Armando

Posted by Labile on agosto 28, 2015
cronache / Nessun commento

titolo giornale

“ È nel buio che sono arrivato, così di corsa che non ho avuto il tempo di vederlo, il Belgio, il luogo del mio contratto di lavoro. Maschio, 35 anni come limite di età, bloccato per un anno pena l’arresto. Condizione di merda per lavorare e senza, come oggi, nessun mare da attraversare e nessun dazio da pagare.

Contratto firmato in patria, l’Italia appena uscita dalla guerra, quella che mi ha risparmiato non uccidendomi in battaglia per consegnarmi alla miniera.

Al buio totale rischiarato poco e male, soffocato da un respiro accorciato dalla polvere, annusando l’odore del gas bruciato.

Nero, nera come la luce che scompare se chiudo gli occhi.

Gli unici al riparo dai graffi di un lavoro che resta impresso sulla pelle. Stretti cunicoli in discesa, 350 franchi il giorno a cottimo se sei bravo a demolire il resto di una vita apparsa milioni di anni fa.

E nel buio paragono le linee che si tatuano sulle mie braccia raschiando lo strato fossile, mischiano nero e sangue a perpetua memoria. Il dorso attraversato da una bibbia di linee scritta con fatica in turni senza paragoni terrestri. Il ciclo continuo della produttività, scendere nei pozzi a centinaia di metri, dove il basso si confonde con l’alto nella dimensione orizzontale del carbone che demolito scivola sul nastro trasportatore. Sul carrello caricato spedito nerissimo verso la luce al suo destino splendente e infuocato.”

 

Armando, mi racconta, preciso, tutto questo con una vocina appena udibile spenta dalla silicosi.

Curioso delle vite degli altri, gli ho appena chiesto delle numerosissime striature tatuate sul corpo, che nere decorano le braccia e ovunque abbia dovuto far fulcro e leva per la fatica di minatore.

Minatore nel Belgio della rinascita post-bellica, giovane ripudiato dalla patria al ritmo di 2000 partenze a settimana senza nessun mare da attraversare.

(“Le case, le pietre /ed il carbone dipingeva/di nero il mondo.
Il sole nasceva/ma io non lo vedevo/mai laggiù nel buio.
Nessuno parlava, /solo il rumore di una pala/che scava, che scava.”
New Trolls 1969)

Labile

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Davide

Posted by Labile on aprile 25, 2015
emozioni / Nessun commento
Foto di HA

Foto di HA

Con questi miei occhi azzurri filtro le immagini come dall’acqua del mare, ogni leggera increspatura, ogni piccola onda. Il lampo e il tuono, le foglie strappate dal vento.
Le urla dei bambini in un giardino, le api pascolare sui fiori. L’abbaiare di un cane lontano.
Il sordo borbottio e il soffio osceno del metrò in arrivo.
I mille aggettivi miserabili di una vita per tutti normale.
Allargo gli occhi perché è la cosa che so fare, che ancora posso fare.
Entrano come schiere di uccelli le immagini e con esse il movimento evocato, il sufficiente respiro che ancora posso ottenere dal mio petto.
Leggero, sì, come l’assillo del poeta al risveglio del mattino.
Io che dal giornale leggo e non giro nemmeno una pagina.
A malapena me lo sistema il primo che passa, strategicamente piego il collo se si sposta, fino al prossimo aiuto.
Spalanca la finestra, amico che passi, fuori è già primavera.
Non sento il freddo, vedo solo la luce inondare il prato verde smeraldo, ci annuncia una felicità non più sappiamo.
Moltiplica gli occhi e non temerne la follia che essi sanno contenere e distingui quello che fai, quello che dici, quello che pensi, quello che mangi, quello che respiri, quello che cammini, quello che ami, dall’abitudine del farlo.
Il corpo malato, il mio corpo malato agisce per sottrazione. Senza forza allontana se stesso in isole lontane.
Resto così nei posti dove il mio occhio mi conduce.
L’isola trovata, profumata delle mille e mille mie primavere, il mio Paradiso Perduto.

“Uno spirito è con lui che non si cangia
Per loco o per età, giacché lo spirito
A se stesso è dimora, e può del cielo
Farsi un inferno, e dell’inferno un cielo.”

John Milton (1608-1674) Paradiso Perduto

Labile

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Pezhman, suonatore di Tar

Posted by Labile on agosto 06, 2014
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tar azerbaijan“ Se mi avessero calpestato come attraversando un campo di rose avrei parlato  con le parole profumate della poesia.

Se avessero accarezzato il mio corpo con una piuma avrei raccontato delle carezze dell’amore in una notte d’estate.

Se  avessero chiesto il conto del mio sguardo lo avrei risolto semplicemente con l’attesa, quella parola con cui gli altri mi chiamano libero e che io chiamo unicamente vivere.

Vivere,vivere, vivere senza l’infelicità di un  domani che significa morire .”

….. Appena apre gli occhi, mi vede nella penombra di una sala rossa illuminata dalla sola luce  del monitor.

Il verde smeraldo della traccia cardiaca, il tenue azzurro della traccia capnografica, il giallo siena della frequenza respiratoria.

Il bianco, il bianco, un bianco onirico che gli restituisce la mia faccia sovrapponendola a quella di un suo passato aguzzino.

“Hanno torturato il mio corpo come quello di un santo, trafitto, bastonato, saccheggiato di umori e di lamenti alla ricerca di una parola delatoria che non saprà mai raccontare l’ angoscia della mia gente.”

Stringe al petto una strana custodia nera, rigida , di pelle come quella di un violino smagrito e allungato nelle forme.

La stringe con dita lunghe e sottili, deformate leggermente a martelletto sulle punte come un suonatore a lungo invecchiato sulle corde.

Il viso ancora giovanile sprofondato in uno sguardo precocemente invecchiato, barba cresciuta nella notte e capelli arruffati in un biancore spaventato.

Fuggito da un paese infiammato  dalla guerra, attraversato da  confini mai ben  compresi per approdare in una terra amata già da lontano.

“Il verde smeraldo delle mie colline, l’azzurro tenue del cielo e il richiamo giallo dei fiori a primavera ….”

Vivere, vivere e ancora vivere della propria musica, mai soddisfatto del dolore e di un  corpo che restituisce la memoria.

Memoria  del corpo torturato, del  corpo martirizzato, del  corpo violato.

È così che stringe la custodia del suo Tar al petto, per ricordare che è lì che il suo cuore approda e trova rifugio, calcando la nostalgia come l’unica malattia che non potrà mai ammazzare.

“Non legare il cuore a nessuna dimora, perché soffrirai quando te la strapperanno via.” 

Rumi  (Jalāl ad-Dīn Muhammad Balkhī  1207-1273  poeta mistico persiano)

Labile

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Emily

Posted by Labile on giugno 10, 2014
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immagine da RS

Unico fotoritratto conosciuto di Emily Dickinson, dagherrotipo, 1847

 

 

È quasi mattino, una luce indefinita si fa spazio nella notte avanzando coi cinguettii tipici del un risveglio estivo. Una infinita moltitudine di uccelli nascosti in ogni possibile anfratto partecipa al baccano, che a ben ascoltarlo celebra il risveglio, come una elaborata orchestra che celebra la vita.

Noi, insonni ospedalieri, siamo quasi alla fine del turno, il migliore o il peggiore, quello notturno che di piacevole ha , appunto, questa ora che ci avvicina alla fine aspettando il cambio.

Appassionante come può essere una liberazione, onirica nel bisogno di riposo, urgente e bella come la luce che invade le colline.

I  primi di raggi di sole ancora freschi e dorati come lo sono in questo mese di Luglio in un anno così indefinito da sembrare eterno.

Giunge mentre osserviamo lo splendore dalla finestre e di spalle non ci accorgiamo del suo arrivo.

Passettini silenziosi senza fretta l’hanno portata qui con il desiderio di essere ascoltata, il  peso portato nel petto nella notte appena trascorsa che  l’ha spinta a venire.

“ Solo un consiglio …  poi torno a casa, alle mie cose”.

A vederla così all’improvviso alta e magra, esile figura di altri tempi, semplice e chiara come una forma apparsa dal nulla, vestita di cotonina fiorita,  mani forti e annerite,  torte nel grembo piatto mai partorito.

Contadina scesa da uno dei paesi del monte in cui fa giorno prima, specie d’estate che l’attesa fa presto a divenire fretta, sempre, quando qualcuno ha bisogno di noi.

“ Il cuore strabatte che lo sento nelle orecchie e nel petto un volo d’anatre indaffarate che mi stringono il collo”.

Ci parla con antiche e  sorpassate parole che nessuno, oggi,  più è disposto ad usare e tantomeno ad ascoltare.

Descrive così bene il suo disturbo che ha già fatto diagnosi ben prima dei consueti esami.

È come se scendendo dal monte potesse venire a bere un bicchierino d’acqua fresca e tornarsene semplicemente così alle sue cose, al suo orto e alle sue galline.

“Alle cose che anneriscono le mie mani,  ma schiariscono bene la mente” ci tiene a dire mentre pratichiamo qualche farmaco.

Prende così l’avvio una conversazione surreale che si mischia ben presto ai suoni degli uccelli di fuori , mentre lei racconta della sua voglia contadina di vivere, semplice e con poche cose, la sua passione di scrivere “a poeta” quello che gli canta da sempre in testa.

Frasi semplici e minute, recitate a bassa voce per non disturbare chi ha sonno,

“Ne ho giusto due qui in tasca e te le voglio lasciare ….

Qualche volta mi capita ancora di trovarli quei due fogli,  avuti in dono  in una mattina di un improbabile Luglio di molti anni fa.

“A brief, but patient illness / An hour to prepare
And one below, this morning / Is where the angels are ”

(Una breve, ma paziente malattia / Un’ora per prepararsi
E una quaggiù, stamane / È dove sono gli angeli)

Emily Dickinson 1858

 

 

Labile

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Geronimo

Posted by Labile on gennaio 30, 2014
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L’uomo anziano che arriva in ospedale, annaspa nella poca aria ingurgitata, con la tipica fame d’aria mescolata ad un palese e incontrollabile stato di agitazione.
Il colore, bianchissimo, della pelle mi sorprende mentre taglio la maglietta. Liberato il torace, cominciamo velocemente le manovre consuete per trattare l’edema polmonare imponente che lo travolge.
Incannulate un paio di vene e somministrati i primi farmaci, velocemente collegato al monitor.
“Si, sembra reagire …” è il pensiero che facciamo tutti guardandoci e cominciando ad allentare la tensione provvediamo velocemente al resto.
Nel tagliare la maglietta emergono segni e linee bluastre che pian piano prendono forma. Un uccellino con una rosa in bocca, una scritta che recita eterno amore, una sirena a seno nudo e due code, un cuore dedicato alla mamma.
Tatuaggi abbozzati chissà quando da una mano incerta e in un segno bluastro malamente tratteggiato. Tipici, vista l’età del possessore, dei carcerati.
Di quegli uomini che hanno passato chissà quanti anni “a bottega” come mi spiegherà in seguito Geronimo che con voce stentata risponderà alla mia curiosità.
Si l’ho battezzato subito Geronimo, come il mitico e bellicoso capo indiano Apache, visto che sul suo petto troneggiava anche una enorme figura di un Indiano con copricapo di piume, fumante una lunga pipa, il calumet della pace. La figura, sicuramente il più importante fra i suoi tatuaggi, occupava l’immenso e bianchissimo torace che per parecchio tempo ci ha impegnati a risolvere il suo edema polmonare.
Geronimo, ultraottantenne, ha scontato per un delitto “d’onore ” parecchi anni in carcere. Uomo d’altri tempi, che capita qui in pronto soccorso, trascinando peccati lavati e raccontabili dalla sua pelle tatuata nelle lunghe giornate carcerate con ago e inchiostro, che a distanza di decine di anni hanno assunto una particolare colorazione bluastra che raccontano la sua personale visione dell’amore provato per la sua donna passato per un onore schizzato di fango.
Uomo d’altra epoca, di quelli che la donna era prima la mamma e poi la moglie, sempre da amare all’infinito e sempre da proteggere magari smacchiando le offese nel sangue, come accadeva nell’Italia dei primi anni ’50.
Geronimo raccontandomi e spiegandomi il significato dei suoi tatuaggi mi fa capire l’infinito amore provato, quello sospeso e sempre sognato nelle giornate carcerate, dell’attesa dentro lui e fuori lei, che aspetta, che lo aspetta fino alla fine. E allora sirene a due code sognate di notte e un uccellino per portare una rosa d’amore all’amata e ricordarsi sempre che l’amore, quello certo, ce lo insegna per prima la mamma.
“E l’indiano , Geronimo?”

“Essi sapevano come stavano le cose e tuttavia dissero che io ero un uomo cattivo: l’uomo peggiore del posto; ma che cosa avevo fatto? lo stavo vivendo pacificamente qui con la mia famiglia sotto l’ombra degli alberi …”

Labile

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Hänsel & Gretel

Posted by Labile on settembre 29, 2013
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Foto di  GN

Foto di GN

Compaiono e scompaiono come figure che escono dai sogni.

Arrivano a sorpresa nelle ore più impensate, non guidano e prendono solo autobus a orari impossibili, quelli da trasporto notturno o quelli della pausa pranzo infinita dei pomeriggi d’estate.

Arrivano sempre accompagnati dai loro abituali problemi, inconfondibili e ormai conosciutissimi.

Di quelli che non capisci mai bene se riguardano la salute del corpo fisico, o di quello mentale o unicamente di quello sociale.

Come Hänsel e Gretel, li immagino così, mano nella mano affiancati nella vita da una fratellanza necessaria e indivisibile, che li porta in Pronto Soccorso con i loro problemi.

Bella allegoria dell’esistenza, povera economicamente ma dignitosa di quella cultura ormai scomparsa, contadini incrollabili di un mondo trascorso che non sopravvive ormai più nemmeno nei film.

Fibrillanti, diabetici e ipertesi, si barcamenano nelle loro giornate piegati alla raccolta di frutti della terra con cui si sostentano, magramente integrati da due misere pensioni sociali.

Di quelle che servono per comprare lampadine da pochi watt, niente frigorifero (“a che serve?”), un solo paio di scarpe, qualche maglietta e pantaloni solo per cambiarsi quando si fa il bucato, casa con poca acqua corrente di quella che basta a lavarsi la faccia.

Il viso che mostrano è quello che confondi spesso, sembrano due gemelli siamesi separati solo nel sesso e da un magro anno di attesa. Oggi quasi identici quando si scambiano i vestiti, o quando li incontro nei pressi della loro casa sul ponte, mentre vado al lavoro e li vedo spingere una  carriola  carica di improbabili cose raccolte qua e la.

Eppure gentili come sanno essere gentili solamente loro,  persone semplici e perfette,  di una condizione mentale ormai rara, la tranquilla pazienza del vivere con quello che si è, immersi nel sole, nell’aria e nella pioggia quando arriva.

Senza lamentazioni da inviare e nessun dio da invocare o da maledire.

Solo a chiedere, quando qualcosa vacilla, un aiuto, “Magari piccolo  per farci passare questo cuore pazzo e questo  rumore nelle orecchie che non ci da pace”.

E poi vanno via, desiderando di andar via, di fuggire quasi furtivi così come sono arrivati.

Svignarsela da questo Pronto Soccorso, per dimenticare di aver bisogno di noi, ringraziando a piene mani, salutandoci come vecchi parenti o almeno sinceri amici e di nuovo avviarsi mano nella mano come i due leggendari fratellini dei Grimm.

“Ah,

cara anatrina,

prendici

sul tuo dorso.”

Udite queste parole, l’anatrina si avvicinò nuotando e trasportò prima Gretel e poi Hänsel dall’altra parte del fiume.

Labile

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Cold nose

Posted by Labile on luglio 07, 2013
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foto di MV

foto di MV

Sì, è evidente la sorpresa ripensando alla tua faccia! Potrei aspettarmi l’irruzione di un lunedì qualsiasi con cui incomincia la settimana, l’aria seria che circonda gli occhi scuri quasi all’ombra di ciglia folte e cespugliose … almeno così mi sembra di ricordarle cercando bene di impaginare i ricordi.

Quando le persone ci lasciano, tornano a trovarci inaspettate con un ricordo, una docile memoria che ci asseconda in ogni momento, a volte consolandoci, altre a scuoterci.

Comunque sia, tornano i pensierini precisi, fatti e immagini speciali che mai ci lasceranno più.

Quasi evocato, Aldo mi torna in mente, quando la commessa spruzza un piccolo getto vaporizzato di profumo sulla striscia di pergamena, agitandola nell’aria davanti alla mia faccia, con lo sguardo professionalmente ammiccante.

Non ho ben capito ancora oggi se a colpirmi fu il suo misterioso mestiere mai sentito o la meraviglia che veramente il suo naso potesse essere un’occupazione vera e anche molto ben pagata.

Aldo mi torna così improvviso alla mente, annusando il leggero profumo da scegliere in un inizio di sole tiepido e che annuncia la tanto attesa primavera.

Quanta perizia ci mise Aldo a convincere la mia incredulità che il suo naso era veramente l’organo con cui esercitava e concepiva da anni in giro per l’Europa nuove e sconosciute fragranze di essenze da vendere sul mercato di mezzo mondo.

Mi sarei aspettato un naso importante alla Cyrano de Bergerac, un organo facciale del tutto monumentale, quasi che grandezza e importanza rendessero quel suo reale mestiere così misterioso e ben pagato.

Mi convinse, invece, con quel naso del tutto normale spiegandomi per bene la capacità infinita che alloggiava nelle sue cellule olfattive. L’olfatto, mi diceva, è il senso che rende possibile la percezione delle sostanze volatili presenti nell’aria. Nell’aria, continuò, c’è tutto un mondo invisibile e apparentemente senza corpo che i nostri occhi non vedono e che solo il nostro naso può far si che ogni giorno non abbia lo stesso odore.

Aldo ammalato in un letto ben pulito e riassettato ogni giorno. Aldo accudito, Aldo alimentato, Aldo lavato, pettinato e sbarbato, Aldo curato. Quante volte le nostre mani hanno sostituito le mani di Aldo, quante volte le nostre gambe hanno camminato al posto di quelle di Aldo.

Mai però, il suo naso, fu in nessun caso sostituito.

Dalla sua stanza commentava le numerose “essenze” che circolavano per il reparto e lui spiegava abilmente facendoci notare che da quegli odori lui sapeva sempre cosa succedeva in giro.

Il giro letti al mattino si annunciava benissimo, a seguire il sottilissimo odore del caffellatte ospedaliero, il profumino silenzioso del disinfettante della pulizia dei pavimenti. Il silenzio spietato e freddo del giro visita. La minestrina serale accompagnata dalla mela cotta.

L’onnipresente e improvviso profumo, quasi crudele, del caffè appena fatto. Un potente elisir di lunga vita capace di resuscitare sguardi opachi e rassegnati, suggerito all’infinito sempre in orari inaspettati.

A volte la sua puntuale descrizione degli odori, (Aldo, a volte si chiamano puzze!) era del tutto comica, altre invece alquanto tristi e lungimiranti.

Comunque sempre puntuali.

A pensarci bene, oggi, ci insegnò un punto di vista nuovo e imprevisto, a compiere lo sforzo giusto e necessario di andare oltre le evidenze, una lezione indimenticabile di come l’inaspettato possa realizzarsi attraverso un odore, un profumo.

Altro che Proust e le sue petites madeleines

Aldo dal suo letto a occhi chiusi sembrava una portaerei in perlustrazione nel mediterraneo, la sua immobilità allettata provocava a momenti il sottile terrore di essere intercettati e individuati.

Magari anche girando lentamente il suo naso, di essere affondati.

Ciao Aldo ovunque sei !

( “… E’ stata una visione o un sogno ad occhi aperti?”Ode to a Nightingale,  John Keats (1819)

Labile

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Valentina

Posted by Labile on maggio 01, 2013
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“Ohi, Valentina, gambe lunghe per ballare, oh, Valentina, ogni ballo un grande amore, cocca, polpa di albicocca, che ti da’ con tutto il cuore, oh, Valentina, che prima gioca e poi ci muore”.

Questo mi viene in mente appena vedo arrivare in sala rossa la ragazzina in coma che velocissimi i colleghi del 118 ci portano avendola raccolta, ci dicono, da una festa. Si, proprio Valentina, quella di Crepax prima, poi cantata dalla Vanoni all’inizio degli anni ’80. Sembra quella Valentina, stesso taglio di capelli neri, età approssimativa 16 anni, vestita di jeans e magliettina, scalza. Un po’ poco in questo freddissimo 31 dicembre in cui il capodanno viene anticipato da brevi scoppi e isolati fuochi d’artificio, che un po’ dovunque intorno a noi anticipano l’attesa.

Valentina non dà segni di risposta, respira sufficientemente con un lieve sibilo e ci appare totalmente indifesa mentre procediamo nelle manovre solite. I colleghi del 118 ci sanno solo dire di aver ricevuto la chiamata da una festa di Capodanno in una villa poco lontana dal centro, non hanno raccolto notizie certe e sufficienti a capire l’accaduto. Il solito scenario di una festa: musica ad alto volume, tanto fumo ed alcool, tanta gente indaffarata in occupazioni varie e Valentina stesa all’esterno in mezzo al prato. Nessuno l’ha notata, nessuno sa esattamente da dove arriva. È lì inerme e sola in mezzo al prato appena gelato dalla brina notturna del Capodanno 2011.

Tirando via i jeans e la maglietta, ci guardiamo e facciamo tutti lo stesso pensiero, qualcosa di strano ci appare indecifrabile e senza risposta. La ragazza, sotto i jeans, indossa un paio di hotpans neri satinati, sflilata la maglietta indossa un toppino traslucido di strass. Ci diciamo che le stranezze viste in un Pronto Soccorso non sono mai troppe e che Valentina resterà sicuramente nell’annuario dei tipi insoliti.

Però Valentina oltre al coma non risvegliabile e ai suoi abiti minimali, mostra una serie di ecchimosi disseminate un po’ ovunque, soprattutto su gambe e braccia e dal colore sembrano essere recentissime. Parametri vitali stabili ci fanno pensare con calma all’accaduto e consideriamo in successione una aggressione, una violenza, l’assunzione di qualche sostanza d’abuso, insomma a tutte quelle ipotesi tipiche che necessitano di ulteriori azioni.

Qualcuno ci vuole parlare e si affaccia timida una ragazza bellissima e impellicciata, tacchi stratosferici e un viso truccatissimo di quelli da struccare in una settimana, in mano un paio di scarpe dai tacchi esagerati. Ci dice che sono di lei, Roberta, una sua amica invitata alla festa di Capodanno che si sta tenendo nella sua villa in campagna. Roberta è minorenne ci dice e quando gli chiediamo un telefono dei genitori risponde di non saperlo. Solita storia, genitori separati, lei che vive con la madre, padre assente. Tanto tempo libero passato con le amiche sedicenni, scuola maltrattata dalle seghe ma tanta irrefrenabile voglia di vivere.

Intanto ci arrivano gli esami di laboratorio, tutto normale, niente droghe ma tantissimo alcool, ad un livello tossico tale che spiega così il coma, che ora possiamo finalmente definire etilico. Allora da brave lavandaie cominciamo ad infondere liquidi e dopo qualche litro si fisiologica. Valentina/Roberta comincia a rispondere, apre gli occhi, si guarda intorno con uno sguardo interrogativo. “Che ci faccio qui?” ripete in continuazione. Pian piano iniziamo a parlare, la sua amica rassicurata se ne è tornata alla sua festa. Il Capodanno nel frattempo è scoppiato intorno a noi nel fragore generale, immaginiamo che fra un po’ ci arriverà tutta la casistica solita di questa occasione.

Roberta riacquista velocemente la parola e ci dice in successione che la madre con cui non ha un buon rapporto non sa esattamente dove si trova, non sa nulla della festa e quella sera di litigio casalingo l’ha vista andare a dormire nella sua stanza. Invece Valentina/Roberta esce dalla sua stanza, quindici anni e mezzo saltati dalla finestra e via con la sua amica ad una festa fuoriporta. Lo scavalco non è stato dei più semplici e tutte le ecchimosi provengono da lì. Alla festa, ci dice, ci sarà il ragazzo che, inconsapevole, lei ama. Ha immaginato decine di volte lo scenario festaiolo, capodanno e lei che esce dai jeans. Il ragazzo che la guarda e sguardi giocati silenziosamente. Invece Roberta si incazza sempre più per sguardi mai ricambiati e beve, beve in continuazione in questa festa che si avvia alla mezzanotte, senza trovare quell’amore per cui si trova qui. Infine si scola anche una intera bottiglia di spumante quando il ragazzo indifferente si apparta con un’altra. Niente violenza, niente assunzione di droghe, niente amore. “Niente di niente”, dice Valentina piangendo sommessamente mentre il rimmel cola sulle sue guance di ragazzina.

 

“E allora corri, corri come un sogno, fuori strada e fuori sintonia
corri, corri come corre il tempo che ti da’ un minuto e dopo va via….”.

(testo della canzone di Ornella Vanoni/Sergio Bardotti, immagine di Guido Crepax)

Labile

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Adriano

Posted by Labile on marzo 01, 2013
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Foto di SC

Foto di SC

“Ho sempre preferito il fuori al dentro.”

Spesso mi torna in mente questa frase, per niente innocua e di grande interesse, ogni volta che da una finestra guardo in basso fra gli alberi.

Guardare da dentro a fuori è sempre stato quello che preferiva fare, quasi come per gioco, un passatempo, una scoperta continua , una raccolta di dettagli e particolari che si fissano per sempre negli occhi.

È raro trovare un reparto così, dove la luce potrebbe non essere necessaria, inv

ece in questo palazzo romano del ‘500 è del tutto normale avere a disposizione grandi finestre, quasi delle vetrate, da cui piove una luce scenografica e crepuscolare.

Più in là, lo stesso palazzo, si trasforma in atelier di pittori e scultori e più oltre ancora nella scuola di nudo dell’accademia.

Se getti lo sguardo, oltre la finestra, mentre traffichi con la consueta e necessaria attenzione attorno a uomini e donne, spesso intubati, è come volare sopra il grande platano e vedere come da prospettiva da quadro impressionista francese, foglie e rami che intrecciandosi salgono dal secondo cortile interno di quest’ospedale.

Adriano è in un letto di fianco alla finestra, non riceve mai il sole direttamente, una luce limpidissima lo inonda appena fa mattino. Non vede altro che rami e foglie nell’intreccio vitale che rende il platano secolare un vero ed inarrivabile esempio di attaccamento alla vita.

“Proprio come la sua”, penso mentre gli allungo la colazione.

D’altronde Adriano è uno dei pochi pazienti che, svezzato dalla ventilazione assistita, riprende lentamente a parlare.

Pian piano prende confidenza con noi che, ormai abituati a trattare col suo corpo, ci sembra di conoscerlo da tanto tempo, anche nell’animo.

Il suo sguardo come fatto d’acqua, giorno dopo giorno riacquista forza, quella stessa forza che lui sa di aver praticato per vivere.

Adriano sa di dover morire, non come noi ignoranti e sani.

“Tutti prenotati, siamo tutti prenotati …” rispondo quando mi dice di sapere già come andrà a finire.

Di netto come una banalità buttata li a perturbare la bellezza delle foglie e dei rami.

Essere consapevoli deve essere il più cattivo dei tormenti, eppure la faccia e il corpo di Adriano dicono di una immensa calma, una serenità che di rado ho visto nelle persone.

Adriano, mani splendide di sarto romano d’alta moda, corpo asciutto e capelli appena imbiancati, sessant’anni appena e ben portati.

Adriano legge epigrafi funerarie latine raccolte in una vecchia edizione Einaudi e ogni mattina come uno scolaro diligente si fa trovare con il libricino fra le mani.

“Ascolta questa …” mi dice mentre legge ad alta voce una che gli è sembrata bellissima.

Poche parole, aggettivi delicati eppur potenti a rappresentare in appena due o tre righe il carattere e la vita, il sentimento di defunti millenari, spessissimo bambini, mogli amatissime e mariti valorosi.

L’imbarazzo che provo nei suoi confronti mi ammutolisce, quasi sempre non riesco più a parlare di fronte alla sua leggera e consapevole necessità.

Quasi mi spaventa.

Adriano è morto.

Appena finì di leggere il suo libro, me lo allungò con delicatezza dicendomi: “È tuo”.

Compì il suo modo di acconsentire l’arrivo della sua fine leggendo quella di altri e mi piace pensare alla sua forza quando sfoglio le pagine di quel volumetto sapendo che Adriano riposa da qualche parte in compagnia della sua bellissima e immortale epigrafe.

Labile

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Centodue o centoquattro

Posted by Labile on dicembre 08, 2012
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foto di SC

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centodue o centoquattro…” mi dice, così di colpo, appena mi avvicino per sistemare le barelle  dell’attesa.

centodue o centoquattro …” mi ripete indicandomi con un dito puntato.

Non capisco e li per li penso “ Ecco, la solita …”. Invece afferro il suo sguardo interessato, guarda proprio  alla mia persona, a qualcosa di fisico che l’ha colpita da quando lei è qui e  si può dire ormai già da qualche ora, mentre se ne sta sdraiata su una delle barelle dell’attesa.

All’improvviso capisco e rispondo “centonove, sono centonove grani”.

Per lei il rosario tibetano che porto al collo, più per vezzo che per altro, la deve aver colpita fin da subito e questo le ha dato modo di rivolgermi la parola e di catturare, lei,  la mia attenzione.

Ora che la guardo meglio mi accorgo di non averla nemmeno notata nel trambusto generale che regna sempre in questo pronto soccorso e stranamente non ha colpito neanche l’altro collega che ha lavorato con lei.

Se ne sta sdraiata su una barella come una paolina borghese di periferia,  in jeans e maglietta ordinari,  una bella faccia in decadimento, resto di una bellezza giovanile nemmeno poi tanto lontana.

Da subito mi dice che la sua crisi d’ansia ormai sta scemando e che qui in pronto soccorso trova sempre un posto dove venire. Ci vuole solo restare qualche ora e passarci un po’ più di tempo anche se dimessa , la fa rimanere calma e così affrontare meglio le prossime giornate.

Intanto ha riconosciuto il rosario e mi dice che anche lei è molto interessata alla religione buddista perché le sembra l’unica che la lascia respirare.

Si dice proprio così “respirare quello che ad oggi le manca di più: il respiro”.

Mi racconta con parole precise di essere da un decennio fuggita da una brutta periferia romana e di essersi innamorata di una casetta con un pezzetto di terra qui in campagna.

Le è sembrato immediatamente il suo piccolo e grande paradiso e solo l’idea di essere tornata alla terra l’ha fatta   prestissimo sentire di star bene.

Mi racconta che era da tempo che non riusciva a prendere una decisione, andar via dalla città, dalla vita convulsa e disordinata,dagli orari stretti, ma più di ogni altra cosa dal senso di solitudine che nonostante l’affollamento di persone non riusciva adattraversare.

Invece la “campagna”, così come lei da definisce, la ha restituita in qualche modo a se stessa e ha di nuovo poggiato i piedi per terra.

Così con entusiasmo si è caricata del solito mutuo e della fatica di lavorare duro per poterlo pagare e così starci  dentro fino alla fine del mese, magari con difficoltà ma felice del suo piccolo e grande paradiso.

Tutto è filato liscio per più di dieci anni sentendosi quasi a metà del guado, finalmente felice della propria vita e della sua casetta finché,  mi racconta, la perdita del lavoro.

A raffica mi dice di aver perso il lavoro e di non riuscire più a pagare il mutuo, si la cassa integrazione, si il blocco annuale del pagamento, si la ricontrattazione del debito, una infinità di problemi che la hanno condotta qui su questa scomoda ma rassicurante barella, dove qualche goccia e le nostre chiacchiere la svuotano di quel senso di perdita infinita che non riesce più a contenere.

Allora smette di respirare, magari così la invade completamente la vertigine che la divora ogni giorno, quella che la conduce a vestirsi di abiti comprati  sui banchi dell’usato o a mangiare i cibi scadenti del discount.

Tutto così, tanto per stare ancora dentro la propria persona e non perdersi, mi dice,  in un orizzonte che non ha più luce.

È per questo che è qui, col suo senso di panico che anche in questo tardo pomeriggio trova apertura e voglia di parole, un po’ di più dei miei centonove grani di rosario.

Labile

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