cronache

Dolore

Posted by Marion on Febbraio 09, 2013
cronache / 2 Commenti

Foto di MV

Foto di MV

Prima bimba cha vedo nella mattinata: Yasmin, nome da fiaba, origine straniera, slava mi sembra, 5 anni, mamma giovane, bella e molto antipatica, arrogante nell’approccio e nelle richieste, senza lavoro e con gravi problemi economici (a quanto dice. Ho imparato a diffidare di tutto e di tutti).

Yasmin ha vomitato più volte e accusa un pò di mal di pancia e un forte mal di testa: entra nell’ambulatorio camminando da sola, ma strofinando la fronte con le manine e piangendo piano, si siede subito e rimane lì ferma, sempre lamentandosi, mentre la mamma mi racconta i fatti

“E’ da ieri pomeriggio all’uscita da scuola che non sta bene, ha vomitato tutta notte, ho dato questo e quello, non ha febbre nè diarrea, da 24 h non mangia …”

“Vieni Yasmin , sali sul lettino e riposati mentre ti visito”.

Buona buona Yasmin mi obbedisce e si alza, la mamma la prende in braccio e la deposita sul lettino, la bimba si sdraia e aspetta la visita: il pianto si è fermato, il faccino è sempre sofferente.

Il viso è rigato di lacrime, la bimba non appare disidratata, le tocco il pancino piano piano, le strappo un sorriso, poi un pò più a fondo, senza evocare dolore. Termino la visita senza trovare nulla di particolare.

Yasmin torna sulla seggiola e il viso si rabbuia, il pianto riprende, le mani che vanno sopra lo stomaco, qualche strano colpo di tosse preannunciano un conato; suggerisco di portarla in bagno e assisterla nel caso di vomito, raccogliendo poi se possibile un goccio di pipì nel contenitore che porgo. Io intanto compilo la cartella e … penso.

Il dolore di un bambino: qualche settimana fa ho sofferto di un’infezione stagionale gastrointestinale e ricordo bene quanto ho patito! Io però sapevo che era in realtà cosa da poco, che in qualche ora tutto sarebbe passato e in breve avrei quasi anche scordato quel dolore (anzi mi sarei dovuta sforzare di non farlo, per cercare di capire meglio poi la sofferenza dei miei piccoli pazienti senza minimizzarla con superficialità frettolosa). Il bambino ha davanti solo il dolore di quel momento, senza un perchè, senza una fine, se noi adulti non gli stiamo vicini a rassicurarlo, ad offrirgli un rimedio, a distrarlo…

E allora accolgo Yasmin di ritorno, immergo lo stick nel bicchierino, e osservo di lì a poco il bel viola scuro del quadratino che indica presenza di chetoni.

E spiego, alla mamma – e a Yasmin – che i chetoni, una sorta di leggero veleno che autoproduciamo in determinate situazioni, possono essere causa di vomito e mal di testa, che nascono dal digiuno o da errori alimentari , che possono aggravare un’infezione da virus ( “ un ’influenzetta di pancia”) come quella che in questi giorni hanno tanti altri bimbi o essere invece da soli la causa dei sintomi di Yasmin. In ogni caso, la cura sono CARAMELLINE di ZUCCHERO (il mio papà me le comprava a forma di carotina, con una bella carta arancio e il ciuffetto verde sopra a far da foglie!) e da tè zuccherato fresco, offerto a cucchiaini ripetuti dalla mamma che dovrà perciò trascorrere le prossime ore a fianco di Yasmin, ingannando il tempo col racconto di qualche bella storia.

Adesso sì che Yasmin non solo sorride, ma ride beata! E anche il saluto di congedo della mamma è un pò più sereno del solito…

Marion

Tags: , , , , , ,

Mi hanno detto di prepararmi

Posted by the intensivist on Febbraio 05, 2013
cronache / 4 Commenti
Foto di MV

Foto di MV

Mi hanno detto di prepararmi, ma non pensavo così presto… e ho seguito la marea.

Chiuso nel mio sottomarino agganciato alla nave-madre, avevo capito che c’era qualcosa che andava storto… era nell’aria questa sensazione, già da alcuni giorni.

Infatti la “nave-madre”, usciva più volte dal suo golfo e andava a trovare l’equipe di tecnici che , con una sonda ad ultrasuoni, scandagliava l’abisso nel quale ero immerso e navigavo da ormai 190 giorni: e cominciava allora la verifica della pompa propulsiva, delle paratie stagne e delle condutture idrauliche per verificare il mio stato di salute e la mia reattività.

E’ vero, mi avevano detto al corso PNFL (Pre Natal Fetal Life) che ad un certo punto, dopo circa 290 giorni di addestramento, avrei dovuto lasciare il mio ambiente e cercarmi nuovi lidi di approdo; ma adesso il contagiri mi diceva che ero giunto al count-down con largo anticipo… La mia nave-madre mi portava spesso da giorni, in un bacino di carenaggio, dove per effetto della sonda ad ultrasuoni, sentivo rumori e intravedevo luci attraverso il coperchio del piccolo sommergibile under-water, nel quale mi avevano introdotto, dopo avermi assemblato con cura e dovizia nel corso di lunghe settimane di navigazione.

Non ho grandi ricordi dell’inizio, ma nel manuale di istruzioni del corso PNFL, attraverso delle bellissime immagini, avevo “intravisto”, giorno per giorno, mese per mese, quello che era già capitato a milioni di altri cadetti prima di me.

La mia nave-madre negli ultimi giorni, non filava più liscia come prima: si scuoteva di frequente, riducendo virtualmente le pareti del mio sommergibile e dando delle variazioni di portata del “cordone” attraverso il quale passavano le derrate alimentari e le scorte idriche, creando spesso una accelerazione reattiva del mio contagiri .

Mi guardavo allo specchio, appeso alla paratia stagna e sembravo smagrito, un po’ provato…forse era giunta veramente l’ora di iniziare l’ultimo grande viaggio.

Ho fatto mente locale e ho raccolto le mie cose… anzi solo le mie idee, perché in realtà di bagaglio i cadetti-diplomati ne devono avere solo poco con sé, per essere più agili nello scatto e nell’avanzamento in zona nemica… o comunque straniera.

Speravo almeno di lasciare il sommergibile indossando la bellissima uniforme bianca di “vernice” che avevo invidiato ai miei colleghi di corso più anziani che erano riusciti ad arrivare al “termine” del PNFL… ma la divisa la consegnano solo dopo almeno 270-280 giorni di studio e tirocinio, prima delle ultime 2 settimane, in cui.. ogni momento è buono per uscire allo “scoperto”.

Credo proprio che dobbiamo abbandonare il nostro mezzo “under-water”: le scosse sono sempre più frequenti e prolungate, le pareti della nave-madre tendono minacciosamente a pressarmi, tanto che ora non riesco più a fare la mia quotidiana oretta di reazione fisica a base di capriole e flessioni su mani e braccia; faccio fatica anche a controllare il mio “cordone” che mi hanno spiegato non devo mai attorcigliare e devo cercare di tenere dietro di me e non davanti a me, per evitare di rimanere senza rifornimenti. Anche il mare nel quale ho navigato, ha cambiato aspetto: è meno limpido e soprattutto è meno profondo… forse si è aperta l’insenatura stretta del golfo avanti a me.

È l’imbocco del canale, quello da cui mi hanno spiegato al corso, io partirò per l’ultimo grande viaggio verso il “nuovo mondo”.

Ho un po’ paura… non ero ancora pronto, sono piccolo… e un po’ smagrito: ce la farò ? So che non tutti gli allievi arrivano alla fine del corso e qualcuno non ce la fa a vedere il nuovo mondo o qualcuno lo intravede solo per un po’, ma poi… torna il buio e non so se sia dolce o amaro questo buio.

Nessuno è tornato indietro a raccontarlo. Forse il PNFL, tra le sue lezioni, dovrebbe anche annoverare qualche ora da dedicare a quelli che non superano l’esame alla fine della sessione.

Ragazzi, è proprio l’ora… il livello del mare scende, le pareti della nave-madre vibrando con forza si avvicinano e allontanano tra di loro in maniera ormai ritmica (ne conto almeno 10-15 all’ora di vibrazioni).

L’acqua del mare è anche più calda… trasmette calore al mio sommergibile… mi sento la febbre. Mi hanno detto di preparami… Saluto con fretta la stanza che mi ha accolto lungo questi mesi, sistemo il cordone dietro di me, assumo la posizione “fetale” con la testa in avanti e… anche se non pensavo così presto… seguo la marea.

Comincio a nuotare e grazie al cielo che sono piccolo (ma allora è una fortuna !!), passo attraverso il “canale” e sempre spinto in avanti dalle vibrazioni prodotte dalla nave (che si comporta sempre da nave-madre, è premurosa con me!) finisco per intravedere l’uscita, anche se con gli occhi e la bocca serrati, come gli istruttori PNFL mi avevano ripetuto sino alla noia nei giorni passati, prima di approdare, una volta fuori dagli abissi.

Ecco la sommità del mare… sono accecato dalla luce che fino allora avevo intravisto filtrata dalle pareti della mia stanza… che freddo che fa…

– ehi, piano, voi della NICU (Neonatal Intensive Care Unit) anche se siete notoriamente bravi e famosi, non tirate così e… ohi, mettetemi giù, soffro le vertigini ! –

Dove è il mio cordone ?… sento che me lo tirano e…

– ragazzi qui non arriva più flusso! –

Improvvisamente sento la necessità di aprire la bocca e di urlare al nuovo mondo che ci sono anche io… urlo, urlo, sempre più forte… con dolore, perché nel mio petto è entrata una folata di aria fredda che non conoscevo e che, quasi mi fa male…

però se dapprima mi era estranea e fastidiosa, lentamente diventa una brezza sempre più calda e gradevole… mi sembra di respirare una nuova vita.

Uno del team della NICU mi friziona il corpo e un altro con una maschera gigante , mi aiuta a fare entrare il vento (sembra il Ghibli) della vita , lungo le mie condutture aeree… funziona! eh sì che funziona, perché il mio contagiri, inizialmente impazzito, ora ritmicamente batte ad una velocità oraria di 150-170 al minuto.

Mi controllano il peso: sono 1250 grammi… 1250 ho capito bene ? Ma mi avevano detto che di solito si è oltre i 3000 grammi alla fine del corso ? Ah, è vero, sono dovuto uscire prima, perché non era più cosa per me stare under-water… dovevo diventare un terrestre…

Lasciano delle belle pezze calde e morbide sul mio piccolo corpicino e , sempre con una mascherina che mi aiuta a portare il vento nei miei stantuffi, mi sostituiscono il cordone, ormai ridotto ad un piccolo spago, con delle tubature nuove di materiale “sintetico” che gli specialisti della NICU fanno passare attraverso il mio sportellino/ombelico, per far scorrere carburante per tutte le mie turbine.

Comincio proprio a sentirmi bene… non è poi così male questo posto pieno di luce, rumori e esseri terrestri , enormi che mi assomigliano, ma che sono di un tonnellaggio 20-30 volte il mio.

Adesso gli specialisti della NICU, con cappellini, guanti e mascherine (sono proprio come me li avevano descritti), mi adagiano in una nuova navicella, che anche se faccio fatica a vedere bene, ha delle pareti trasparenti, calde e umide con un rumore di fondo… sempre con una sorta di boccaglio-respiratore che tengono vicino al mio naso per darmi una miscela gassosa che comincia proprio a piacermi.

E’ passata solo una mezz’oretta, ma quelli che mi aspettavano sulla riva, sono proprio stati bravi… Guardo o meglio cerco di aprire un po’ i miei occhietti e , fuori dalle pareti della mia nuova casa, vedo un essere, senza mascherina e guanti, che mi è familiare: la faccia non la conosco, ma i suoni che provengono da lei e anche il calore e il profumo della pelle delle sue mani, non mi sono estranee… perchè mi ricordano gli odori, i sapori e le sensazioni del mare in cui mi cullavo… ma sì!: è la mia nave-scuola , ma come potevo dimenticarmi di lei o meglio come potevo pensare che “lei” potesse dimenticarsi di me, anche se l’avevano messa per un po’ di tempo in un bacino di carenaggio !!

La nave-madre… ci tiene proprio al suo incursore sottomarino… o meglio gli vuole proprio bene… si dice così anche tra compagni di corso o meglio tra insegnati e allievi, come me.

Ora rassicurato che il nuovo mondo non è poi così male e la nave-scuola è ancora con me, anche se le paure restano, provo a schiacciare un pisolino , perché, ora ricordo bene ripensando alle pagine del testo PNFL che, se l’avventura inizia prima… è lunga, tanto lunga e per affrontarla bene, c’è bisogno di tanto riposo e energie.

– Oh, voi lì fuori, spegnete la luce, ma continuate a controllare il mio contagiri e che tutto funzioni bene! –

Per ora va bene così, domani è un altro giorno; i ricordi dei tempi passati con gli altri compagni di corso affollano i miei pensieri, ma ora è tempo di concentrarsi per crescere e, con l’aiuto della mia nave-scuola, e dei tecnici della nuova mia navicella, so che ce la posso fare… o almeno provare a farcela!

the intensivist

Tags: , , ,

Trovarsi al posto giusto al momento giusto

Posted by Icy24 on Dicembre 17, 2012
cronache / 6 Commenti
foto di DB

foto di DB

Ieri sera mentre giravo per un noto e GRANDE centro commerciale di Roma mi sono ritrovato a passare dal ridere e scherzare con la mia ragazza e gli amici, a sudare freddo e ad assaggiare la paura vera… e dire che a questo giro ho avuto paura, ad esser sinceri, è dire poco…

Sono alcuni anni – anni che non conto più – che la sera, dopo il lavoro, spesso indosso una divisa blu con una grande croce sulle spalle e salgo su un furgoncino con tante luci e sirena. Sono sono un soccorritore volontario… che a guardarsi dentro, tra incidenti e calamità naturali, qualcosina ha visto e vissuto… ma per quanta esperienza tu possa avere c’è sempre una tipologia di soccorso che TERRORIZZA qualsiasi soccorritore: i bambini…

Ieri sera è stata una cosa istantanea.. istintiva… improvvisa. Guardavo le vetrine scherzando con la mia compagna ed amici, in mezzo a tantissima gente, quando ho sentito una donna, una mamma, urlare.

Mi son voltato e ho visto la madre inginocchiata a terra per terra con le mani tra i capelli e il padre, completamente bloccato dal panico, con un frugoletto di forse un paio d’anni se non meno in braccio svenuto o quasi con le labbra blu e in completa assenza di un respiro efficace…

…C… !

Mi è sembrato che il tempo rallentasse fino quasi a fermarsi… ho vissuto tutto come se visto da fuori… lo staccarmi dall’abbraccio della mia ragazza, il correre più forte che potessi dal padre, chiedergli di darmi il bambino e poi, vedendo che non era in sè, toglierglielo delicatamente dalle braccia dalle braccia per praticargli la manovra di disostruzione pediatrica Heimlich una, due volte, forse tre e prepararsi mentalmente a cominciare il PBLS… e poi, in un meraviglioso istante, sentiro tossire e poi piangere e strillare come un aquila… vedere quel visetto e quelle labbra tornare rosa… restituire il bimbo al padre che era fermo nella stessa posizione di pochi attimi prima… completamente in trance… e poi, finalmente, dopo lunghi, lunghissimi, minuti, rendermi conto anche io di quello ch’era appena successo…

Non ero io… non ero l’io cosciente… e quando i monitori e colleghi anziani di croce rossa mi ripetevano sempre (e come io spesso ripeto alle matricole a cui sto insegnando) “continua ad addestrarti… quando sarà il momento agirai quasi inconsapevolmente… il panico ti blocca quando l’istinto non sa che fare…”… ecco… ora so a cosa si riferivano…

È da ieri sera che ci penso e ripenso… come penso al fatto che sia assurdo e inacettabile che una struttura del genere non ci sia un medico o una squadra di soccorritori pronta a intervenire… l’ambulanza è arrivata in trenta minuti e solo perchè doveva intervenire su un’altro caso, qui nessuno aveva fatto in tempo, tutti bloccati in stato di shock… quel bimbo, il piccolo Simone (nome di fantasia), stamattina, poteva non esserci più… o riportare danni cerebrali permanenti per ipossia…

Ringrazio i miei istruttori di croce rossa per avermi dato gli strumenti per intervenire, ringrazio la costanza e il tempo “sacrificato”, anzi, investito per tenermi aggiornato e allenato e il fato che ha fatto sì che succedesse a pochi passi da un soccorritore che si trovava lì per caso…

Oggi più di ieri vorrei tanto che ogni mamma o neomamma frequentasse uno “stupido” corso di disostruzione pediatrica delle vie aeree di appena tre ore per SAPERE cosa fare in questi casi… ma no… si pensa che tanto succederà sempre a qualcun’altro…

Si, ho avuto paura… e tanta… ma ero lì con la possibilità di fare qualcosa, di fare la differenza… e questo ripaga ogni singolo istante speso e sudato con quella divisa blu e la grande croce rossa addosso…

Icy24

Tags: , , ,

Centodue o centoquattro

Posted by Labile on Dicembre 08, 2012
cronache / 2 Commenti
foto di SC

foto di SC

centodue o centoquattro…” mi dice, così di colpo, appena mi avvicino per sistemare le barelle  dell’attesa.

centodue o centoquattro …” mi ripete indicandomi con un dito puntato.

Non capisco e li per li penso “ Ecco, la solita …”. Invece afferro il suo sguardo interessato, guarda proprio  alla mia persona, a qualcosa di fisico che l’ha colpita da quando lei è qui e  si può dire ormai già da qualche ora, mentre se ne sta sdraiata su una delle barelle dell’attesa.

All’improvviso capisco e rispondo “centonove, sono centonove grani”.

Per lei il rosario tibetano che porto al collo, più per vezzo che per altro, la deve aver colpita fin da subito e questo le ha dato modo di rivolgermi la parola e di catturare, lei,  la mia attenzione.

Ora che la guardo meglio mi accorgo di non averla nemmeno notata nel trambusto generale che regna sempre in questo pronto soccorso e stranamente non ha colpito neanche l’altro collega che ha lavorato con lei.

Se ne sta sdraiata su una barella come una paolina borghese di periferia,  in jeans e maglietta ordinari,  una bella faccia in decadimento, resto di una bellezza giovanile nemmeno poi tanto lontana.

Da subito mi dice che la sua crisi d’ansia ormai sta scemando e che qui in pronto soccorso trova sempre un posto dove venire. Ci vuole solo restare qualche ora e passarci un po’ più di tempo anche se dimessa , la fa rimanere calma e così affrontare meglio le prossime giornate.

Intanto ha riconosciuto il rosario e mi dice che anche lei è molto interessata alla religione buddista perché le sembra l’unica che la lascia respirare.

Si dice proprio così “respirare quello che ad oggi le manca di più: il respiro”.

Mi racconta con parole precise di essere da un decennio fuggita da una brutta periferia romana e di essersi innamorata di una casetta con un pezzetto di terra qui in campagna.

Le è sembrato immediatamente il suo piccolo e grande paradiso e solo l’idea di essere tornata alla terra l’ha fatta   prestissimo sentire di star bene.

Mi racconta che era da tempo che non riusciva a prendere una decisione, andar via dalla città, dalla vita convulsa e disordinata,dagli orari stretti, ma più di ogni altra cosa dal senso di solitudine che nonostante l’affollamento di persone non riusciva adattraversare.

Invece la “campagna”, così come lei da definisce, la ha restituita in qualche modo a se stessa e ha di nuovo poggiato i piedi per terra.

Così con entusiasmo si è caricata del solito mutuo e della fatica di lavorare duro per poterlo pagare e così starci  dentro fino alla fine del mese, magari con difficoltà ma felice del suo piccolo e grande paradiso.

Tutto è filato liscio per più di dieci anni sentendosi quasi a metà del guado, finalmente felice della propria vita e della sua casetta finché,  mi racconta, la perdita del lavoro.

A raffica mi dice di aver perso il lavoro e di non riuscire più a pagare il mutuo, si la cassa integrazione, si il blocco annuale del pagamento, si la ricontrattazione del debito, una infinità di problemi che la hanno condotta qui su questa scomoda ma rassicurante barella, dove qualche goccia e le nostre chiacchiere la svuotano di quel senso di perdita infinita che non riesce più a contenere.

Allora smette di respirare, magari così la invade completamente la vertigine che la divora ogni giorno, quella che la conduce a vestirsi di abiti comprati  sui banchi dell’usato o a mangiare i cibi scadenti del discount.

Tutto così, tanto per stare ancora dentro la propria persona e non perdersi, mi dice,  in un orizzonte che non ha più luce.

È per questo che è qui, col suo senso di panico che anche in questo tardo pomeriggio trova apertura e voglia di parole, un po’ di più dei miei centonove grani di rosario.

Labile

Tags: , ,

Cure me

Posted by Raven on Novembre 25, 2012
cronache / 3 Commenti

foto di NC

foto di NC

Sette mesi. Questo è il periodo del suo limbo, lì, immobile in quel letto pian piano sempre più grande per lei che si fa sempre più piccola via via col passare dei giorni.

Gli occhi, fino a qualche tempo prima dello stesso colore del cielo perdono la loro luce diventando mano a mano più vitrei e opachi.

Chissà quando eri giovane quanti uomini si perdevano dentro quell’azzurro?

Mi trovo a domandarmi, mentre le passo una graza imbevuta di soluzione fisiologica sulle orbite. Non ha nemmeno più il riflesso palpebrale già da qualche giorno. Di lei è rimasto solo un corpo che fa sempre più fatica a respirare, anche con la mascherina di ossigeno sparata a tutto volume.

Arranca, sibila, rantola…Della bella signora sempre sorridente tutto ciò che è rimasto è solo questo.

E una PEG.

E una piaga da decubito che peggiora nonostante le accurate medicazioni e gli spostamenti su un fianco o sull’altro. Ormai si vede bene l’osso del coccige da quella ferita sanguinante.

Chissà se senti ancora dolore quando ti mettiamo la iodoformica?

Mi ritrovo di nuovo a pensare. Vorrei che non sentisse più nulla, imprigionata in quel limbo, compreso il rumore della pompa attaccata al sondino nasogastrico, il fischio del concentratore di ossigeno che ogni tanto reclama attenzione, la vicina di letto che ignara di tutto urla che anche lei non sta mica tanto bene…

Vorrei che non si stesse accorgendo più di quanto accade intorno a lei.

Mi accorgo che le sono rispuntati i baffetti sotto al naso e le unghie continuano imperterrite a crescere: lo so, questo può essere il tuo ultimo giorno di agonia e non sarebbe corretto che tu ti presentassi così, con le unghie lunghe ed i peletti sul viso.

Prendo la salviettina con acqua e sapone ed un po’ di colonia e ti passo le mani, talmente gonfie dai liquidi infusi da non sapere più dove metterli.

La collega mi passa la forbicina per le unghie, mentre lei si occupa dei peli superflui.

C’è ancora una cosa che non mi piace:ha i capelli troppo lunghi. Guardo la collega,lei ha capito cosa ho intenzione di fare. Stamattina, strano ma vero, siamo riuscite a guadagnare un po’ di tempo in più, e sembra che gli altri pazienti non reclamino particolari problemi, oggi. Mi fa cenno di sì con la testa. Prendo un asciugmano e, come se stessi maneggiando la testolina di un neonato, con la stessa cura le appoggio l’asciugamano sul cuscino e passo a lavarle i capelli.

La collega con la stessa attenzione le tiene la testa mentre io le passo il pettine tra i fili bianchi e sforbicio dove per me sono troppo lunghi rispetto a tutti gli altri.

Mi accorgo che di lungo ha anche le sopracciglia: incredibile come i peli possano crescere a velocità sorpendente anche su un corpo in quello stato.

La collega mi guarda di nuovo:

“Hai fatto trenta…..”

“Non la lascio così!”

I suoi parenti fondamentalmente mi stanno antipatici. Non gli ho mai potuti vedere: pretenziosi, maleducati e soprattutto, di lei, della nostra signora nel limbo, se ne sono sempre più che fregati.

Della zia importa solo il testamento che le avevano fatto firmare quando ancora quelle mani si potevamo muovere ed impugnare una penna.

Non lo sto facendo per loro.

Prendo la pinzetta e con facilità strappo le sopracciglia. Poi insieme alla collega la riposizioniamo sul letto, le cambiamo le lenzuola, controlliamo i tubi che siano tutti al posto giusto e silenziosamente entrambe speriamo di non doverla più vedere arrancare per la vita il giorno dopo.

Un ultima occhiata prima di lasciare quella stanza: così sistemata sembra un pochino più serena in quel “sonno” senza fine.

“Chissà quando saremo noi al posto suo ci sarà qualcuno che come me e te oggi avrà la stessa cura…” Mi dice la collega.

Chi lo sa, di questa grande ruota che gira? Io non posso saperlo, ma di una cosa ero certa: il giorno dopo non l’avremmo più trovata a lottare nel limbo che sembrava infinito.

Raven

Tags: , ,

Destino beffardo

Posted by zarianto on Novembre 17, 2012
cronache / Nessun commento

foto di HA

foto di HA

Quante volte accade, nel nostro amato/odiato mestiere di custodi notturni e festivi delle  vite altrui, di imbattersi in circostanze così singolari, da giustificare il sospetto dell’esistenza di un qualche regista occulto e bizzarro, alla direzione sapiente e divertita delle drammatiche e sofferte vicende umane?  Moltissime!  Ma tra tutte quelle possibili oggetti di narrazione, mai dimenticherò lo strano caso che mi accingo a raccontare, per la sequenza di coincidenze, pure assolutamente occasionale, occorsa a tutti i protagonisti.  E se non parlassimo, aihmè, di salute e malattia, di morte e sopravvivenza, che impongono la giusta dose di rispettosa serietà, forse verrebbe addirittura…da sorridere!

E’ la notte di San Sivestro di qualche anno fa.  Terminato il giro-pazienti medico e infermieristico di una rianimazione abbastanza tranquilla, onde attenuare la frustrazione di chi spesso è costretto a lavorare durante le festività, anche quelle più importanti e sentite, mentre gli altri, “i normali”, si danno alla pazza gioia, il personale del reparto dà luogo, con impaziente e superstiziosa rapidità furtiva, preventivamente anti-catastrofista, al brindisi – minimalista, austero e assai spartano, s’intenda – da tempo programmato, di saluto agli anni vecchio e nuovo, giacchè il regista occulto di cui sopra, apparentemente lo concede.  Apparentemente…appunto!

Per il cardiochirurgo di guardia è l’ultima notte di lavoro…in assoluto: il nuovo anno reca con sé una bella finestra provvidenziale, non solo previdenziale – l’ultima? – soprattutto quando gambe sinistrate, anziane e malferme escludono da tempo dalla sala operatoria: ci voleva proprio!

Il cardiologo reperibile sconta l’ultimo turno prima dell’agognato trasferimento verso un primariato prestigioso e si gode l’euforia di un doppio festeggiamento in compagnia degli amici.

L’anestesista di guardia non è sicuramente avulso dal contesto, ma un po’ contrariato si: nonostante una certa anzianità di servizio maturata altrove, in quella rianimazione è l’ultimo arrivato e, dunque, gli tocca lavorare, perché, nella nuova realtà, non contano le innumerevoli festività già trascorse in turno, in diverso nosocomio.

E’ da poco passata l’una di notte e tutti, ma proprio tutti, avvinti da improbabili intuizioni cabalistico-statistiche di auto-convincimento propiziatorio, si crogiolano nella più totale e incrollabile certezza…di averla scampata!  Quand’eccoli sobbalzare e ammutolire d’atomico sincronismo, al ritmo…della suoneria del telefono portatile “d’ordinanza” che annuncia l’emergenza in arrivo.  E che emergenza!  Di tutte quelle possibili e immaginabili…la peggiore in assoluto!

Si tratta di una neonatina di colore, in arrivo dall’ospedale ginecologico perché affetta dalla madre di tutte le malformazioni cardiache congenite, il cuore sinistro ipoplastico!  In pratica, la sventurata è funzionalmente priva di ventricolo sinistro e di radice aortica, per cui il ventricolo destro pompa sangue per tutto l’organismo e non solo per i polmoni, come normalmente dovrebbe accadere.  Affinchè però  il sangue vi giunga dalle vene polmonari, è necessario garantire la comunicazione tra atrio sinistro e destro, destinata a chiudersi in poche ore dopo la nascita.  Pertanto si rende opportuno l’ intervento urgente di settotomia percutanea mediante cateterismo cardiaco, da eseguirsi nel laboratorio di emodinamica, ad opera del cardiologo…e dell’anestesista reperibili!

I genitori della piccola sono di nazionalità nigeriana e non parlano Italiano.  Ricorrendo allo Spaghetti-English, dimostratosi estremamente affidabile finora, forse perché ne sono – modestamente – campione mondiale in carica, riesco a illustrare comprensibilmente la complessità del caso, le procedure cui verrà sottoposta la loro unica figlia e la  prognosi, piuttosto invalidante, se non fatale, in assenza di trapianto di cuore.  La rappresentazione della cruda realtà non li scoraggia e non scalfisce la loro felicità neo-genitoriale: ancora una volta, mi inchino di fronte alla grandezza dei sentimenti di cui l’animo umano è sorprendentemente capace.
Tuttavia, il loro racconto, che, a scanso di equivoci, faccio ripetere per ben tre volte e che trova conferma nella storia clinica, …mi fa letteralmente trasalire!  Rimango sbigottito nell’apprendere che la madre è reduce da ben…sette interruzioni volontarie di gravidanza!

Ora, posso facilmente immaginare…anzi no, potrei finanche percepire distintamente il flusso e il contenuto dei pensieri di chi legge in questo momento, ma, ove necessario – e con ogni probabilità non lo è – vorrei propagare il mio umile invito alla sospensione di un accattivante giudizio, poiché nulla è più fallibile…di noi tutti!  Cionondimeno, considerazione ancora, diciamo così, politicamente corretta, potrebbe essere la seguente: accidenti!  Doveva toccare proprio all’ottavo?

Purtroppo, dopo diversi mesi di ricovero ospedaliero e tribolazioni varie, nonostante l’instancabile e commovente vicinanza di entrambi i genitori ,la piccola …muore.

Fortunatamente, per noi sopravvissuti, come solitamente  accade, giunge infine l’alba di un nuovo…giorno!  E allora: happy new year!

Zarianto

Tags: , ,

Tramonto d’autunno

Posted by Il Gatto e la Volpe on Novembre 03, 2012
cronache / 3 Commenti

foto di MV

Passando davanti alla finestra riguardò la panchina. Tante volte aveva fatto quel percorso per andare a far pranzo, con la sua andatura, sempre la stessa. Alcuni giorni erano stati più felici, altri più noiosi ma uno sguardo a quel giardino le aveva sempre regalato un istante di intensa emozione. Da lì osservava il susseguirsi delle stagioni e non poteva smettere di stupirsi della magia offerta dalla natura. Riflettè per un momento senza fermarsi ma non ricordava quanti anni fossero trascorsi da quando era passata da lì la prima volta. Eppure il giardino oggi le sembrava diverso. Non aveva mai notato quel cespuglio di lavanda che cresceva lì, vicino a dov’era appena stata seduta. Le venne un brivido, sicuramente era colpa dell’aria fresca che entrava dalla finestra.

Il menù oggi offriva il risotto con zucchine. Le piacevano le verdure di stagione e si accomodò al tavolo come ogni giorno. Ebbe un’esitazione e poi si girò. Sapeva che avrebbe incontrato il suo sguardo. Lui stava alzando il bicchiere nella sua direzione come per fare un brindisi. “Cin cin” rispose e ridendo tornò al suo pranzo.

Mangiò di gusto. La vita offriva ancora dei momenti di piacere e lei sapeva coglierli. Era una persona solare, con il sorriso e lo scherzo sempre pronto. Ma quella situazione non l’aveva proprio immaginata. Adorava stare al sole. Tutti le dicevano che doveva proteggersi ma il suo colorito rivelava le ore trascorse sul terrazzo negli ultimi tre mesi. Sapeva che quell’abbronzatura le donava e metteva in risalto la sua pettinatura. Ma non aveva più pensato che un uomo potesse essere interessato a lei.

Da parecchi anni era rimasta vedova. Sola nella sua casa aveva vissuto di ricordi e piccoli impegni quotidiani. Poi i familiari le avevano proposto quel soggiorno estivo. Sapeva che avrebbe dovuto decidere se la casa di riposo era il posto dove voleva trascorrere il tempo che ancora le rimaneva. Si era trovata bene. Era una persona socievole e la compagnia degli altri ospiti e le attenzioni degli operatori erano state gradite da subito. Le amiche più perfide il giorno della sua partenza l’avevano salutata con compassione. Ora avrebbe voluto mostrar loro il mazzo di rose e lavanda messo in bella mostra sul suo comodino.

“Ciao ciao” disse alla sua vicina di letto entrando nella stanza. Era il suo modo di salutare dei giorni felici. Sorrise. Quella mano appoggiata sulla sua le aveva dato una vera felicità. Sorrise ancora e dentro di sè ringraziò. Ora sapeva che il cuore funzionava ancora, anche se aveva superato gli ottanta.

Si coricò per il riposo pomeridiano e chiudendo gli occhi pensò che anche le cose belle stancano. Aveva vissuto tante esperienze ma la vita nasconde sempre delle sorprese. Il profumo dei fiori le allietava il riposo.

Quando si alzò si diresse allo specchio. I capelli bianchi erano lucenti e con la pinzetta aggiustò le sopraciglia. Ogni giorno le controllava. Sapeva che questi dettagli erano una coccola che regalava a sé stessa. Lui bussò alla porta lei lentamente e con gentilezza lo accompagnò alla poltrona. Questo era il bello dell’età matura. Poter fare entrare un uomo nella sua stanza con disinvoltura. Stavano per ore ad ascoltar musica e a chiacchierare. Era stato spontaneo e naturale. Per mesi non aveva notato che il tempo trascorso con lui era sempre maggiore. Le prime partite a carte, la festa dei compleanni seduti vicino, le gite all’agriturismo trascorse a ridere insieme. Aveva bisogno di aiuto per poter passeggiare in giardino e sempre più sovente era stato lui il suo accompagnatore. Giorno dopo giorno avevano allungato il tragitto fino a quando avevano preso l’abitudine di riposare su quella panchina per poi ripartire. Trascorrevano ore all’aperto. Lui non amava il sole ma la panchina era metà all’ombra. Non sempre parlavano, ma la compagnia l’uno dell’altro bastava. E poi erano iniziate dolcemente quelle piccole attenzioni. Non la facevano sentire più giovane. Non lo desiderava neanche. Ma davano sapore alle giornate; assaporava ognuno di quei gesti che le venivano offerti; erano un dono che non aspettava più.

Oggi lui era stanco perché quella notte non aveva riposato bene. Forse il caldo, forse aveva mangiato troppo la sera prima. Lei gli passò il succo di frutta che le avevano portato per distogliere l’attenzione dai suoi malanni. Avevano un’oretta di tempo prima della tombola tutti insieme. Non era il caso di uscire in giardino, lui avrebbe sofferto il caldo. Decisero di riposare un po’, lui con la visiera del berretto calata sugli occhi e lei accomodata dolcemente sul terrazzo. Il bello di questa relazione. Un rapporto senza diritti né doveri, senza gelosie o compromessi, in cui ognuno era libero di esprimere sé stesso nelle proprie fragilità dell’età avanzata con il piacere di sentirsi vivo.

Oggi erano particolarmente fortunati; la loro cartella aveva già vinto l’ambo e la tombola aveva regalato loro un pacco di biscotti cucinati dagli altri ospiti il giorno precedente. Lei era golosa, e bastò uno sguardo perché lui capisse che la panchina poteva accoglierli per la merenda.

Il sole d’agosto era ancora alto, ma l’aria era fresca e l’erba appena tagliata profumava il giardino.

Solo una volta lei aveva avuto timore. Per fortuna i suoi familiari avevano da subito capito che i sentimenti la mantenevano serena e che la compagnia di un uomo rassicurava e riempiva le giornate di una donna anziana ma ancora ricca di vitalità.

La cena fu frugale. Non le piaceva andare a letto dopo un pasto abbondante. Si mangiava piuttosto presto, ma durante l’estate apprezzava quest’orario: c’erano ancora alcune ore di luce che le permettevano di leggere e preparare i maglioncini che in inverno avrebbero riscaldato i suoi pronipoti. Si accomodo nel letto con la testiera alzata. Poi chiese gentilmente alla vicina di letto, che aveva meno difficoltà di deambulazione, di socchiuder le tende della finestra. Indossò gli occhiali scuri perché i raggi del sole non la infastidissero e lasciò libero lo sguardo. Con un po’ di fatica si sistemò i cuscini e si lasciò cullare dai pensieri che affioravano nella sua mente, affascinata dal tramonto che alleggeriva e addolciva l’autunno della sua vita. Per un attimo si voltò. Sì, la porta era socchiusa, sapeva che lui sarebbe ancora passato per augurarle la buonanotte e sorseggiare la tisana insieme.

Il Gatto e la Volpe

Tags: , ,

Impressioni da là dentro

Posted by fantasia on Luglio 08, 2012
cronache / 4 Commenti
foto di HA

foto di HA

A volte mi domando dove sia e se esista un limite per l’animo umano. Si toccano punte di grande nobiltà e abissi di tremenda nefandezza. A volte si alternano l’uno e l’altro aspetto. Le notti di guardia trascorse all’interno del carcere sono un viaggio vertiginoso all’interno dell’animo umano. Ho attraversato quei corridoi bui e umidi come se stessi attraversando io stessa la privazione della libertà, della privacy, della sicurezza, degli affetti, il tempo è vuoto come l’ultima bottiglia che ha portato alcuni di loro a commettere il “fattaccio”. E di notte tutto è silenzio. Un silenzio assurdo, irreale, un silenzio pieno di ciò che accade dietro il blindo di ogni cella, e che lì rimarrà anche il giorno dopo, e quello dopo ancora, e ancora, e ancora, e per sempre. Un silenzio che si appiccica sulla pelle come sudore marcio e che non riesco mai a scrollarmi di dosso anche quando chiusa nella mia piccola infermeria mi concedo il lusso di un po’ di musica tenuta bassa.

Ma il silenzio non sempre dura tutta la notte.

A volte un telefono inizia a suonare insistentemente con quel trillo (ma chi l’ha scelto?) che sembra voler sottolineare con quel tono acuto e stridulo la necessità assoluta che qualcuno alzi la cornetta, e quel qualcuno posso essere soltanto io. Di notte ci sono soltanto io al maschile, a vegliare su 800 anime perdute. A sperare che non succeda più di una cosa alla volta, altrimenti sono fottuta! Poi certo, c’è il medico di guardia, ma lui interviene solo in casi di gravità assoluta. Sono sola, e il telefono sta squillando.

-Pronto?-

-Ciao infermiera, devi venire al reparto penale, un detenuto si è tagliato-

Click.. Conversazione finita, non ho altre informazioni. E la dicitura “si è tagliato” non è mai riferita ad un evento accidentale, ma piuttosto ad uno autoprocurato, che per quanto tale può rappresentare una sciocchezza come anche un problema molto serio, ma in questo momento non so cosa troverò.

Eccola lì, un’infermiera donna, alta 1.65, per un peso di nemmeno 50 kg, che mentre cerca di ritrovare la concentrazione si carica in spalla metà della sua infermeria e si appresta a percorrere circa 1 km a piedi, al buio, in posto che fa anche un po’ paura, senza sapere assolutamente a cosa sta andando incontro. Una mezza cartuccia che trasporta un’infermeria.

Passano i minuti, ma che gli hanno fatto al tempo? Qualcuno mi ruba i minuti, non arrivo mai!

Infine, giungo al posto di guardia degli agenti della sezione “incriminata”, che belli belli, se ne stanno tutti a sorseggiare un caffè, e ridere e scherzare. Bella forza, penso io, ma il mio detenuto dov’è?

Ovviamente è in cella, accudito da suoi coinquilini. Due agenti, un uomo e una donna, mi accompagnano presso la cella, mi aprono il blindo e la porta e mi spingono in quella minuscola stanzina puzzolente. Si accende una lucina, e vedo 4 facce tutte nere che mi guardano. O meglio, le facce nere le vedo dopo, la prima cosa che vedo sono 4 paia di occhi bianchi bianchi.

Uno di questi ragazzoni è seduto su una seggiola, si preme un pezzo di stoffa sul collo, e i suoi amici gli fanno scudo, non vogliono che io lo tocchi e lui non vuol parlare con me e nemmeno vuole farmi vedere il collo. Mi invitano ad andarmene, ci penseranno loro al compagno, non vogliono ingerenze esterne, il mio ferito è in realtà il loro amico e lo vogliono accudire da soli.

Insisto, provo ad usare il dialogo, provo a convincerli che voglio aiutarli, che non farò nulla di male a quel ragazzo di cui non conosco nulla, né il nome, né la sua storia, né il suo reato.

Ma non c’è nulla da fare. Passano molti minuti durante questa contrattazione, ma ne esco sconfitta completamente. E anche contrariata, devo essere sincera. Ed è così che con un certo senso di inutilità mi riprendo tutta la mia attrezzatura e con la coda tra le gambe torno da dove ero venuta.

 

Normalmente una persona ferita, per sbaglio per atto deliberato, si affida a noi per farsi assistere, per ricevere cure e tutto il resto.

Ma questo è un carcere, e la normalità, cioè il mondo di fuori, non esiste. Ed ogni notte non vedo l’ora che arrivi il giorno per tornare nel mondo di fuori, perché questo mondo qua dentro, assurdo, incomprensibile, crudele, mi succhia l’anima.

Fantasia

Il signor P.

Posted by Nuur on Giugno 26, 2012
cronache / 2 Commenti

foto di DB

foto di DB

Un enorme mostro sibilante, simile a una nuvola nera, stava per ghermirla.
“Sofia, scappa!”, urlai con tutte le mie forze.
Sofia invece si girò, nel suo camice immacolato, brandendo uno stetoscopio dorato come una fionda. La nuvola di oscurità si avvicinava, con un rumore di unghie sulla lavagna. Sofia caricò le gambe e prese a roteare la sua unica arma. Iniziò ad alzarsi polvere da terra.
“Oggi vinco io”, si lasciò sfuggire, tra i denti digrignati.
Quand’ecco, la nuvola accelerò improvvisamente, si alzò turbinando, si aprì e si richiuse su di lei come la bocca di un lupo.
“No!”, urlai, e caddi dal letto.

Ore? 4:35 della mattina. Emicrania? Presente.

Ottimo.

Mi rannicchiai un po’ scossa cercando di riprendere sonno tra le lenzuola. Ovviamente mi riaddormentai tardi e mi svegliai quando avrei dovuto essere già lavata e vestita da un pezzo.
Arrivai catapultata in ospedale, con ancora su le scarpe normali, quattro chili di cose inutili nelle tasche del camice e una faccia da culo inenarrabile. Sofia stava già attraversando i corridoi, con il passo nervoso e balzellante di un capriolo. Faceva le scale a due a due. Rampe e rampe. Ogni giorno.
Inutile dire che noi tirocinanti arrancavamo dopo cinque minuti, supplicandola di rallentare, con ogni improbabile scusa: “Vado a prenderti le cartelle”, “Guardo se il 15 si è svegliato”, “Aspetta, mi metto l’amuchina che mi ero dimenticata”.
Lei era già trenta metri più in là, a spiegare gli esami e i farmaci alla caposala. Aveva fatto la notte di guardia, e non aveva chiuso occhio. Dolori, coliche, dializzati. Un signore aveva pure pensato bene di iniziare a sanguinare dal colon come se fosse stato il Gange, così diceva. Fuggì in sala cucina, ingoiò un cioccolatino (l’unico cibo che l’avessi mai vista ingerire) e si annegò nel caffè. Mi batté un dito sulla spalla e senza dire niente si lanciò giù nel reparto chirurgico.

“Dai, dottoressa. Esame obiettivo ”, fece a me.

Il signor P. era un pinco pallino. Il prototipo del pinco pallino. Un ometto piccoletto, spelacchiato, con un po’ di baffi, delle grandi orecchie e degli occhi terrorizzati. Non esattamente il paziente ideale. Bombardava Sofia di domande. Era riuscito a recuperare tutti i suoi dati clinici da quando aveva 15 anni a ora. Quarant’anni di fascicoli troneggiavano come una torre sul suo comodino. Sofia deglutì sonoramente, poi andò a cercare il chirurgo, con me al seguito.

Nessuno riusciva a capire quando sarebbe stato operato.
Il signor P. inizialmente era stato un paziente oncologico, ma nel corso delle analisi dell’anestesista pre-intervento, gli avevano trovato un vizio vascolare troppo serio per essere messo sotto i ferri. La presa di posizione era categorica: niente rimozione di tumore, se prima quel difetto non fosse stata sistemato. Venne allora sparato in chirurgia, sennonché gli venne trovato pure un altro problema ancora e lo appiopparono agli interni di medicina.
Il signor P. era parcheggiato nel limbo da quasi due settimane. La situazione non si sbloccava. Non saliva nelle liste chirurgiche perché c’era quell’organo che non andava, non veniva operato al tumore perché quel vizio vascolare non era apposto.
E quel povero pinco pallino, da quando era stato affidato ad Sofia, cioè circa tre giorni, si aggrappava al bordo del suo camice, le stringeva le mani, dicendo sempre le stesse parole: “Dottoressa, il mio cancro…”, e sgranava gli occhi neri pieni zeppi di paura.

Effettivamente il suo tumore non era una cosa serissima: era trattabile, poco metastatico, a crescita lenta. Ma vai a spiegarlo te a uno che rimane nella stessa stanza, senza informazioni, per due settimane.

Sofia uscì il terzo giorno da quella stanza sbattendo la porta malamente. Con un dito mi disse di seguirla in pausa cicca, dove il mio compito era per lo più vederla pensare in silenzio, mentre tirava grandi boccate nervose. Con i capelli raccolti alla meno peggio, due ricciolini da rabbino davanti alle orecchie e due occhi strizzati di stanchezza, ma acuti e furbi come quelli di un animale selvatico.
Infatti, mentre fumava, ebbe un lampo. Un lampo da faina o da lupo. Dilatò le narici, fissando sempre di più un punto, seguendo l’incalzare dei suoi pensieri, chiuse gli occhi, gettò la cicca e corremmo assieme di nuovo in reparto.

Attendemmo il pomeriggio, quando aveva dato appuntamento all’oncologo, dandogli a credere di un improvviso aggravamento della situazione, per scuoterlo del suo torpore. Vedendo il paziente in buona salute il medico rimase di sasso, mentre Sofia si limitava a sogghignare.
“Ma sta benissimo!”, esclamò lo smilzo dottore.
“Già. Per ora”, rispose lei. “Venga”.

In mezz’ora, parola mia, tra suppliche, critiche e problemi etici, lei riuscì a far vergare da quel dottore tali parole: “Ottima prognosi se operato, probabile repentino aggravarsi se non operato entro due mesi”. Non era vero. Pinco Pallino poteva resistere ancora sei mesi, forse più. Non capivo perché stesse aggravando così il quadro di un paziente che già a vederlo stava bene. Ma poi vidi l’occhiolino di Sofia e mi zittii.
Ci congedammo davanti a una panzona che preferiva la morte piuttosto che mangiare lo yogurt dell’ospedale, e mi disse stringendo la carta: “Adesso vedi come metto fuoco ai culi”.

L’indomani tutto il gran galà dei camici immacolati si era riunito in camera del Signor P., e tra salamelecchi vari, e supponenti domande verso la giovane dottoressa responsabile, venne portato trionfante su un’inutile, ma scenografica sedia a rotelle verso il reparto di anestesia. Nel pomeriggio venne operato in pompa magna, con chirurghi brizzolati e medici leccati che si vantavano con la caposala di averlo “salvato” da un’inesorabile sorte.

Sofia era rimasta nella stanza vuota del signor P., a compilare la grafica, nella penombra. Improvvisamente la pila d’inutili fascicoli medici franò giù dal comodino. Recuperandoli, presi molto coraggio e chiesi: “Sofia?”
“Mhm?”
“Perché hai truccato la consulenza, poteva farcela ancora un po’. Il suo tumore non è così grave”.
Lei mi guardò seria e nervosa, come sempre e poi mi disse: “Però la sua paura lo era. Hai visto che lo stava mangiando”, e tra le pratiche cadute a terra raccolse un piccolo coltellino svizzero, aperto, affilatissimo.

“Non ti eri accorta dei polsi al primo giorno?”, mi chiese senza guardarmi.

Io rimasi stupefatta, con una vaga voglia di piangere. Lei restò in silenzio, agganciò la grafica al letto e poi, guardando la finestra nera, disse: “Dai che è tardi, vai a casa. Hai tutta la vita davanti per stare qua dentro”.
Quella notte sognai di nuovo il mostro, ma stavolta lo stetoscopio diradava la polvere nera… e in mezzo c’era il Signor P., in pigiama, che tutto sorridente tornava a casa senza paura.

Tags: , , ,

Tra Me e T(h)e

Posted by Bellerophontes on Giugno 26, 2012
cronache / 2 Commenti

Ci sono momenti, camminando per il girone infernale che è il “logistico” del pronto soccorso di un grande ospedale in cui, uscendo per la tua meritata e nociva sigaretta delle tre del mattino, un attimo prima dell’alba, ma ancora troppo vicino alla notte, la scienza si arrende all’umanità, alla paura di chi soffre, segretamente intersecata alla tua di fallire.

C’era V.

Siriano, lineamenti nobili, antichi, gentile nel parlare, seguito dai servizi psichiatrici.

C’erano i rossi, la battaglia da vincere in cinque minuti (se va bene), ma c’erano anche verdi, come V.

La sua bottiglietta di the era caduta nel canale e lui a ruota per recuperarla, fa caldo hai sete e l’acqua serve due volte quando cammini in un paese che non conosci, di cui non conosci la lingua, e dove molte persone avranno approfittato della tua situazione per toglierti quella già poca fiducia, incarcerati dai buoni, sfruttati dagli stronzi.

V. voleva solo la sua bottiglietta di the; quando i pompieri lo hanno estratto dal canale la brandiva come un trofeo.

ANAMNESI/EO: pz pallido, ipotermico, rispescato dopo mezz’ora dalle gloriose acque del B. Temperatura rettale 35, iperteso (ok non morirà qui) e…

ma questo non lo trovi sui libri di semeiotica, uno sguardo di chi nel dolore e nella malattia, lascia trasparire solo il bisogno di aiuto.

Si alza, barcolla e non è il Diazepam, è la vergogna. La vergogna di chi è caduto in un fiume che francamente puzza di merda. Pare un quadro, un erede di una tradizione millenaria di fughe e persecuzioni, di violenze inaudite a tre ore di comoda business class da questo ospedale.

Torno.

V. non è più sul suo lettino, è stato spostato, sapete c’è chi ha la Porsche fuori ed è piuttosto seccato perché i suoi bizzarri compagni di sala d’attesa non sono proprio il tipo di personaggi con cui si accompagna. (anche se forse alcuni li incontra ogni sera per essere più bravo, più attivo e produttivo la mattina, mah…)

Mi avvicino e vedo che ordinatamente, con garbo appoggia i suoi luridi vestiti sul termosifone -spento- nella speranza che si asciughino.

“V, ma perché li metti ad asciugare li!?”

“Non ne ho altri dottore, domani lavoro e non posso permettermi di perdere il lavoro”

“E perché perdi il lavoro V.?”

“Perché fa freddo e mi ammalo, non possiedo altri vestiti né una casa”

Io e te, V. condividiamo più del 99,5 % dei nostri geni, delle nostre vie biochimiche, della nostra fisiopatologia.

Lo condividiamo anche con il povero vecchio dall’ospizio col suo bel tappeto di batteri nelle urine, con il professore con la colica renale, con il tossico che ha bisogno di un po’ di metadone, morfina, contramal, tachidol, che comunque non gli daremo.

Ma tu non hai bisogno di questo: una coperta di lana, i vestiti in sala lavaggio e, meglio del diazepam, qualcuno che si siede al tuo letto ed è disposto ad ascoltarti, instaurare un rapporto umano semplicemente dandoti di che coprirti ed un the caldo, come solo le infermiere dolci e bellissime di certi ps sanno fare. Dormi V., io sto smontando dalla notte, un tuo ultimo sguardo, lungo, silenzioso, il tuo sorriso ha il sapore della gratitudine, il mio…beh il mio non lo so, dimmelo tu.

Bellerophontes

Tags: , ,