Pensieri cardiocircolatori

Scritto da Ultiva il 25 Luglio, 2014
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Come sempre il pomeriggio libero è foriero di casini: mentre mi rigiro nel letto cercando un pò di riposto pomeridiano, il cellulare squilla. Il padre di M., prima mio allievo e poi mio fratello, è appena morto. E io mi rigiro nel letto perchè non so come stargli vicino senza urtare la sua dignità infinita, senza contravvenire alle scelte che con discrezione e riserbo ha applicato nei mesi di questa lunga malattia.  Sul display il mio Primario. Imprecazione silenziata, impostazione voce da sveglio: “Pronto?” “C’è una trentenne a P. con una endocardite da mettere in ECMO”. Due telefonate, polverizzo cena e dopocena. Chiamo la prefettura, chiedo il volo di stato per raggiungere quanto prima la povera disgraziata. Sono stanco, non ho voglia. Sono le 21:00. Dalla Prefettura ci dicono che l’aereo non arriverà prima delle 23:00. Striscio in Ospedale.
All’aeroporto militare sono tutti pronti: carichiamo i nostri bagagli da gruppo vacanze Piemonte e decolliamo. In 45 minuti raggiungiamo la terapia intensiva dell’ospedale di P.. La Paziente presenta un quadro di shock cardiogeno con edema polmonare nonostante il supporto aminico massimale: l’ecocardio magnifica un cuore più acinetico che ipocinetico. La cannulazione è difficile, richiede circa un ora: dopo l’ECMO il circolo – ovviamente – tiene. Scaliamo le amine, ottimizziamo ulteriormente la ventilazione, voliamo a casa. Caricare la Paziente sull’aereo è drammatico: aereo piccolo, troppo peso, equipe stanca. Certo, se ci fosse stato lui….
Ma M., ora non lavora più con me.
Mi chiedo che cazzo ci faccio in mezzo all’aeroporto di Inculandia, con 80 kg sulla schiena, quando il mio posto dovrebbe essere al suo fianco. Capire è un attimo: se M. fosse lì, vorrebbe che io portassi a termine il trasferimento. E così, finalmente certo di fare una cosa a lui gradita, infilo la Paziente a bordo e ci avviamo verso casa. Sono le 3 del mattino.
Quando tornerò racconterò a M. di questo viaggio, di quanto – ancora una volta – ci siamo sentiti vicino. E di quanto, nel salvare la vita di questa Paziente, lui fosse con me.
Perchè, infatti, proprio il giorno del funerale, la Paziente viene estubata e svezzata dall’ECMO. Mi avvicino al letto e mi presento: lei piange, io tutto contento prendo mentalmente nota dei parametri emodinamici finalmente soddisfacenti con minimo supporto farmacologico.
Oggi, in un lungo abbraccio fuori dalla chiesa, ho detto senza parlare ad M. che ero e sono lì, di fianco a lui. All’allievo che sta superando il maestro.

Ultiva

 

 

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Magia bianca / Magia nera

Scritto da zarianto il 20 Luglio, 2014
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Sono le ore 20.00.  Nemmeno prendo servizio e già vengo chiamato per l’urgenza clinica in uno dei reparti di degenza.  Indosso rapidamente la divisa e gli zoccoli blu, gentilmente forniti dall’azienda sanitaria ai medici di guardia e tatticamente disegnati per fronteggiare l’emergenza – in ottemperanza della spending rewiev, si è omesso l’acquisto delle pettorine con la lettera S italica e la mantellina rossa – e, districandomi tra le moltitudini di parenti che, a quell’ora di visita vanno e vengono, affollando scale e corridoi del nosocomio, mi dirigo rapidamente verso la stanza del paziente in difficoltà.

Dinanzi alla porta chiusa, un capannello eterogeneo per età e corporatura di uomini di colore mi segue con lo sguardo interrogativo e insieme fiducioso che, cedendo infine alla speranza, si scioglie in un sorriso marmoreo, incastonato nell’ebano scultoreo di quei volti d’Africa, come risposta al mio cenno di saluto.

Apro la porta e un giovane nero subcomatoso, di nome Henry, giace inerme e composto sul giaciglio di lenzuola pallide, circondato dal medico di reparto, da un altro collega e dallo specializzando – tutti in abiti borghesi e camice bianco, …ma senza divisa da supereroe! – e da un ecografo, immobili, in attesa del sottoscritto.

Il problema clinico è rappresentato dal peggioramento acuto del paziente in questione, affetto da AIDS conclamato, blocco intestinale e insufficienza renale acuta, richiedenti il posizionamento rapido di un sondino nello stomaco, atto a svuotarne il contenuto, allo scopo di decomprimere l’addome e consentire l’espansione respiratoria del torace, nonché l’inserimento di un grosso catetere vascolare, la cui punta deve raggiungere le prossimità del cuore e attraverso il quale potrà avere luogo la dialisi salvifica.  Gli altri astanti hanno fallito la prima manovra, a causa della resistenza, per lo più involontaria, opposta dal paziente, né hanno dimestichezza con la seconda.  Quindi… è un lavoro per me!

Chiamo Henry che apre gli occhi e risponde.  Nel solito inglese made in Italy, incerto e improvvisato, gli spiego le manovre cui sta per essere sottoposto e ne ottengo la promessa di collaborazione, cui, nonostante l’obnubilamento mentale – non il mio, almeno nel caso in questione! – viene britannicamente mantenuta fede.  In breve tempo e con il prezioso aiuto degli infermieri, dopo l’abbandono del locale da parte degli altri medici, finalmente liberi di interloquire coi parenti degli innumerevoli pazienti del reparto, entrambe le procedure hanno luogo con successo.

Abbandono per ultimo la stanza e supero il capannello a dir poco festante, largamente prodigo di sorrisi, saluti e inchini ed emanante un oceanico profluvio di educato e gradito calore umano, una volta informato del risultato dell’intervento.

Lungo il corridoio che conduce all’uscita dal reparto, rifletto sull’ottimistico entusiasmo raccolto, sicuramente gratificante, ma apparentemente esagerato per la soluzione temporanea di un problema contingente, ben lungi e differente dalla guarigione impossibile: sperimento una sensazione di stranezza, la percezione indefinita di un dettaglio sfuggente, di un impalpabile particolare fuori posto, di un’atmosfera irreale.

Poco dopo, mentre sorseggio un delizioso caffè industriale, preparatorio della notte lavorativa, di fronte al generoso e lussuoso distributore automatico, sito nell’androne nosocomiale, incontro la persona che si prende cura di Henry nel nostro Paese.  Me ne racconta la vicenda umana, quella di un esule, di padre sciamano, in fuga da credenze magiche che obbligherebbero i prescelti, su base dinastica, a sottoporsi a riti pagani che prevedono anche la condivisione di sangue…umano!  Almeno, così mi pare di intendere. Inoltre, i parenti giungono direttamente dall’Africa, per celebrare, in loco, i riti tribali di guarigione – già svolti – per Henry.

Improvvisamente si diradano le nebbie del corridoio di reparto e l’espressione clamorosa di soddisfazione per ciò che interpreto come una presunzione di guarigione, conseguenza dell’apparente palesamento di una disperata speranza, si colmano di significato. Il rituale propiziatorio ha raggiunto lo scopo, con l’evocazione dello spirito guaritore e salvatore di vite, che si manifesta con sembianze umane, recante, come unico segno distintivo, un singolare, quanto pittoresco abito di colore…blu!

«La fede è sostanza di cose sperate e convinzione di cose che non si vedono» (San Paolo, Lettera agli Ebrei).  

Zarianto

La corsa

Scritto da Gio il 09 Luglio, 2014
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Foto di DB

Foto di DB

 

Esco di casa in fretta, direzione ospedale.

La città è una festa colorata di gente che prende parte a una gara podistica.

Chi non corre, guarda dal bordo della strada.

Gruppetti di gente con un cono gelato in mano, a godersi l´inizio dell´estate.

Qui esplode la vita.

E vorrei prendervi parte, ma sto andando a dare una mano perché Michele sta giocandosi ora la sua partita contro il tempo.

8 anni, recidiva di una leucemia, ora ricoverato con una sepsi fulminante, che in poche ore lo ha constretto al tubo, alla dialisi, e ora all´ECMO.

Sorpasso la vita che corre, e in poco tempo sono in terapia intensiva.

Fa caldo in questa stanza e io, gli intensivisti, i chirurghi e le infermiere che lavorano intorno a Michele, siamo tutti imperlati di sudore sotto le mascherine.

Massaggiamo mentre i chirurghi isolano l’arteria per l’ECMO, ogni tanto loro ci chiedono 5 secondi di pausa dalla RCP per poter lavorare senza strattoni continui.

I miei occhi al monitor, a cercare qualche cenno di attività cardiaca.

È in DIC, sanguina da ogni possibile punto, mentre ventilo vedo il tubo sporcarsi di gocce rosse.

Plasma, trombociti, rossi; senza sosta.

Bicarbonati, adrenalina, calcio gluconato; senza soluzione di continuo.

L´ECMO inizia a lavorare: niente polso, ma flusso.

La dialisi ripulisce l’iperkaliemia, il cuore ricomincia a muoversi.

Flussi cerebrali presenti.

Ipotermia controllata.

La camera si svuota, prima se ne vanno i chirurghi, poi alcuni degli intensivisti, rimane il perfusionista e il medico di guardia.

Quando torno le strade sono vuote.

L´aria dolce dell´estate mi fa bene.

Michele questa è la tua corsa, non mollare!

 

Gio

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Bella… zio!

Scritto da zarianto il 03 Luglio, 2014
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Foto di HA

Foto di HA

 

“Allora, signor Giuseppe, come andiamo ?”.

Con un po’ di ritardo: “…mah ?”.

Uno dei tre vicini di letto si affretta ad informarmi che occorre rivolgersi alla nipote, che “…sicuramente, sta per arrivare, lo segue ed è quella che sa tutto!”.

Insospettito, formulo due domande strategiche e chiarificatrici: “signor Giuseppe, sa dirmi dove e in che anno siamo ?”.

-“…a casa, nel milleottocentooo….”.

Perfetto! Compreso!

L’anziano (neanche tanto!) ospite lungo-nosocomiale, diabetico, martoriato da problemi circolatori degli arti inferiori, complicati da gravi infezioni sovrapposte – patologie piuttosto comuni, in pazienti di questo tipo – si trova in uno stato confusionale, precipitato dalle tossine batteriche.  E’ necessario ricondurlo in sala operatoria per tentare una bonifica chirurgica in urgenza, previa visita medica.

Mentre noi clinici ci confrontiamo, riappare la giovane nipote, di rientro da un effimero caffè, consumato, in tutta fretta, dinanzi al distributore automatico, nell’ansia di non abbandonare lo zio, nemmeno per un attimo!  Mi viene prontamente indicata dal collega e la chiamo di lontano, avvisandola della necessità di un colloquio, mentre ancora mi consulto.  Ella trasale, sgranando gli occhi e portandosi una mano al petto, come a contenere un moto di terrore!  Comprendo la tensione del parente laico, investito della responsabilità di gestire la complessità di un malato assai complicato e le sorrido, spiegandole che ho unicamente bisogno di delucidazioni storiche, che il sig. Giuseppe, al momento, non è in grado di fornire.  Ampio sospiro di sollievo!

Conclusa la relazione clinica, ho la fortuna di ascoltare la storia commovente, rivelatrice di un universo femminile sempre più sorprendente – nel bene e nel male, in genere! – di una giovane donna, che, al prezzo di grandi rinunce – anche lavorative, in un periodo come questo – e contrasti familiari, senza tornaconto alcuno, eccettuata, forse, la consapevolezza del pastoso ritorno spirituale dell’umana pietà, decide di dedicarsi completamente a uno zio, solo, che, tempo fa, le funse da padre, in assenza di quello biologico.

L’intervento verrà effettuato con successo e, dopo mesi di ricoveri ospedalieri, interventi chirurgici e complicanze di ogni genere, finalmente, il signor Giuseppe e la sua amata nipote riusciranno ad abbandonare gli ospedali e a fare ritorno a casa, dove la giovane donna continuerà a curarsi del beneamato zio.

“Qualunque cosa facciate al più piccolo dei miei fratelli, l’avrete fatto a me!”.

 

Zarianto

Emily

Scritto da Labile il 10 Giugno, 2014
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immagine da RS

Unico fotoritratto conosciuto di Emily Dickinson, dagherrotipo, 1847

 

 

È quasi mattino, una luce indefinita si fa spazio nella notte avanzando coi cinguettii tipici del un risveglio estivo. Una infinita moltitudine di uccelli nascosti in ogni possibile anfratto partecipa al baccano, che a ben ascoltarlo celebra il risveglio, come una elaborata orchestra che celebra la vita.

Noi, insonni ospedalieri, siamo quasi alla fine del turno, il migliore o il peggiore, quello notturno che di piacevole ha , appunto, questa ora che ci avvicina alla fine aspettando il cambio.

Appassionante come può essere una liberazione, onirica nel bisogno di riposo, urgente e bella come la luce che invade le colline.

I  primi di raggi di sole ancora freschi e dorati come lo sono in questo mese di Luglio in un anno così indefinito da sembrare eterno.

Giunge mentre osserviamo lo splendore dalla finestre e di spalle non ci accorgiamo del suo arrivo.

Passettini silenziosi senza fretta l’hanno portata qui con il desiderio di essere ascoltata, il  peso portato nel petto nella notte appena trascorsa che  l’ha spinta a venire.

“ Solo un consiglio …  poi torno a casa, alle mie cose”.

A vederla così all’improvviso alta e magra, esile figura di altri tempi, semplice e chiara come una forma apparsa dal nulla, vestita di cotonina fiorita,  mani forti e annerite,  torte nel grembo piatto mai partorito.

Contadina scesa da uno dei paesi del monte in cui fa giorno prima, specie d’estate che l’attesa fa presto a divenire fretta, sempre, quando qualcuno ha bisogno di noi.

“ Il cuore strabatte che lo sento nelle orecchie e nel petto un volo d’anatre indaffarate che mi stringono il collo”.

Ci parla con antiche e  sorpassate parole che nessuno, oggi,  più è disposto ad usare e tantomeno ad ascoltare.

Descrive così bene il suo disturbo che ha già fatto diagnosi ben prima dei consueti esami.

È come se scendendo dal monte potesse venire a bere un bicchierino d’acqua fresca e tornarsene semplicemente così alle sue cose, al suo orto e alle sue galline.

“Alle cose che anneriscono le mie mani,  ma schiariscono bene la mente” ci tiene a dire mentre pratichiamo qualche farmaco.

Prende così l’avvio una conversazione surreale che si mischia ben presto ai suoni degli uccelli di fuori , mentre lei racconta della sua voglia contadina di vivere, semplice e con poche cose, la sua passione di scrivere “a poeta” quello che gli canta da sempre in testa.

Frasi semplici e minute, recitate a bassa voce per non disturbare chi ha sonno,

“Ne ho giusto due qui in tasca e te le voglio lasciare ….

Qualche volta mi capita ancora di trovarli quei due fogli,  avuti in dono  in una mattina di un improbabile Luglio di molti anni fa.

“A brief, but patient illness / An hour to prepare
And one below, this morning / Is where the angels are ”

(Una breve, ma paziente malattia / Un’ora per prepararsi
E una quaggiù, stamane / È dove sono gli angeli)

Emily Dickinson 1858

 

 

Labile

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Ospedale di provincia

Scritto da Herbert Asch il 01 Giugno, 2014
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foto di DB

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“Nella veglia salvaci, Signore,

nel sonno non ci abbandonare,

il cuore vegli con Cristo

e il corpo riposi nella pace. ”    

(Compieta – antifona al Cantico di Simeone)

La radiosveglia segna le 0:03, coi suoi numeri luminosi un po’ fastidiosi, ma indispensabili, perchè voglio sapere che ora è quando mi sveglio di notte. Come stanotte, che potrei dormire tranquillo.

E invece giro.

Di qui.

Di lì.

Macché! tanto vale alzarsi, tanto non riprendo sonno. Mia moglie dorme tranquilla, un respiro regolare, lento, appena un po’accentuato. Mi sfilo la CPAP, silenziosa compagna della notte. Non ho mai faticato a tenerla, anzi, spesso concilia un sonno profondo e senza sogni, di buon riposo. Ma stasera non ce n’è; e pure mi è venuta un po’ di fame: magari scendo a sgranocchiare qualcosa, anche se in frigo c’è poco.

Il frigo più attrezzato è a casa di mia figlia, che sta per conto suo: da lei c’è un ripiano solo per le bibite, un pacco di lattine di coca e uno di fanta; nei rimanenti spazi, tubetti di maionese, wurstel, patè, budini, pancarrè, sottilette e un sacco di altre porcate che fanno male al fegato, ma scaldano il cuore delle notti insonni.  Il nostro frigo è più salutista, verdure cotte e crude in tutte le salse, bistecche, uova. Al massimo può capitare di trovare una cartina di dietetica e triste bresaola, ormai rattrappita, di rappresentanza, perchè crudo, salame e mortadella sono svanite al primo serio assalto; la bresaola non se la fila nessuno e rimane a muta testimonianza di una volontà salutista ed imbelle.

Mi siedo al tavolo con un cubetto di parmigiano ed una fetta di pane di segale.

E mi vengono in mente le notti di tanti anni fa, primo lavoro da anestesista, in un ospedale di provincia, anni ottanta…

Allora il Pronto soccorso era in mezzo all’ospedale, che si alzava sopra di esso per cinque piani. Le sei stanze di cui si componeva si aprivano tutte sul corridoio, tre di qua e tre di là: cucina, studio medico, sala emergenze, deposito barelle e una grossa sala a due postazioni.  E bon.

Ti sedevi in corridoio e le tenevi d’occhio tutte. Con uno degli internisti, che spesso faceva la notte, ci si intendeva bene. Di buona favella, grande e grosso era di una simpatia immediata, e schietta. Molto colto, aveva fatto già un po’ di tutto in ospedale: l’internista, il neurologo, il trasfusionista, il gastroenterologo, a seconda di dove c’era bisogno. Verso le undici, quando non c’era casino, andavamo a sederci in portineria di fronte alla bollatrice. Si salutava un po’ chi andava e veniva, essendo l’ora del cambio, e intanto ci si faceva un idea della geografia interna dei reparti. A seconda di chi montava capivi se si poteva andar a fare due chiacchiere o era meglio girare alla larga, se c’era accesso al frigo, oppure se si sarebbero barricati dentro.

Erano tempi in cui si cominciava a parlare di BLS, e un mattino, era sceso in Pronto il nuovo primario, fresco di studi dall’America e da lui avevamo visto, per la prima volta, con meraviglia, applicata la tecnica del massaggio cardiaco, che fino al giorno prima ci eravamo immaginati un po’ così a modo nostro, con i gomiti piegati e a livello del letto, qualche colpo e via… ci abbiamo provato, ma… il cuore non ha retto…

Vedemmo il nostro capo pompare come un forsennato su una panchetta rialzata per venti minuti, braccia tese e spalle perpendicolari, dopo avere intubato il paziente, sparando fiale di adrenalina nel tubo, senza stare a perder tempo a mettere flebo impossibili da mettere; e il cuore del paziente era, miracolosamente (a nostra impressione) ripartito…

Degli stessi anni, ricordo un ragazzo con una ferita penetrante sino al pericardio; oggi l’avremmo portato in cardiochirurgia (se ci arrivava) ma allora per lui toccò cercare il chirurgo bravo, ma che non si trovava, niente telefonini ancora.

Poi a qualcuno era venuto in mente di andarlo a stanare nella garçonniere che aveva nel condominio di fronte. E lì l’aveva effettivamente trovato, con la nuova infermiera appena entrata in servizio (ma quello era un altro tipo di servizio…). Lui venne, ricucì gli strati con una calma ed una perizia impareggiabile, e alle tre di mattina si ritirò a finire i discorsi iniziati.

C’erano, a volte, notti tranquille.

Herbert Asch

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Altissimo rischio di aztrugatnat

Scritto da Nicola il 24 Maggio, 2014
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foto di NC

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Sono finita in un Paese Lontano, dove sto lavorando in vari ospedali come Personal Care Assistant su turni special con un contratto casual, tramite una Nursing Agency.  Una versione in prosa approssimativa ma comunque soddisfacente della traduzione dal paeselontanese all’italiano sarebbe questa: sto lavorando in vari ospedali come oss, tramite un’agenzia che mi chiama per coprire dei turni quando gli ospedali richiedono pesonale extra.

Io comunico la mia disponibilitá sui tre turni all’agenzia settimanalmente. In teoria loro dovrebbero contattarmi sempre settimanalmente per propormi dei turni compatibili con le mie disponibilitá e io potrei accettarli o rifiutarli a seconda di ció che piú mi aggrada, perché essere uno special con contratto casual vuol dire essere liberi. In teoria. In pratica gli ospedali fan richiesta all’ultimo, per cui l’agenzia mi chiama all’ultimissimo e io non c’ho na lira, quindi, schiava del Dio Danaro, mi do sempre disponibile e mi guardo bene dal rifiutare qualsivoglia turno, dato che non so mai quando sará la prossima volta che mi chiameranno.

Nella pratica, la mia vita da Personal Care Assistant nel Paese Lontano funziona grossomodo cosí…

Sto dormendo profondamente. All’improvviso un casino indefinito, extrasistole da “cosa sta succedendo??” poi capisco: é il telefono. Nella confusione mentale del sonno interrotto allungo una mano chiedendomi perché mai il mio cellulare stia suonando per avvisarmi che la batteria é carica al 100% e solo dopo qualche secondo mi rendo conto che si tratta invece di una chiamata.

“Proonntooo?” “ProntoNicolachiamodallagenziaTalDeiTali!” sono rallentata io o é accelerata lei? capisco solo agenzia. Non per altro, ma perché nella costruzione inglese la parola agenzia occupa l’ultimo posto nella frase. Fortunatamente é la parola chiave e capisco di cosa si tratta. “Sí, mi dica!” “Nicola, potresti lavorare oggi per uno special dalle 7 alle 19 al San Vincenzo, reparto 10 Ovest?” “Si, certo!” “7-19 al S.Vincenzo, 10 Ovest” “Certo, certo, va benissimo!” “Grazie Nicola, buona giornata” “Buona giornata!” riaggancio. Bene! Dalle 7 alle 19, reparto… merda! Li richiamo. “Pronto, scusi, sono Nicola… qual era il reparto?” riaggancio. Dunque, 7-19 reparto 10 Ovest del… merda!! Li richiamo. “Pronto… ancora Nicola… e qual era l’ospedale??” Non ce la faccio! Andiamo, oggettivamente, sono pretenziosi loro a pensare che la mia mente, naturalmente settata sull’italiano nel sonno, possa capire e registrare ben tre dati a due secondi da un risveglio brusco… é inumano!

Mi siedo sul letto e guardo l’ora: 6.03. Onnnoo!! Correre! Mi butto addosso dell’acqua e una divisa, maledico la me di ieri che pensando “figurati se mi chiamano domattina!” ha deciso di non stirare la camicia, maledico ogni bottone della camicia e le mie fisiologiche difficoltá di coordinazione delle 6 del mattino.

E intanto devo pensare, cercare di concentrarmi e valutare quale sia la scelta migliore: bici o treno? Bici o treno? L’ospedale dista quasi 8km da casa mia, ci metto circa 40 minuti in bici; la mia bicicletta pesa quanto un Ciao e, poichè qui non ci si cambia a lavoro, se mi impegno rischio di arrivare con la divisa fradicia di sudore; se non mi impegno o se mi cambio in ospedale rischio di arrivare in ritardo; in ogni caso rischio di non arrivare affatto, dato che non ho tempo per fare colazione e l’unica energia a cui posso attingere mi é data dall’ansia di arrivare in ritardo. Bici o treno? Bici! Mi si chiederá perché non il treno… non dimentichiamo che con questo tipo di contratto non ho la certezza di quante ore lavoreró in un mese, non sono che un’immigrata che lavora a giornata come i braccianti del Mississippi, non posso certo permettermi il lusso di pagare il biglietto del treno tutti i giorni! Cosí salto in sella al mio destriero e arrivo trafelata in reparto, dove mi attendono dodici ore quasi ininterrotte di camminata circolare inseguendo un vecchino con demenza armato di deambulatore che mi insulta in macedone e cerca di picchiarmi e mordermi ogni volta che lo trascino fuori dalle stanze degli altri degenti. Dodici ore. Neanche per raggiungere il campo base dell’Everest ho mai camminato tanto in un solo giorno.

E questa è la mia gavetta oltreoceanica nella quotidianitá. Urca, tenete a freno l’ividia!

Devo ammettere che i turni non sono sempre cosí, a dire il vero quello è stato il peggiore. Il piú delle volte il grosso delle mie energie lo spendo cercando di capire il senso del mio esser lí. Ad esempio, quando la consegna é “Ragazzo autistico ricoverato per difficoltá di gestione a domicilio, puó essere aggressivo e violento… non entrare nella stanza” ma come?? “prenditi una sedia e mettiti qui in corridoio davanti alla porta” che, ci tengo a precisare, era chiusa. Non ho passato proprio tutto il turno in corridoio, ma buona parte.

Oppure quando mi chiamano per un signora a cui é stato riconosciuto un discutibilissimo rischio di autolesionismo e il mio compito é quello di stare seduta su una sedia a due metri dal letto della paziente con gli occhi puntati su di lei e riportare su una scheda di osservazione comportamentale quel che sta facendo ogni quindici minuti. Per dieci ore. Di notte.  “DORME. DORME. DORME. DORME. DORME. DORME. DORME. BEVE UN BICCHIERE D’ACQUA. RIPOSA A LETTO. DORME. DORME DORME…”

Insomma, non si tratta di un lavoro difficile o stancante, alle volte non rischiede piú impegno del semplice esser lí. La difficoltá sta nell’abituarsi al fatto che non si sa quando e se si verrá chiamati e nel trovarsi ogni volta in un ambiente diverso con persone nuove.

Un’altra difficoltá spesso é la consegna: sulla terminologia scientifica e sul vocabolario intraospedaliero il mio inglese ha ancora delle lacune non indifferenti, per cui mi é capitato piú volte di ritrovarmi in situazioni del tipo “La signora é fortemente confusa e allucinata, ha lamentato mal di testa e nausea nell’ultima mezzora, ora sta dormendo. Si mobilizza da sola, ah, occhio: è ad altissimo rischio di aztrugatnat. Ha una dieta per diabetici…” ops, forse non ho solo capito “Alto rischio di cosa?” “Altissimo rischio di aztrugatnat. Che si mobilizza da sola te l’ho detto, poi, ha una dieta per diabetici, mangia da sola…” E’ divertente vedere le ipotesi che formula il mio cervello prima di richiedere spiegazioni. Cosa avrá voluto dire?? Altissimo rischio di cosa? Cosa potrá mai fare la signora a cui devo stare attenta? Sputa? Si nasconde? Si infila le biglie nel naso? Levatele le biglie e non venite a stressare me, diamine!

Nicola

Paura di morire – 2

Scritto da Herbert Asch il 19 Maggio, 2014
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il dirupo

Ma non ho mai pensato di farla finita così. Mai pensato che ammazzarsi fosse la risposta.

Non si è liberi di morire, perché non si è nemmeno liberi di vivere. Non veniamo al mondo per essere soli. Siamo fatti di legami, di relazioni, di storie.

Essere padroni della propria vita non significa decidere quando morire. Non ci sono notai o atti di proprietà che certifichino chi siamo e cosa possediamo, anche se da sempre gli uomini si angustiano con nomi, documenti e genealogie.

Fosse solo la paura del dolore a spingermi, basterebbe un passo oltre questo muro. No. Nell’ultimo pezzo della mia esistenza voglio riconoscere ciò da cui dipendo, prima di staccarmene. Voglio essere la parte di storia che ho dimenticato. Voglio essere il ramo che si piega verso il suo tronco. Appartenere è l’unica libertà a cui aspirare.

da “Sangue mio” di Davide Ferrario

Herbert Asch

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Un angelo malato

Scritto da Angela il 11 Maggio, 2014
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Durante le mie lunghe notti di guardia, sono tante le volte che la mia mente torna a quei pomeriggi d’inverno assolati… io e lei attorno a quel “braciere”, che mi infuocava le gambe: quanta serenità, quanta sicurezza in un affetto incondizionato. La guardavo incantata: nonostante la sua malattia, presente da quando ho memoria della mia infanzia, la sua  pelle era sempre candida, le sue trecce ordinate attorcigliate intorno alla nuca, i suoi occhi vivaci e inquisitori, il suo sorriso povero di denti, ma così ricco di una bellezza d’altri tempi.

Le nostre chiacchiere coprivano il ticchettio di quella sveglia sul tavolo, in cui un gallo picchiettava di continuo in sincrono con la lancetta dei minuti. Ero capace di raccontarle qualsiasi cosa, e lei era sempre attenta ad ogni mia parola, sempre interessata, sempre partecipe della mia vita, nonostante non ricordavo di averla mai vista lasciare la sua casa .

Lei, cascasse il mondo, ero certa che l’avrei trovata seduta su quella sedia davanti all’ingresso ad aspettarmi.

Non accettavo nemmeno la vaga idea che un giorno avrebbe potuto lasciarmi. No, lei no.

Mia nonna era, ed è ancora tuttora, un amore viscerale, una figura angelica che ha accompagnato la mia vita riempiendola di una tenerezza infinita.

Il desiderio di vederla star bene, mi ha fatto sognare di diventare un medico fin da quando avevo dieci anni. Da quando ne avevo solo quattordici mi occupavo di tutta la sua terapia, e lei amava farsi “curare” solo da me.

Lo so che in realtà era piena di difetti, una matriarca tremenda, ma guai a chi me la toccava, io ero perfetta per lei e lei era perfetta per me.

Ancora oggi, a distanza di ormai quasi dieci anni dalla sua morte, sento il dolore immenso della sua mancanza, il bisogno delle sue mani calde con cui scaldava spesso le mie, sento ancora l’angoscia del nostro addio. Il dolore lancinante durante il viaggio verso casa per raggiungerla durante un suo nuovo malore. La consapevolezza che quella volta la mia amata professione non l’avrebbe aiutata, la mia rassegnazione di un giovane medico che si deve arrendere davanti alla morte non più rimandabile. Il suo “grazie di tutto”…

Nei momenti bui della mia vita, sento quelle mani, stringo forte la sua fede al mio anulare destro, sorrido, e il suo conforto mi arriva fino al cuore, e so che non si separerà mai da me, perché continua a vivere attraverso di me.

Oggi, se sono diventata un medico rianimatore, so per certo di doverlo solo a lei… il mio angelo malato che rivedo in ogni paziente e che mi porta a mettere il cuore ogni giorno in quello che reputo una nobile e meravigliosa professione.

 

 

Angela

Una notte insonne

Scritto da Indiano il 05 Maggio, 2014
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foto di DB

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Non è una notte di guardia la mia ma solo una notte insonne, troppo lunga perché arrivi in fretta il turno di domani mattina e troppo corta per essere dormita.

Ho appena cambiato posto di lavoro, inseguito in un sogno iniziato quando quel maledetto 30 Giugno ho messo piede per la prima volta su un ambulanza che correva nella notte per le vie della Brianza, ora lavoro nel Mio pronto soccorso con i mostri sacri tanto invidiati da insignificante soccorritore.

La mia vita ora è stupenda, ha voltato pagina ma credo ad un prezzo troppo alto.

Laureato da poco, pieno di complimenti e pacche sulle spalle dei migliori coordinatori in circolazione ma senza possibilità di essere integrato, in cerca disperata di un posto che mi permetta di crescere e non mi faccia “morire” in una maledetta RSA.

Finalmente ho il mio primo colloquio a venti giorni dalla mia laurea, entro in un bell’ufficio preciso ma non troppo ordinato, curato ma con quel non so che di rivoluzionario; mi accoglie lui F. sulla trentina non tanto alto magro vestito con un paio di pantaloni a sigaretta maglioncino e…. scarpe sportive insomma un tipo particolare.

Dopo pochi giorni diventa il mio primo caposala dopo pochi mesi diventa il mio mentore dopo un anno è diventato mio fratello: abbiamo condiviso tanto assieme : voli in elicottero, su aerei, grandi manifestazioni, tanto lavoro ma anche litigi, arrabbiature, esuberanze, pensieri e riflessioni.

Dopo un anno e tre mesi è arrivato il momento di salutarti, sono stati giorni bui, giorni in cui la paura di abbandonarti ha tenuto testa al mio sogno ma ho scelto di seguirlo e viverlo nel bene e nel male.

È una notte insonne abbiamo appena avuto uno scambio di messaggi, ricordando alcuni momenti belli qe ora sono qui, a fissare la parete bianca illuminata dalla luce del mio PC, a prometterti e promettermi che diventerò migliore di te perché è questo quello che mi hai insegnato … che non ci sono limiti.

Non esisterà mai nessuno come noi

Indiano