Tra Me e T(h)e

Scritto da Bellerophontes il 26 Giugno, 2012
cronache / 2 Commenti

Ci sono momenti, camminando per il girone infernale che è il “logistico” del pronto soccorso di un grande ospedale in cui, uscendo per la tua meritata e nociva sigaretta delle tre del mattino, un attimo prima dell’alba, ma ancora troppo vicino alla notte, la scienza si arrende all’umanità, alla paura di chi soffre, segretamente intersecata alla tua di fallire.

C’era V.

Siriano, lineamenti nobili, antichi, gentile nel parlare, seguito dai servizi psichiatrici.

C’erano i rossi, la battaglia da vincere in cinque minuti (se va bene), ma c’erano anche verdi, come V.

La sua bottiglietta di the era caduta nel canale e lui a ruota per recuperarla, fa caldo hai sete e l’acqua serve due volte quando cammini in un paese che non conosci, di cui non conosci la lingua, e dove molte persone avranno approfittato della tua situazione per toglierti quella già poca fiducia, incarcerati dai buoni, sfruttati dagli stronzi.

V. voleva solo la sua bottiglietta di the; quando i pompieri lo hanno estratto dal canale la brandiva come un trofeo.

ANAMNESI/EO: pz pallido, ipotermico, rispescato dopo mezz’ora dalle gloriose acque del B. Temperatura rettale 35, iperteso (ok non morirà qui) e…

ma questo non lo trovi sui libri di semeiotica, uno sguardo di chi nel dolore e nella malattia, lascia trasparire solo il bisogno di aiuto.

Si alza, barcolla e non è il Diazepam, è la vergogna. La vergogna di chi è caduto in un fiume che francamente puzza di merda. Pare un quadro, un erede di una tradizione millenaria di fughe e persecuzioni, di violenze inaudite a tre ore di comoda business class da questo ospedale.

Torno.

V. non è più sul suo lettino, è stato spostato, sapete c’è chi ha la Porsche fuori ed è piuttosto seccato perché i suoi bizzarri compagni di sala d’attesa non sono proprio il tipo di personaggi con cui si accompagna. (anche se forse alcuni li incontra ogni sera per essere più bravo, più attivo e produttivo la mattina, mah…)

Mi avvicino e vedo che ordinatamente, con garbo appoggia i suoi luridi vestiti sul termosifone -spento- nella speranza che si asciughino.

“V, ma perché li metti ad asciugare li!?”

“Non ne ho altri dottore, domani lavoro e non posso permettermi di perdere il lavoro”

“E perché perdi il lavoro V.?”

“Perché fa freddo e mi ammalo, non possiedo altri vestiti né una casa”

Io e te, V. condividiamo più del 99,5 % dei nostri geni, delle nostre vie biochimiche, della nostra fisiopatologia.

Lo condividiamo anche con il povero vecchio dall’ospizio col suo bel tappeto di batteri nelle urine, con il professore con la colica renale, con il tossico che ha bisogno di un po’ di metadone, morfina, contramal, tachidol, che comunque non gli daremo.

Ma tu non hai bisogno di questo: una coperta di lana, i vestiti in sala lavaggio e, meglio del diazepam, qualcuno che si siede al tuo letto ed è disposto ad ascoltarti, instaurare un rapporto umano semplicemente dandoti di che coprirti ed un the caldo, come solo le infermiere dolci e bellissime di certi ps sanno fare. Dormi V., io sto smontando dalla notte, un tuo ultimo sguardo, lungo, silenzioso, il tuo sorriso ha il sapore della gratitudine, il mio…beh il mio non lo so, dimmelo tu.

Bellerophontes

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Flash nel buio

Scritto da Raven il 11 Giugno, 2012
emozioni / 4 Commenti

Te lo sei chiesto. Te lo chiedi di volta in volta, ad ogni turno, ad ogni paziente, ad ogni paio di occhi che incroci sulla tua via.

Eppure, dopo anni tra corsie ed ambulanze ancora non lo vuoi capire, o più semplicemente, non ti arrendi.

-Respira?-

No, ovviamente. E cosa diamine vuoi che respiri uno che è in arresto da almeno sette minuti, dottore?

Quel torace che speri si sollevi spontaneo all’improvviso, lo stesso che tu, per assurdo, in quel momento stai comprimendo verso il basso, con così tanta forza da sembrare quasi di volerlo schiacciare sotto la tua mano, così grande su un petto che ti sembra troppo piccolo per poterla contenere.

Gli ossimori di questo lavoro, gli ossimori della vita stessa.

Un attimo prima stai scherzando con i tuoi cari, un attimo dopo è il destino che fa uno scherzo a te.

L’ambulanza che arriva a sirene spiegate in quella folle lotta contro il tempo e contro il buio, noi che lottiamo insieme a te e ti chiediamo di non arrenderti proprio adesso.

Tu mi guardi per un attimo, il medico ti infonde l’ennesima adrenalina, il monitor bippa, tutti che si muovono frenetici intorno a te, io che non mi fermo e continuo a lasciarti i segni delle mie mani così grandi.

Non posso fermarmi adesso che ci stai guardando, non posso permettere al buio di prenderti ora che la luce è tornata nei tuoi occhi.

Abbiamo vinto insieme questa dannata corsa, oggi?

Cerchi di alzare un braccio, poi ci ripensi: rimane sospeso a mezz’aria per qualche attimo in silenzio, finchè non ricade abbandonata sul letto.

Il medico urla che vuole altra adrenalina, altra elettrolitica e altro di altro di tutto, ma è passata più di un’ora e il braccio è rimasto sempre così, immobile nella posizione in cui l’hai lasciato tu.

È calata la notte anche stavolta.

Raven

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Come vacche sacre gonfie di pianto

Scritto da massimolegnani il 28 Maggio, 2012
emozioni / 2 Commenti

Sono brutte e sfatte le donne, appena partorito. Sudano in gennaio e tremano d’estate, pallide sempre, in un travaglio che non ha mai fine.
Le contrazioni, ondate di dolore come una mareggiata, la paura di schiantare, la dignità che sfuma, le urla all’aria che squarciano la pelle.
Le conosco tutte le stazioni di questa viacrucis, antica più di Cristo, la via della passione da cui passa la sofferenza di ogni donna.
L’episio, il parto, poi la placenta espulsa con l’ultimo conato e infine la sutura a carne quasi viva e quasi morta.
Sono stravolte le donne, appena partorito. Escono da quella sala malferme sulle gambe, sorrette da uomini che tremano e qualche volta svengono, gli uomini. Le donne invece s’accasciano sul letto, vorrebbero dormire, dimenticare di essere famiglia, che i mariti sono troppo goffi e troppo dolore i figli. Tornar bambine, essere altrove.
E invece arrivi tu, candido giudice malevolo, ad annunciare la pena del dolore aggiunto, che non tutto è andato per il verso giusto.
Si scusano di piangere le donne, appena partorito. Si alzano dal letto frastornate e vanno, più vecchie di vent’anni, incontro al figlio nuovo che già si trova appeso a un filo.

Infagottata
in una vestaglia
di lanetta stinta
la donna sta
immensamente sola
piegata ai vetri dell’incubatrice
come una colpa che non è.

massimolegnani

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Solstizio d’inverno

Scritto da TNT69 il 15 Maggio, 2012
emozioni / 2 Commenti

Che strano, leggo i vostri racconti e poi mi soffermo sulle mie notti.

Voi tutti parlate di notti in cui i campanelli suonano, di monitor accesi, di vite da salvare, di lotte infinite per poter arrivare in pronto soccorso in tempo per non morire. Se arriva una chiamata o suona un campanello l’adrenalina va alle stelle, ci si prepara per l’incognita, cosa dobbiamo fare? Chi incontreremo? Cosa troveremo? Pronti all’impossibile.

Da me invece le notti sono per lo più calme, adrenalina molto poca e spesso messa in circolo più dai parenti in ansia che non dai pazienti. Quando suona un campanello si sa quasi sempre cosa ci aspetta…e a differenza di tutti voi noi non lottiamo per salvare la vita, la accompagniamo, ci sediamo accanto, cerchiamo di dare un senso a quell’ultima fase che qualcuno deve pur seguire.

Il mio direttore, pochi giorni fa, dopo la morte di un ragazzo di 11 anni, ha detto che facciamo un lavoro contro natura, mentre tutti salvano vite noi le accompagniamo alla fine senza tentare di salvarle, lo vorremmo, quante volte vorremmo che le cose non finissero così… Quanto senso di impotenza con cui fare i conti quando finisce una notte tranquilla dove avresti voluto salvare, ma hai dovuto accompagnare e dare/ darti un senso per la morte di un figlio giovane, di una madre o di un padre che lascia i suoi bimbi, un marito o una moglie con cui si è condivisa una vita. Molti non lavorerebbero mai qui, ma dopo 10 anni io scelgo ancora di starci, perché di preciso non lo so, credo che cogliere l’ultimo respiro di un essere umano ha un qualcosa di sacro, di unico e sicuramente ha un senso che non capisco ma che sento nel profondo e che mi da motivazione a continuare…e… la Croce illuminata della Chiesa di fronte a noi ( sarà un caso? ) mentre la notte volge al termine mi conferma nel profondo del cuore che un senso c’è.

TNT69

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Non lo so

Scritto da Bruno il 25 Aprile, 2012
emozioni / 5 Commenti

Non è molto che lavoro in terapia intensiva ed ancora non riesco, e non so se ci riuscirò mai, a mantenere una certa distanza da te, che dall’altra parte del letto dove abbiamo messo tua moglie mi subissi di domande a cui non so dare risposte.

Non riesco a darti risposte, non perchè sono un infermiere e non posso comunicarti diagnosi, non perchè non conosca i meccanismi che hanno portato tua moglie da una banale febbre alla morte cerebrale, passando attraverso una meningite fulminante; non riesco a darti risposte perchè tu e tua moglie avete la mia età ed è difficile capire e farti capire come si possa morire per una febbre a trent’anni. Già da ieri mi ero fatto una idea di quale sarebbe stato il destino di tua moglie, ma non potevo dirtelo e quindi dovevo nascondere pensieri ed emozioni che avrebbero confermato quella sensazione che mi dici sentivi nella pancia.

Come ho visto fare da colleghi e medici, inizio ad usare termini medici come edema cerebrale, potenziali evocati, elettroencefalografia, che mi servono per continuare a parlare, perchè ho una paura fottuta che tu, inizi a dire quello che provi e che metta a nudo il mio senso di inadeguatezza, che tu faccia entrare in me il tuo dolore.

Forse il mio guscio è ancora troppo morbido, ma 5 minuti dopo le tue parole mi sommergono come un fiume giallo e denso nel quale non riesco a stare a galla, ma solo ad affondare sempre di più.

Ed il tuo dolore diventa anche mio, in un secondo i corsi su comunicazione diagnosi infauste, supporto ai parenti, distacco professionale, vengono cancellati come petali di ciliegio da un colpo più forte di vento.

Non riesco a guardarti negli occhi mi vergogno troppo.

Non posso neanche immaginare quanto tu stia male.

Mi chiedi perchè il linguaggio comune e quello medico siano così diversi, se uno ti dice che stanno provando a svegliare qualcuno, ti immagini che ci sia un miglioramento e che forse l’altro si sveglierà, non pensi che sia un test per valutare la gravità di un danno al cervello; se ti dicono che la situazione è stabile, pensi che la situazione non si sia aggravata, non che non ci sia più nulla da fare. Mi chiedi cosa ne sarà della tua vita di domani, come farai col vostro figlio di 4 anni, a cosa starà pensando tua moglie in questo momento, se può sentire la tua voce, se può percepire il tuo bacio sulla fronte.

Non lo so.

Mi dispiace.

Lei mie risposte perdono senso, ti sto rispondendo col cuore in mano e a fatica riesco a non farti notare il nodo che non permette all’aria di gonfiarmi i polmoni.

Esco dalla stanza, ma non riesco a smettere di pensare a quanto fragile sia il filo che tiene due persone che si amano insieme.

Finisco la guardia, tu hai deciso con un gesto di infinito amore di far vivere tua moglie nel corpo di altre persone che stanno male.

Torno a casa, spero che dimenticherò tutto e vado a dormire.

Al mattino davanti allo specchio di nuovo i polmoni non vogliono saperne di gonfiarsi e le lacrime escono senza nessuna smorfia del viso. Sento qualcosa dentro che non sarà più come prima, come se tu avessi scritto direttamente sulla mia anima.

Bruno

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Il mio nome è nessuno

Scritto da Nina-il gabbiano il 16 Aprile, 2012
cronache / 3 Commenti

Lui è arrivato per una telefonata fatta troppo tardi ma non abbastanza tardi.

Aveva una siringa nel braccio dicono, a sinistra, no… forse a destra, no… non so se fosse accanto a lui…. Non ha segni però.

“In un prato,  da solo, non aveva documenti” “È un tossico di sicuro e i documenti glieli hanno presi”.

Ma… è pulito. È abbronzato, dorato, non come chi lavora, non come chi sopporta il sole, odiandolo, cuocendoci sotto. Ha un’abbronzatura bella, di chi ha goduto al sole, si è rilassato, ha letto, parlato, bevuto.

Ha le unghie curate, di chi ha tempo per curarsele.

Le mani non sono dure, non ha le mani di chi si butta a terra sfatto dal veleno che ti fa godere del bene e ti abitua a godere del male, non sono le mani di chi dorme a terra in un marciapiede e non sente nè il freddo nè il caldo.

Gli occhi grandi senza odio. Non di chi ti urla che gli hai fatto perdere chissà quanto per la sua dose, quando gli fai il narcan, e lui ti odia perchè dovresti provarlo tu, ti dice.

Ha un fisico asciutto, muscoloso, di chi mangia “proteine” chè così gli hanno detto in palestra. Di chi donne ne ha una, ma anche un’altra e un’altra, che tanto lui non è geloso. Ma non ha nessuno accanto, adesso che le sue mani cominciano a gonfiare perchè lui comincia, forse, a non esserci più. Non ha l’N-20… ma non ha un nome! non ha un’età non ha una lingua parlata, non ha più nemmeno un colore di occhi, perchè questi gonfiano e non ci capisci più niente.

Poi arrivano “due”. Non hanno la divisa ma si capisce chi sono. Lei, tosta, si rabatta in una borsa da fotografa cercando un metro: ha un’altezza adesso. Lo sta fotografando con i suoi tubi, i suoi cerotti, i suoi sogni, i suoi occhi gonfi e i suoi capelli a spazzola così curati, un po’ grigi ma… “il grigio piace, gli avevano detto”. Foto, impronte, e foto e metro, e misuralo e guardalo e..

Ci interrogano “chi l’ha trovato?” … “non si sa, è scappato”….

“dov’era?”…. “ In un parco”….

“Ah, è uno pulito. Si sarà fatto per la prima volta. Per quanto ne ha?”  ….  “ Non lo sappiamo. È in coma, non reagisce.”

Vorrei morisse con un nome, con una persona accanto. Forse è un “clandestino”. E se lo è… lui è nessuno, lui non esiste. Forse la sua abbronzatura era il suo colore, da Magrebino o da Sudamericano.

Forse, boh, chissà. Però è morto senza essere qualcuno.

Nina-il gabbiano

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Notte in Hospice

Scritto da TNT69 il 06 Aprile, 2012
emozioni / 4 Commenti
foto di MV

foto di MV

Silenzio, luci soffuse, il rumore del condizionamento.

Dopo aver finito il giro ci si sofferma davanti al computer, si abbassano le luci. Ci si scalda con un the caldo, ci si racconta un po’, la vita, le esperienze, ci si conosce o si discute degli eventi lavorativi. A volte si ricordano pazienti particolari, quelli che ci hanno insegnato qualcosa, ognuno ne ha uno diverso. Poi si gira per vedere se tutti riposano, chi dorme, chi è sedato. In qualche stanza qualche parente si ferma a fare compagnia al proprio caro.

Nel corridoio si mischiano i differenti respiri, come una musica. Poi un silenzio strano, lieve, un senso di pace. E’ tangibile, nessun campanello che suona, tutti dormono come non volessero disturbare o farsi sentire. Una presenza palpabile. E’ la Morte che aleggia, si aggira nel reparto, è tangibile, ma non fa paura, allevia le sofferenze, e sai dove potrebbe andare e vai dove pensi di trovarla e ti fermi per gli ultimi respiri del Sig…o della Sig.ra.

Assistere una persona che muore è come assistere ad un parto, testimoni di un passaggio, la fine di una vita terrena e l’inizio di qualcos’altro, ignoto, ma non temuto. Un mistero, un dono.

Grazie a voi che ho accompagnato in questi dieci anni di Hospice.

TNT69

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Quante ore

Scritto da Vitullio il 28 Marzo, 2012
poesie / 1 Commento

foto di MV

 

Quante ore e il tempo passa,

quante ore in questo silenzio rotto da sospiri, lamenti, fremiti.

Intanto il tempo passa, è passato.

Quante ore e quante ancora in una illusione di Vita.

La nebbia si leva, le luci si affievoliscono pian piano…

quante ore.

Vitullio

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Anima d’Africa

Scritto da manuele il 17 Marzo, 2012
testimonianze / 1 Commento

Congo, lago Tanganika.

Mattino, ore 6 precise. I canti “gospel” in lingua swahili della messa sono la mia sveglia. Apro gli occhi. Sul viso un sole enorme che mi riempie l’anima, entra nella mia stanza dalla finestra della ex missione dei saveriani abbandonata. Ogni mattina percorriamo in jeep una lunga strada di polvere rossa.

Colori vividi, mai visti prima, un cielo terso e d’un azzurro sgargiante. Un via vai continuo di persone a piedi, motociclette mai viste fanno da taxi, edifici in rovina e capanne lasciati così dalla guerra ai lati del lago splendente.

“jambooo ! munganga musungu, habari gani?” è il saluto che accompagna il mio esser uomo bianco e medico in missione, tra sorrisi e volti che mi guardano con occhi grandi e sereni, volti d’un colore d’ebano di antiche origini dell’uomo.

L’ospedale è fatiscente. Nei piccoli giardini circostanti, galli e capre, panni colorati stesi al sole, persino i guanti in lattice vengono messi all’aria per essere riutilizzati.

In sala operatoria si muore di caldo, ci saranno 50 gradi, ma oggi ho un ventilatore comperato ieri a Bujumbura dopo 4 ore di macchina.

A volte non riesco a credere a ciò che vedo, colera, lebbra, tifo, malaria, meningiti, tumori, gozzi grossi come meloni…  come faccio a curare cosi’, coi mezzi che ho?

Tra un intervento e l’altro esco a fumare una sigaretta e coi miei fratelli africani parlo un misto tra francese e swahili e le risate assordanti non mancano.

Sì perchè là non si parla sommessamente come da noi. E questo mi piace da morire. Ricordo che avevo un pacchetto di mentine. Le assaggiavano e ridevano di gusto…ma come? Non avete mai assaggiato la menta? Ahahahah fantastico.

Tra un reparto e l’altro percorro corridoi all’aperto con le donne che mi sorridono, si interrogano, c’è chi dorme sulle stuoie, chi cucina… giuro, c’è anche il coiffeur che taglia e pettina !

Bimbi che mi toccano i capelli biondi e lisci e ridono e ti saltano al collo….le mamme poi dicono loro che lui è l’uomo bianco, il “musungu”…Ma com’è possibile che queste persone che non hanno nulla riescano ad avere sempre il sorriso ?

La mia ombra si stacca da me al massimo di trenta centimetri. E d’un tratto fuori ed è buio.

Il sole cade alle sei precise, esattamente dodici ore dopo. Non ci sono lampioni, ci sono i grandi fari della jeep che ci portano a casa. Ma anche il buio sembra colorato e acceso da stelle grandi come sassi se guardo in alto…

E c’è un profumo accattivante nell’aria, di lago salato, di erba, di frutti, come d’incenso che miete la mia stanchezza. Ogni giorno e sera così per un mese.

Oggi si ritorna in Italia. I bambini della missione hanno un nastro di carta sulla testa con scritto in italiano “tornate presto”. Le mie lacrime sono cosi’ grosse, che non riesco quasi a vedere chi abbraccio ed è un coro di voci, di canti e ululati delle donne vestite a festa, con abiti lunghi dai toni accesi… Grazie Dio Onnipotente che mi hai fatto non fare ma Essere medico dopo un’esperienza così.

La mia anima è cambiata: è colma di quel sole, di quegli odori, di quei colori, di quegli abbracci di bimbi e amici, di lacrime e risate, del ricordo di quelle malattie così “distanti” da noi, del mio senso di impotenza ma di ritrovo continuo di vigore quotidiano, di dire a me stesso di non mollare mai, ma di pensare con calma a come affrontare tutto.

Grazie.

Ho imparato che la mia anima è fatta per condividere, per avere e donare empatia, come loro senza volere l’hanno donata a me. E io ritornerò là…presto, molto presto….perchè tutto questo mi manca immensamente e se ci ripenso mi viene un groppo in gola….

Manuele

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I miei tempi erano diversi

Scritto da Pills il 08 Marzo, 2012
pensieri / 3 Commenti

“Ehhh, certo che ai miei tempi era tutto diverso!”
Ricordo chiaramente i miei pensieri di bambina e poi adolescente nel sentire questa frase.
Non potevo credere che gli anni e il tempo potessero plasmare le persone, o meglio generazioni intere in modo così radicale.
Non mi pareva possibile che i bambini non avrebbero più avuto voglia di vedere Spiderman, I Biker Mice, gli orsetti Gummi, la Pimpa e l’Albero Azzurro.
Non mi pareva possibile che la boy band “Blue” si potesse separare un giorno e che le borchie sulla cintura passassero di moda.
Non mi sarei mai immaginata di lasciar andare i miei compagni delle elementari e di non aver più voglia di vederli tutti i giorni, così per quelli delle medie e anche per quelli del liceo.
A quattordici anni non mi sarei mai immaginata a ventun anni, a perseverare nei miei errori sentimentali, dopo una storia prematuramente seria.

Mai mi sarei immaginata sulle ambulanze, con la divisa arancione ad alta visibilità. Mi ricordo perfettamente da piccola in compagnia del nostro pasticcere di fiducia. Alla sera a volte andava nel laboratorio ma non nell’angolo con la planetaria, le fruste, gli stampi e le farine. Andava in un angolino diverso e prendeva un vestito arancione, si metteva questa grossa giacca con strisce catarifrangenti ed usciva. Una volta siamo andati a trovarlo, io e il mio papà. Mi ha detto con fare curioso:”Vuoi vedere un’ambulanza?”. Ricordo di aver annuito un po’ timida e di essere salita su questo Ducato bianco che mi sembrava gigantesco. Era giallo dentro e sapeva di disinfettante.
C’erano un sacco di oggetti strani, delle cinture, la barella col materasso e le sue cinture di sicurezza e una coperta. C’era una tavola di plastica che serviva a portare le persone e un’altra barella metallica. C’erano mascherine e scatole di guanti e cose appese alle pareti e i cassetti straripanti di oggetti.
Sono scesa aiutata dal mio papà, perché c’era un gradino troppo alto per me.

Quattordici anni dopo sfrecciavo nelle notti invernali con la zip della giacca palesemente troppo grande per me tirata su fino al naso, accompagnata da altri due figuri ugualmente abbigliati, dalla luce azzurra dei “funghi” e l’ambulanza sapeva dell’odore acre dei malati.
Ero un’aggregata, “arrivata ieri e con decorrenza domani” come ama dire il mio capo. Non sapevo nulla. Non sapevo usare un ambu, non sapevo del pehaft, non sapevo delle forbici di Robin. Una cosa la sapevo: era il 14 novembre 2009 e ero agitata perché c’erano più di trenta persone che non conoscevo ed ero appena diventata parte di quel casino.
Mi hanno fatta uscire subito. Ho girato tantissimo. Due psichiatrici, un neurologico piuttosto grave, un tossico piuttosto violento.
Nelle guardie a seguire ho imparato i nomi di tutti e di tutti gli oggetti della borsa e dell’ambulanza. Pizzetto mi ha insegnato a sbarellare con lui sopra la barella. Skywalker mi ha insegnato come si massaggia durante un servizio particolarmente intenso.
Ho lavato miliardi di volte quel pentolone gigante, quella padella per il sugo incrostata.
Mi sono sentita poco considerata mille volte. Mi sono chiesta altrettante volte il perché dell’atteggiamento dei miei superiori. Perché l’arroganza, il tirarsela, l’essere scontrosi e borbottoni.
Non ho mai fiatato. Ho sempre sopportato e ho ricoperto il mio ruolo: l’apprendista.
Ho fatto il corso faticando per il tempo da passare sui manichini, alle lezioni, a fare pratica. Ho passato gli esami in un tripudio di gloria. Era il febbraio 2011.
Nel frattempo sono entrati altri aggregati, molti dei quali estremamente curiosi, umili ed operativi. Questi sono miei cari amici, di quelli ai quali puoi insegnare e raccontare, con i quali ridi davanti a vignette e video in internet, con i quali ti senti fuori dal servizio, con i quali puoi confidarti e anche piangere.
Da marzo dico sempre più spesso “Ai miei tempi…”
Sono entrati una serie di personaggi poco umili e poco capaci. Pretendono di sapere già tutto dopo una volta. Si offrono di fare delle attività quali cucinare o lavare i piatti e poi si lamentano delle stesse attività pretendendo di non stare in sede in servizio ma di andare in postazione nonostante le loro scarse capacità (molte volte non dovute a loro stessi).
Ai miei tempi ho aspettato con ansia e agitazione l’opportunità di andare in Medicalizzata e ora che finalmente ci vado spesso, godo della fiducia che mi danno (se mi mandano in Tango vuol dire che mi reputano una persona in grado di cavarsela).
Ai miei tempi ci rimanevo male se finivo al centralino per tante volte di fila o se finivo in una postazione loffia.
Ai miei tempi stavo zitta per tutto e me la cavavo da sola e mi lamentavo tornata a casa
Adesso pretendono si scavalcare chi ha più esperienza, di andare dove vogliono loro, di non lavare mai, di non cucinare e di fare cose che non spettano ai non Militi.
Vogliono il sangue. Ma senza umanità, umiltà, pazienza e capacità di ascolto , il sangue ferisce e basta. Oppure ti passa addosso come acqua su un k-way. E perdi il senso di quello che fai e della persona che sta soffrendo dietro al sangue. Perdi il senso della parola Volontario. Diventi Sanguinario e basta.
Ed è da persone vuote.
Ho ventun anni. E in squadra c’è chi dice che io sia più umile, matura ed esperta di persone di trenta-quaranta-cinquanta che sono capricciose ed impazienti.
Ai miei tempi questo non era la norma.

Pills

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