmente magro e asciutto che, a parte i tofi disseminati ovunque, nulla sporgeva del suo corpo. Lui che da (quanti?) giorni non mangiava e non beveva più, che da (solo?) due giorni non urinava più, che (chissà da quanto) pativa una fimosi serrata e dolori atroci e che (forse) aveva perso sangue con le feci. O forse era caduto nei suoi faticosi cambi di posizione. O forse semplicemente era caduto nelle mani sbagliate, che avrebbero dovuto guardarlo, visitarlo, ricoverarlo una settimana prima, almeno, per reidratarlo, nutrirlo, indagare sul perché di quel dolore. Lui, cui non sono bastati litri di liquidi a sostenergli il circolo; che sopportava un 28 di glicemia e un 33.4 di temperatura meglio di chiunque altro abbia visto finora; lui, con esami di laboratorio che definire schifosi sarebbe stato un eufemismo; lui che alla fine, dopo quattro ore, ha smesso di parlarci, lo sguardo fisso, il respiro impercettibile, il cuore spinto solo dalla noradrenalina. Lui che, con la sua manina aguzza e ritorta, quando già il colorito era cambiato e non rispondeva piu’, tentava forse ancora di tenersi aggrappato o forse di lasciare la nostra presa.
Non credevo che sarebbe stato lui a costringermi a scrivere, finalmente: pensavo sarebbe stato uno dei miei pazienti, uno tra quelli che avevo accarezzato e tentato di rassicurare per giorni, dopo la comparsa dei primi movimenti afinalistici; uno tra quelli che con il loro sorriso sdentato mi avevano riempito di consolazione perché “quando vedevano me, vedevano la loro speranza”; uno tra quelli cui avevo stretto forte la mano per salutarli, sapendo che la prossima volta che li avrei visti sarebbe stata solo per accompagnarli, perché non volevano morire a casa ma in mezzo ai loro dottori; uno tra quelli che avevo visto dimagrire, sanguinare, cadere, lottare, sorridere, piangere, gridare e infine chiudere gli occhi e smettere di respirare.
Invece è stato proprio lui che, con quella sua manina artigliata, mi ha pizzicato il cuore al punto da non poter più dire che avrei scritto la prossima volta, un’altra volta, perché in fondo non ho niente di speciale da dire, niente che non sia stato già visto, già detto o già scritto.
Ma non riesco ad abituarmi. E soprattutto non voglio farlo.
Non posso dimenticare quella manina.

Mentepreziosa

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Autoprotezione

Posted by lunasioux on marzo 01, 2015
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foto di HA

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Quest’anno sono stata brava. Come compagna, sorella, zia, figlia, amica o collega non saprei. Ma come soccorritore sì, molto brava: lo sa Babbo Natale che mi ha fatto un regalo. Una divisa nuova, nuovissima, non di seconda o terza mano come le altre; questa è una tuta quasi fashion, più arancione che mai, più “performante” che mai, più leggera che mai.

E’ di un materiale tecnico, con rinforzi e protezioni su gomiti e ginocchia, senza pezzi strani sulle spalle che rischiavano di farmi rimanere impigliata, con dodici-tasche-dodici contate solo tra pantaloni e giacca…: insomma, vista così dovrebbe proteggermi al meglio.

La indosso, regolo la cintura, mi specchio e mi vedo quasi carina. Effettivamente è comoda, mi permette movimenti agevoli, pesa molto poco; mi hanno assicurato che sarà fresca d’estate: i miei Capi sanno quanto io non sopporti il caldo. E contando che nella mia grande città fa davvero caldo al massimo per due mesi ma al contrario il freddo, la notte, già da ottobre si fa sentire, beh, è fondamentale che la nuova divisa mi tenga fresca per quella dozzina scarsa di turni estivi che farò. Come del resto non apprezzare le dodici-tasche-dodici dove mettere guanti, biro, piletta, cellulare personale, cellulare di servizio, carta per appunti, documento di identità, memo operativi: sarà divertente perdere una manciata di secondi per aprire quella giusta, di tasca, dove il cellulare suona “e-speriamo-sia-la-sede-e-non-la-centrale” e io avrò un attacco di panico da ritardo nella risposta. Ripensando poi a tutte le volte che sono rimasta impigliata in porte di ingresso, cancelli, serrande, lamiere contorte, abitacoli deformati, rami di alberi o pali divelti devo ammettere che la giacca fatta così è davvero una sicurezza in più. Come lo sono le protezioni nere all’altezza di gomiti e ginocchia che mi permetteranno di strisciare senza pensieri in cunicoli mal illuminati, mal frequentati e con ogni specie di rifiuti pericolosi che potrebbero altrimenti farmi male. No, però queste protezioni mi piacciono: il nero spezza il monocolore arancione e la mia divisa assomiglierà un pochino, tanto pochino, a quella dei mitici equipaggi delle Alfa.

Vorrei che questa divisa così nuova mi permettesse di scendere negli angoli bui e remoti della mia città, cosi insospettabilmente prossimi ai miei percorsi diurni e distratti, e risalire senza portarmi dentro il peso opprimente di quelle esistenze nascoste, deragliate dai binari della nostra “normalità”.

Vorrei trovare sull’etichetta interna un simbolo che mi sveli a quale temperatura e con quale tipo di lavaggio rimuoverò sofferenza, paura, disperazione di quelle vite altrui che incontrerò per caso e che in una qualche piega del mio io rimarrebbero altrimenti impresse.

Vorrei che la mia nuovissima tuta arancionera mai facesse vacillare quel senso di estraneità e distacco che mi protegge dai mali degli altri.

Continuerò a entrare nelle case e nelle vite altrui, mi imbatterò in una serie indistinta di voci e visi di cui terminato il servizio non saprò più nulla; medicherò, allerterò, chiacchiererò per distrarre, stringerò mani, ventilerò, massaggerò, sorriderò simulando certezze che non ho, mi arrabbierò, piangerò e riderò; incontrerò ancora anziani con lo stesso sguardo sgranato di bambini, visi sgomenti e disarmati di chi è stato derubato delle certezze che tengono ancorati alla vita, volti composti della paura, sorrisi timidi e pudici, gioia incontenibile, rabbia disperata, dignitosa e disarmante solitudine.

A loro, a tutta la varia umanità che incontrerò, sarò grata per ricordarmi la mia vulnerabilità e per regalarmi, seppur inconsapevolmente, gli strumenti per affrontare quella paura che, prima o poi, ci coglie tutti.

Lunasioux

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Quanti talenti avrò?

Posted by supergiovan8 on febbraio 24, 2015
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foto di PB

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Stanotte non ho salvato nessuno. Dannazione. E proprio mentre scrivo questo pensiero suona l’ultimo campanello a cui fa subito eco la NET al termine nell’altro corridoio… dannazione anche a lei!

Ma torniamo al punto della faccenda: questa notte non ho salvato nessuno! Terribile secondo me, molto meno per la collega e per i pazienti. In realtà non è un dramma nemmeno per il sottoscritto però, dai… “però, dai” un cavolo! Meglio così.

Ogni giorno, sia per la mia inclinazione, sia per evadere dalla cronicità di questa unità operativa, mi immagino il mio futuro in rianimazione come se potessi già sapere come sarà. È strano poter immaginare il top della propria carriera e nel frattempo ricordarsi che o andrà come voglio, e in questo caso sarà una figata, oppure non andrà come immaginato, e per ora non ci penso. Non ci voglio pensare.

Intanto guido nella nebbia verso il mio lago, penso alla paella di stasera, alla sciata in programma fra qualche giorno e ripenso: stanotte non ho salvato nessuno però stasera mangio il pesce e fra tre giorni ho una rara domenica libera. Piccole gioie a breve termine s’avvicinano, ma non basta: io voglio salvare qualcuno!

supergiovan8

Grazie.

Posted by Ungiovanequasiinfermiere on novembre 27, 2014
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NC grazie

 

 

Le notti di guardia spesso sono davanti a dei libri. Sono davanti ad uno schermo di un computer. Davanti ad articoli in inglese da tradurre. Sono davanti ad una tesi a cui mancano solo i ringraziamenti.

Non so quando ho scoperto di preciso questo blog. Ne il come. Ma l’ho trovato subito vero. In tre anni di università cercano di formarti a fare le cose più disparate ma non ti educano a vivere la malattia, la sofferenza, la gioia di lavori come questi. Qui ognuno è il protagonista di una storia. Qui non ci sono gli eroi ma nemmeno gli arrendevoli. Qui ho incontrato uomini che aprono il cuore e la mente e la spalmano con una capacità professionale su quel foglio bianco di Word. Qui non esistono le frasi fatte del tipo “l’assistenza è un arte” o “il sorriso è la miglior cura”. No.

Qua si scrivono storie vissute in ospedali di tutta Italia (e non solo) e ritrascritte la mattina, di pugno, con ancora addosso l’odore di plastica mischiato a quello del caffè che piano piano sale. Ed è questo quello che queste storie mi hanno trasmesso.

Le ho lette tutte (più o meno) tra le notti passate in tirocinio e i momenti liberi e da ognuna ho imparato a coltivare le situazioni che vivevo. A non lasciarle scivolare via dalla mente come se non fossero mai esisite. Ma nemmeno a farle diventare un peso per la mia vita.

Qui ho imparato che le storie possono servire a crescere professionalmente e umanamente. Che dietro ad un camice o ad una divisa ci sono grandi poeti e scrittori. Che le emozioni è meglio imprimerle sulla carta.

Quindi tra i ringraziamenti che devo ancora terminare in questa notte di guardia e studio, ci siete tutti voi. Voi coi vostri pseudonimi più assurdi. Voi che vi calate dagli elicotteri o siete da sempre in geriatria. Voi che uscite stravolti dalla sala o che cercate di capire la cura migliore. Voi che magari incontrerò lungo il mio percorso senza sapere chi siete.

Grazie. Per ogni singola storia.

ungiovanequasiinfermiere