cronache

Il mio nome è nessuno

Posted by Nina-il gabbiano on Aprile 16, 2012
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Lui è arrivato per una telefonata fatta troppo tardi ma non abbastanza tardi.

Aveva una siringa nel braccio dicono, a sinistra, no… forse a destra, no… non so se fosse accanto a lui…. Non ha segni però.

“In un prato,  da solo, non aveva documenti” “È un tossico di sicuro e i documenti glieli hanno presi”.

Ma… è pulito. È abbronzato, dorato, non come chi lavora, non come chi sopporta il sole, odiandolo, cuocendoci sotto. Ha un’abbronzatura bella, di chi ha goduto al sole, si è rilassato, ha letto, parlato, bevuto.

Ha le unghie curate, di chi ha tempo per curarsele.

Le mani non sono dure, non ha le mani di chi si butta a terra sfatto dal veleno che ti fa godere del bene e ti abitua a godere del male, non sono le mani di chi dorme a terra in un marciapiede e non sente nè il freddo nè il caldo.

Gli occhi grandi senza odio. Non di chi ti urla che gli hai fatto perdere chissà quanto per la sua dose, quando gli fai il narcan, e lui ti odia perchè dovresti provarlo tu, ti dice.

Ha un fisico asciutto, muscoloso, di chi mangia “proteine” chè così gli hanno detto in palestra. Di chi donne ne ha una, ma anche un’altra e un’altra, che tanto lui non è geloso. Ma non ha nessuno accanto, adesso che le sue mani cominciano a gonfiare perchè lui comincia, forse, a non esserci più. Non ha l’N-20… ma non ha un nome! non ha un’età non ha una lingua parlata, non ha più nemmeno un colore di occhi, perchè questi gonfiano e non ci capisci più niente.

Poi arrivano “due”. Non hanno la divisa ma si capisce chi sono. Lei, tosta, si rabatta in una borsa da fotografa cercando un metro: ha un’altezza adesso. Lo sta fotografando con i suoi tubi, i suoi cerotti, i suoi sogni, i suoi occhi gonfi e i suoi capelli a spazzola così curati, un po’ grigi ma… “il grigio piace, gli avevano detto”. Foto, impronte, e foto e metro, e misuralo e guardalo e..

Ci interrogano “chi l’ha trovato?” … “non si sa, è scappato”….

“dov’era?”…. “ In un parco”….

“Ah, è uno pulito. Si sarà fatto per la prima volta. Per quanto ne ha?”  ….  “ Non lo sappiamo. È in coma, non reagisce.”

Vorrei morisse con un nome, con una persona accanto. Forse è un “clandestino”. E se lo è… lui è nessuno, lui non esiste. Forse la sua abbronzatura era il suo colore, da Magrebino o da Sudamericano.

Forse, boh, chissà. Però è morto senza essere qualcuno.

Nina-il gabbiano

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Il filo rosso che ci unisce

Posted by massimolegnani on Febbraio 23, 2012
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Sabato mattina, reparto zeppo di variegata umanità.

Parecchio lavoro e una piccola fortuna, il buon affiatamento con infermiere e mamme con cui divido quelle ore. Alle mamme, che sono qui da qualche giorno, piace assistere ed essere partecipi di una specie di teatrino che improvvisiamo per le stanze, che le faccia sentire ancora vive, sapere la gravità dei figli eppur trovare il tempo breve delle risa. Fabio, per esempio, a due anni è un veterano d’interventi al cuore non sempre andati bene ed ha una mamma tenace, una specie di Penelope che nel silenzio tesse le speranze, tesse e sorride. Così a metà mattina Laura, l’inserviente che sembra la Litizzetto, si presta a punzecchiarmi e a ricevere bordate in mezzo al corridoio. Motivo del contendere è il risotto col radicchio che lei ha in programma di cucinare stamattina, nei ritagli di lavoro.
– Verrà la solita schifezza che dovremo ingurgitare a forza per non offenderla.
– Dutùr, si leccherà la pentola come sempre con quella sua lingua da vecchio formichiere.-
– Laura lei è meglio in cucina che in reparto, è vero, ma è la differenza che c’è tra zero e meno uno.-
– Le darei una mestolata sulle orecchie
da gonfiargliele un altro po’ che già così mi sembra Dumbo.-
Ride la piccola folla, ride la mamma marocchina che pure non capisce una parola d’italiano, ride la mamma di Fabio che profetizza divertita:
– Vedrete, capiterà l’urgenza al momento sbagliato e allora, buono o cattivo, addio risotto. –

Barbara, in effetti, arriva poco dopo la mezza e a Laura si smorza in gola l’annuncio di pronto in tavola. La conosciamo Barbara, quando arriva passa tutto in secondo ordine. Ha sedici anni e una rara malattia che le rovina la vita. È una bella ragazza, ingabbiata in un gonfiore non suo, me la ricordo prima che iniziasse la terapia, mora e slanciata con gli occhioni neri.
Oggi ha gli occhi persi, come ubriaca. L’hanno portata col 118 direttamente in reparto, che la madre gridava di non perdere tempo in Pronto Soccorso. Adesso è lì, distesa sul lettino, bianca e gialla come un cencio lavato male e fatica a respirare, anzi è già così sfinita che non fatica più, rinuncia quasi a respirare. L’ausculto in fretta ma so già, i polmoni sono a bagno nel suo sangue. Laura, Alessandra ed io facciamo come automi i gesti dell’urgenza, la vena, l’ossigeno, il monitor, i liquidi, un prelievo, la saturazione.
Riusciamo a riportarla ad una ossigenazione accettabile, ora possiamo ragionare. E ragionare significa decidere a chi rivolgerci. Non è una paziente che si possa gestire in pediatria, Barbara ha bisogno di un reparto di rianimazione, qui o a Torino. Lo spiego a sua mamma. Lei guarda la figlia che ha sentito le mie parole e subito si è agitata dietro la maschera.
– Non mandatela via. Barbara ha bisogno di stare tra gente che conosce. Io le devo stare vicina per rincuorarla.- L’anno scorso in rianimazione è stato un dramma. Le ho giurato che mai più.
Il monitor lampeggia e gracchia a ricordarci la gravità della situazione. Dico alla donna che è un grosso rischio trattenerla qua, Barbara potrebbe non farcela. Ma la signora ha gli occhi lucidi e quella calma determinata che non mi lascia scelta. La sistemiamo in una stanzetta senza altri ricoverati e lei, da quando ha capito che resta con noi, è più tranquilla anche se sta molto male. Faccio venire in reparto il collega della rianimazione, che sia al corrente del caso e sia pronto a intervenire se necessario.
Alessandra trotta da una parte all’altra e non sbaglia una mossa. Laura usa la sua arma migliore, la parola, chiacchiera con madre e figlia, racconta, distrae. Barbara ascolta, non ha certo la forza di rispondere, ma a un certo punto le affiora anche un sorriso.
Così passano le ore in questo vivere precario, fatto di affanno e attesa.
Ho concordato la terapia con quelli di Torino ma è soprattutto l’assistenza respiratoria che conta in questi casi.
Do il cambio a un collega e vado qualche ora a casa.
Quando torno a sera, la situazione non è cambiata. Barbara è sotto ossigeno al 100%, ma l’ossigenazione del suo sangue è sempre bassa.
Sarà una notte lunga.
Ora c’è Emilia a lavorare, poi arriverà Sandro. Sono i due infermieri migliori e questo infonde fiducia a tutti, a me per primo. E nessuno protesta per un compito difficile che forse nemmeno gli compete.
Barbara si agita, ha un dolore insopportabile al petto, come un infarto, ma non è il cuore, sono i polmoni che si espandono e premono. E con l’agitazione peggiora il rendimento respiratorio. Tornano i rianimatori, diventano figure familiari per madre e figlia. Insieme concordiamo di usare la morfina. Potrebbe deprimere il respiro, ma noi speriamo che alleviando il dolore il beneficio, anche respiratorio, sia superiore al danno. Barbara si acquieta, non ha più male, e soggettivamente si sente meglio, anche se il monitor non è d’accordo. Si lascia bucare per i controlli senza protestare e poi s’assopisce. Riparlo con la mamma, ho un cauto ottimismo ma insisto anche sulla necessità della rianimazione al minimo peggioramento. Nel sonno le cose vanno abbastanza bene, ma ogni volta che la ragazza si sveglia la saturazione scende. Andiamo avanti di morfina e cortisone e tanto ossigeno. Noi che le stiamo intorno alterniamo fiducia e preoccupazione. La paura è tanta, ma il clima è buono.
Attraversiamo la notte senza accorgerci.
Al mattino la situazione è immutata. Barbara è più rilassata, dice qualche parola, ma il suo respiro non va bene. La mamma capisce e la prepara con dolcezza alla necessità di altre cure che noi non possiamo fornire. Qualche lacrima riga il viso dietro la maschera, ma non è più il rifiuto del giorno prima. Le hanno detto che la mamma potrà starle vicino quasi tutto il tempo, Barbara accetta. Così l’accompagniamo in rianimazione. L’accolgono bene, a coccole e sorrisi. Le sistemano uno scafandro in testa che le manda ossigeno sotto pressione. È un aggeggio fastidioso, ma sempre meglio che essere intubati. E la saturazione finalmente sale.
Torno a trovarla nel pomeriggio. Ha avuto il permesso di sfilare il casco per mezz’ora. Si sta facendo pettinare. Nella saletta dei visitatori i suoi amici la salutano dalla telecamera. Lei li guarda nel televisore e solo quando è ben pettinata si mostra loro in video. Questo mi dice del suo miglioramento più dei tanti monitor.

Scendo in reparto, incontro la mamma di Fabio, che oggi non va tanto bene. Eppure la donna come mi vede, finge di proteggersi con un braccio:
– mi creda, non volevo portarvi così tanta sfiga! –
È una mamma coraggiosa, che sa ridere tra una lacrima e un patema.

Ecco, mi fermo qui, a metà di una domenica. Questo non è un racconto, dalla trama ben confezionata e dalla conclusione chiara, è un tratto di vita, dove tutto s’intreccia e resta lì sospeso, incerto, fino alla fine.
Ma l’altra notte ho visto il filo rosso che ci unisce, tutti.

Massimolegnani

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Obiezione di coscienza

Posted by blue dolphin on Febbraio 04, 2012
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Pomeriggio di guardia. Ostetricia.

Mi annunciano il menù di oggi: una parto-analgesia da iniziare e un cesareo della mattina da rivedere in reparto. “Ah, sì, e poi c’è l’IVG, dottoressa.” Già, siamo ad agosto: il distretto sanitario dove si fanno abitualmente è chiuso, quindi, eccezionalmente, ce ne occupiamo qui in ospedale. Da quando lavoro qui non mi era ancora capitato.

Mi chiedono se sono obiettrice. Che strano, ogni volta che sento questa espressione: obiezione di coscienza, provo come un fastidio. Obiezione…bellissima parola. Coscienza…ancora più bella, vibrante, dignitosa. Come mai messe insieme non mi fanno più una bella impressione, allora? Come la nutella e la maionese! Sarà qualcosa di personale, senz’altro.

Sarà, per esempio, che penso al mio collega della mattina che ha “obiettato”, così che una donna che era qui dalle sette, pronta e digiuna, sta ancora aspettando che qualcuno la chiami. Con i propri pensieri e le proprie paure.

Quando rispondo ”scusate ragazze, ma vi sembro un prete o un’anestesista?” vedo facce inacidite intorno a me …no, decisamente l’ironia non è la miglior virtù delle ostetriche.

Almeno non di queste.

Ci siamo tutti, si può chiamare la signora. Non è che sia stato così facile, però: un’ostetrica di sala, obiettrice, è stata sostituita da una del reparto. Idem per il ginecologo. Tutti i presenti hanno esercitato la propria scelta, come prevede la legge. Il che dovrebbe farmi supporre che per tutti noi quello che stiamo per fare è solo un atto medico. Nessun giudizio, no? Anche perché, tecnicamente parlando, si tratta di una routinaria revisione di cavità, tale e quale a quelle spontanee, come se ne fanno tutti i giorni, mattina e pomeriggio. Naturale o volontaria che sia, non sono affari nostri.

La mia supposizione è evidentemente sbagliata. Il clima è un po’ teso, imbarazzato. Vado a conoscere la donna, visita e domande di rito, torno in sala operatoria, annuncio il nome della paziente che sta per entrare e subito si alza un coro di galline:

“ma…è italiana??”.

Beh, santiddio, è vero che siamo ormai un melting pot, ma ancora qualche paziente italiana ci è rimasta! “No, sa, è che per fare certe cose, di solito sono straniere…”.

Certe cose”.

A 33 anni dalla 194. Un pomeriggio di agosto del 2011, nel civilissimo ospedale multiculturale di questa regione così “avanti” in Italia (beh…ti piace vincere facile, eh?), in mezzo a persone, non dico intelligenti -la mancanza di ironia era già un triste indizio- ma con un livello di istruzione cosidetto superiore, che non si dichiarano obiettrici… ecco il tabù che proprio non ti aspetti.

Chissà, forse per alcuni è così difficile accettare quelle “certe cose”, nascoste sotto le sigle di IVG, RCU, 194 (che poi sempre un aborto è), che l’unica soluzione passabile che hanno trovato è stata quella di immaginarsi sempre e solo una derelitta: straniera, senza permesso di soggiorno, povera, poverissima, magari anche violentata. Ah, sì, di sicuro è stata violentata poveretta, sennò come si spiega? Invece no, eccola lì l’impunita: è italiana, così a occhio direi ceto medio, niente lividi morbosi sul corpo. Non è un’adolescente sprovveduta. Non sembra neanche una tossica. Eccola là, a sbattere in faccia a tutti i presenti la propria scelta. Questa donna aveva il diritto di scegliere e l’ha esercitato. Avrà passato settimane a pensare, considerare, immaginare, come una partita a scacchi in cui ogni azione ha una conseguenza. E questa è la sua mossa con le sue conseguenze. Questa è la sua obiezione. E’ lei l’obiettrice di coscienza. E noi non ne conosciamo le ragioni, nè sta a noi conoscerle o tantomeno supporle.

Sono molti mesi che lavoro in questo ospedale, ma ci voleva un pomeriggio di agosto in cui il distretto sanitario è chiuso per accorgermi di quanto possano essere imbarazzanti persone con cui lavoro tutti i giorni. Persone che lavorano da sempre con le donne e per le donne: gentili, cordiali, capaci di fare un complimento ad una mamma persino davanti ad un neonato palesemente brutto, a dare loro coraggio anche quando la situazione sembra sfuggire di mano e che adesso hanno improvvisamente difficoltà a guardare questa donna negli occhi e ad essere altrettanto gentili e incoraggianti; colleghi che hanno vite spesso “non convenzionali”: tante ostetriche e dottoresse hanno figli senza essere sposate, tra gli uomini solo due ginecologi non sono (ancora) divorziati, una OSS è una lesbica dichiarata… Tutto questo è accettabile. Anzi di più: è giovane, è moderno, è anche un po’ “di sinistra” se vogliamo buttarla sulla politica!

Invece la scelta di una donna che ora è nuda davanti a noi che siamo vestiti…no, non lo è altrettanto, evidentemente. In nome di cosa, di grazia? Di una vita potenziale? Ma se adesso, proprio davanti agli occhi, abbiamo una vita reale e non riusciamo a trattarla con rispetto?

Colgo sguardi complici e borbottii a mezza voce “ma quanti anni avrà?”. La donna se ne accorge ma sta zitta.

Urlerei io, in compenso. Sono così imbarazzata per i miei colleghi che non mi basta più fare da sola sforzi di gentilezza alla signora.

Che poi, a dirla tutta, non è che l’empatia con i pazienti sia proprio la mia miglior virtù… Mi auguro che il midazolam della premedicazione (tanto midazolam!) la immerga nell’oblio e nell’amnesia. E ringrazio il santo propofol, quando il sonno profondo mette un muro tra lei e quell’idiota che dice “Certo che a quell’età lì una dovrebbe saperlo come si rimane incinte, no?”.

Perché, durante un’emicolectomia, non sento mai dire “Certo che di questi tempi lo sanno tutti che le carni rosse e i salumi fanno venire il cancro, no?”

Cinque minuti. Tutto questo teatrino per cinque minuti di intervento. Pago il mio buon midazolam con un risveglio un po’ più lento e poi a letto.

Il pomeriggio prosegue e anche le mie riflessioni. Mi chiedo se sia stato un caso: una congiuntura di persone particolarmente stupide tutte nello stesso turno? Può darsi, conosco tanti colleghi che non si sarebbero comportati così. Ma se un giorno ci fossi io lì, nuda come un verme? Un preservativo bucato, una pillola saltata, una spirale dispettosa…la mia obiezione di coscienza…mi addormenterei sapendo che, appena chiusi gli occhi, qualcuno si farebbe i cazzi miei.

Passano le settimane. Mi capita di leggere un libro, ormai un “vecchio” libro: “Lettera ad un bambino mai nato“, 1975. Beh…non è poi un vecchio libro: forse oggi che una madre sia formalmente signora o signorina importa meno di allora, ma per il resto sembra che in quelle cento pagine si svolga il mio anacronistico pomeriggio di guardia. Ed è triste.

Leggo: “…Il suo delitto non ha attenuanti, signori. Perché lo commise in nome di una illegittima libertà…”

Mi chiedo, nel 2011, come e da chi una qualsivoglia libertà possa essere ancora dichiarata illegittima.

Blue Dolphin

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Farfalle nella notte

Posted by Pills on Gennaio 23, 2012
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“Oggi mi sento in forma, ma c’è un sottofondo che guasta tutto. Diffidenza? Presentimenti? Chissà…”
Io e il mio compagno di nottata ci avviciniamo alla postazione medicalizzata. Tempo di scendere dalla macchina e scambiare due parole con i colleghi smontanti, veniamo investiti da Mike e India per un dolore toracico a 5 minuti dalla postazione. Per fortuna è un falso allarme e ce la caviamo in un tempo ragionevolmente breve.
Le ore passano e la sensazione è ancora lì, addormentata nel mio “di dentro” da qualche parte anatomicamente sconosciuta ma di una pesantezza palpabile.
“Scemenze – mi dico – sarà la cena mangiata in fretta”
Passa un altro servizio, un Rosso finto e il mio autista riceve il cambio.
“Ecco Pizzetto, per fortuna gli piace questa postazione. Siamo in una botte di ferro!”
Aspettiamo ancora un po’ perché le 01.00 di venerdì notte non sono un’ora tarda. Mentre Lucarelli parla di Sant’Anna di Stazzema noi soccorritori ciondoliamo sulle sedie col sonno che sale, mentre il Mike dorme come un bambino, perso nei sogni, le mani agitate da scatti. Sgattaioliamo nella nostra stanza e, data la buonanotte spegniamo le luci in un fruscio di federe e lenzuola monouso. Morfeo è pronto a posare la sua mano sulle nostre teste e farci appesantire gli occhi nel torpore, ma la sua opera viene stroncata dallo squillo impertinente del telefono.
Mentre Pizzetto accende la luce io prendo il servizio. È un vago Giallo generico in luogo pubblico, mi dicono di un cinquantenne a terra in agitazione. Tempo di mettere giù il telefono spunta il Mike assonnato sulla porta con l’aria interrogativa che si confà ad un servizio delle 2 di notte. Gli porgo il servizio leggendogli la mia brutta scrittura peggiorata da una penna fallata. “cos’è qua? 500? Ahhh è 50 anni…certo che si vede che vuoi fare il medico, Dottoressa!”. L’unico Mike che mi chiama Dottoressa e si ricorda il mio nome di battesimo nonostante le collaborazioni distanziate nel tempo.
Arrivati sul posto troviamo, con mio sommo orrore, la mia sensazione. È un signore magrolino che si muove con un’agitazione cieca e ha uno sguardo spalancato in un mare di terrore. Le sue urla sono rotte e noi, intrufolandoci in mezzo ad esse lo carichiamo senza tanti complimenti sul telo, sulla barella e poi in ambulanza.
Ci blindiamo nella nostro mezzo e non c’è più Tavor in frigo. L’India gli fa un’iniezione attraverso i jeans. Le braccia però sono ancora agitate e in tre, tra imprecazioni e suppliche riescono ad incannularlo. Intanto l’ossigeno non basta più. Desatura. Il Mike ha già dichiarato “Miosi e poca reattività alla luce”. Mike e India si osservano, lei burbera ma competente, Lui giovane ma operativo. “è brutto” dicono insieme. Decidono per l’intubazione.
Nel marasma di oggetti fuggiti dal borsone nella confusione iniziale recuperano il kit e procedono a infusione di liquidi e farmaci. “Dottoressa, mi dai una mano? Prendi questo, mettilo sul dorso della mano e lubrifica il tubo quando te lo dico,ok?”
Le mani mi tremano e con loro una fialettona di anestetico, una di fisiologica e una siringa per l’intubazione. Riesco anche a passare una benda e il mio cerotto che porto sempre in tasca all’India. Mike riesce ad intubare subito il paziente e può finalmente ventilarlo.
Un momento di assoluto silenzio piomba nell’abitacolo dell’ambulanza. Mike si gira e anche io. Sono agitata perché di tre farmaci che mi hanno chiesto non ce n’era nemmeno uno nello zaino ma solo altri parimenti utilizzabili ma a me sconosciuti. Sono agitata per lo sguardo del nostro paziente, fisso e spaventato. Sono agitata perché non avevo mai assistito ad un’intubazione, né tantomeno partecipato seppur in minima parte. Mike mi fissa con uno sguardo strano fisso nei miei occhi, come solo le persone coraggiose sanno fare. In un sussurro mi dice: “Il signore muore o rischia grosso. Lo sai?”. La mia sensazione si siede dentro di me ed esplode. Eccola confermata.
Annuisco gravemente. Il paziente arriva vivo in ospedale e anche quando torno indietro a riprendere Mike e Telo portaferiti ha un rassicurante bip-bip attorno a sé.
Sono in un bagno di sudore, ho le ginocchia che mi fanno male come tutte le volte in cui sono tesa. Io e Mike entriamo nella benefica arietta fresca.
Mi sento liberata dall’afa, dal caldo, dalla sensazione accovacciata  in me dall’inizio del servizio. Mike si gira verso di me. Ha qualche anno in più di me ed è lo specchio di come vorrei essere io alla fine della Facoltà: operativa, umana, fresca e sorridente.
“Brava Dottoressa” mi dice.

La sensazione scompare in una moltitudine di farfalle. Una per ogni desiderio, una per ogni sogno, una per ogni speranza.
Sono davvero tante.
Sono proprio belle.

Pills

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Cambiamenti

Posted by zarianto on Dicembre 15, 2011
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E’ una notte estremamente afosa, come sempre più di frequente se ne verificano negli ultimi anni. Gli inverni miti e le estati fresche riportati dai sussidiari delle scuole elementari, contrapposti agli inverni rigidi e alle estati torride di altri Paesi meno fortunati del nostro, per ubicazione geografica, sono ormai un lontano ricordo. Da tempo l’Italia viene regolarmente presa nella morsa del freddo e del caldo, come annunciano ad effetto, i mezzi stampa, ogni anno. E’ la tropicalizzazione del clima. In questa notte di un caldo e umidità insopportabili, che tagliano il fiato, che per ogni respiro ottenuto affannosamente, cagionano indicibili profluvi sudoripari, capita anche di dover lavorare, di trovarsi a guardia della salute altrui, pronti a intervenire, in caso di necessità, benchè…non ci si regga nemmeno in piedi! Fiaccati da un clima inumano che si appropria dei sonni, di notte, quando, a occhi sbarrati e tra lenzuola madide, si cerca e non si trova la posizione migliore per dormire e che ostacola l’incidere diurno, sempre più sonnolento e rallentato, si reperiscono, dentro e fuori di sè, le risorse da opporre. Così, si spalancano tutte le finestre della stanza, a rischio di essere divorati dalle zanzare e si spingono a manetta le pale del ventilatore: fonda pure!
La città sottostante -il destino beffardo ti colloca anche all’ultimo piano dell’ospedale, dove si accumula l’aria più calda- dorme. Ma dorme davvero, poichè gli abitanti non osano nemmeno uscire di casa. I lampioni illuminano a giorno strade deserte da cui proviene l’eco della voce di pochi ardimentosi che discutono… all’aperto! Quei suoni sono l’unico parametro vitale apprezzabile di un centro urbano in narcosi.
Immancabile giunge una chiamata, che scatena nella mente un’orda di maledizioni, anche in lingue diverse, alcune addirittura morte, poichè si sperava, in tutta franchezza, di averla scampata. Soprattutto perchè si sa bene di essere assai lontani dalla forma, come dire, clinica ottimale, al pieno delle proprie capacità. Ma, con estrema sorpresa, la voce del ricevitore non appartiene a un collega, a un’ infermiere o a un centralinista, bensì… a un amico.
Un amico in grave difficoltà, non di salute, al momento, ma… economica! Trattenendo a stento il pianto e la vergogna, egli racconta di non disporre dei mezzi minimi di sussistenza, del pane, insomma e, di lì a poco, nemmeno più della casa. E’ disoccupato, nonostante trascorra le giornate in file interminabili per un colloquio di lavoro…qualunque, difficile, però, da ottenere a quarant’anni. Emarginato dalla famiglia, lasciato dalla fidanzata che, probabilmente, non hanno energie sufficienti a sostenere altre persone, poichè, a quanto pare, a stento sopravvivono e anche perchè ho l’impressione che alcuni possano considerare la disoccupazione una specie di patologia contagiosa da rifuggire assolutamente e forse non sbagliano di molto, se non perlomeno nell’identificazione del paziente, che in tal caso non dovrebbe essere la persona, ma la società in cui vive, se i tassi di incidenza e
prevalenza -la popolazione colpita, sostanzialmente- sono effettivamenti quelli di una feroce malattia infettiva, ignorato dall’assistenza sociale in quanto single, cioè privo, a questo punto fortunatamente, di altre bocche da sfamare, il malcapitato non sa più a chi rivolgersi.
E allora chiama in tarda serata, furtivamente, come un ladro, col favore delle tenebre, per non essere riconosciuto, evitando anche di esporsi all’attenzione e al giudizio dei famigliari dell’amico che forse lo potrà aiutare, rimettendo nelle mani altrui, l’intera sua dignità! Percependo l’immane difficoltà di chi non ha via d’uscita, lo invito a raggiungermi, nel tentativo di confortarlo. Egli viene in ospedale, all’ultimo piano, provato e non solo per il caldo e si apre. Tornerà poco dopo ai suoi problemi con qualche soldo in tasca, un effimero palliativo.
E poi?
Da almeno vent’anni volano parole come “Lacrime e sangue”, “Sacrifici”, “Tempo di vacche magre” e mi chiedo come si possa essere ancora privi di cura contro la crisi economica mondiale che imperversa da decenni. Si procede tra provvedimenti tampone e misure correttive, ma di eradicazione, nemmeno a parlarne! Il confronto con la medicina è argomento troppo ovvio per essere discusso.
Sortiscono inarrestabili dai meandri della memoria le antiche narrazioni di una nonna a un bimbo che voleva fare il dottore, relative al medico condotto di un tempo, che, dopo la visita domiciliare, non visto, lasciava del denaro sul tavolo della cucina, prima di abbandonare l’abitazione del paziente. Sprofondo nuovamente nella poltrona del medico di guardia e torno a fissare le pale del ventilatore che roteano vorticosamente, allontanando un po’ di quell’arsura irrespirabile dal mio volto e ad ascoltare il silenzio innaturale della città che irrompe nella stanza dalle finestre spalancate, augurandomi che non venga più interrotto dal lamento stridulo e fastidioso del cicalino. Il malessere fisico attutisce il senso d’impotenza e la disperazione solidale che tentano di erompere, ma non vi riusciranno, sopraffatte, anch’esse…dal
caldo!
Fa caldo.  Fa freddo.  C’è crisi.

Zarianto

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La Danza del Coagulo

Posted by Sbaru on Novembre 28, 2011
cronache / 2 Commenti

Sono solo uno studente in medicina per ora, non so neanche se posso già lasciare qui traccia della mia esperienza… fatto sta che questa notte è stata la mia prima notte in ospedale.
Frequento in cardiochirurgia e il giovedì gli specializzandi riposano e gli studenti vanno in sala. In questo momento l’unico vero studente sono io, infatti ormai quelli che sostituiscono gli specializzandi il giovedì sono dottori in coda per l’ingresso in specialistica. Ovviamente l’operazione più “scomoda” l’hanno sbolognata a me. Un re-intervento nel tardo pomeriggio… bello, vedere sostituire due valvole da mani esperte è meglio che andare al cinema, soprattutto quando ti trovi lavato sul campo operatorio e ogni tanto ti viene chiesto di toccare un cuore con mano, mettere punti o semplicemente aspirare del sangue.
L’operazione è praticamente finita, è il momento di chiudere…tocca a me! Ma la paziente in questione non ha intenzione di coagulare, il sangue che ristagna nel mediastino è fluido come se avesse preso l’aspirina… la sua ACT resta a 190 anche dopo 2 sacche di plasma. L’intervento che poteva finire in cinque ore sembrerà durare molto di più.
Le garze sembrano sempre più rosse e dopo averle provate tutte, comprese le garze bollenti su pleure e pericardio, una infermiera improvvisa la danza del coagulo. Sono troppo stanco per arrivare a leggere l’ora, ma sicuramente la mezzanotte è passata da un pezzo…ciò che inizia a preoccuparmi maggiormente sono le news dal reparto: una signora, non si sa bene come, ha deciso che era la sera giusta per rompersi l’arteria femorale, e così con due clamps uno a monte e uno a valle della rottura giunge nella sala affianco alla mia in urgenza.
Arrivano notizie di un espianto ex vivo di polmone a un ospedale vicino, tutti scalpitano perché è in corso uno studio importante e uno dei nostri pazienti sta per avere in dono il respiro di qualcun altro.
E in tutto questo io sono sempre lì con le mie garze che ormai non si contano più e sono sempre più rosse. Arriva un giovane strumentista in sala urlando “dissecante”…
è l’urgenza per eccellenza in cardiochirurgia e probabilmente la sua notte sarà ancora più lunga della mia!
BASTA…non ha più senso aspettare, ancora una sacca di plasma e poi si chiude lo sterno, si aggiunge un drenaggio in più, ma ci sono in gioco complicanze ancora peggiori di un sanguinamento post-operatorio dopo dieci ore sotto i ferri!
Finalmente quel torace aperto e irriconoscibile, ora ha un aspetto quasi umano, se non fosse per quei 3 tubi che sbucano poco sopra la pancia!
Esco dalla sala operatoria strappandomi il camice sterile neanche fossi dentro un telefilm…peccato che, neanche fuori dal reparto operatorio, giunge la notizia che il dissecante probabilmente non ce la farà…
mi sento in colpa. Non so perché, ma mi sento sempre in colpa, anche quando nella mia impotenza, non riesco a fare il possibile.
Mi assicuro che la mia paziente stia bene, scrivo l’atto operatorio e fuggo in sella alla mia moto, nel buio della città, lontano dalle luci della corsia di ospedale.
Vorrei fumarmi una sigaretta, ma purtroppo non fumo…mi accontenterò di apprezzare il mio respiro che di norma silenzioso mi permette di vivere e di far sopravvivere…

Sbaru

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50 anni di matrimonio

Posted by rem on Novembre 13, 2011
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Sono le tre e vorrei provare a dormire, oggi la Tc non funziona, il 118 è stato avvisato  e l’afflusso dei pazienti è inferiore al solito, ma basta solo pensare di poter riposare,  prima ancora di pronunciare le fatidiche parole “ragazzi io proverei a mettermi  giù“ che il campanello del triage suona ripetutamente.
Provo lo stesso a stendermi ma so già che servirà solo a farmi rilassare le gambe affaticate per pochi minuti, il telefono  squilla  nella stanza del  medico di guardia. “ ci sono visite” dice Daniele dal triage.
Poi lo incontro prima di entrare in sala visita “ è una coppia di anziani, lui questa sera  le ha misurato la pressione  e l’ha trovata molto bassa così si è spaventato e l’ha portata qui” Sono nervoso, incazzato, volevo davvero riposare, domani speravo di godermi un po’ la giornata invece di morire stramazzato sul letto.
Cazzo è possibile che ormai si venga al pronto soccorso per qualsiasi cazzata, ma se la signora stava bene che cosa l’ha portata a fare e perchè cazzo le ha misurato la pressione alle tre di notte?
Non se ne può più di tutti questi anziani.
Indosso comunque la mia faccia migliore ed entro nella stanza. Di fronte a me c’è un signore  alto con un buon portamento ed un’espressione di scusa quasi avesse sentito le mie parole.
“sa dottore mia moglie ha 88 anni, ha una grave insufficienza mitralica e lei non ha voluto farsi operare ma io ho paura, ho paura che muoia, sa stiamo insieme da 50 anni”.
Ci metto un attimo ad ingoiarmi i pensieri e a sentirmi un imbecille
La moglie è lì, già stesa sul lettino tranquilla con una faccia un po’ seccata
“ è lui, è lui che ha voluto potarmi, io sto bene, non volevo venire, ma lui si spaventa sempre per ogni cosa e mi porta in ospedale  ma quando torniamo a casa mi sente.”
“Va bene signora adesso vediamo”
Gonfio il manicotto e sgonfio lentamente : 120/70,  magnifico! c’è una fibrillazione atriale (già nota) con una frequenza normale, la  signora respira benissimo da supina, la saturazione è sopra i 98% in aria ambiente, c’è  un gran soffio puntale ma non lo straccio di un rumore umido sul torace, niente all’addome, non edemi. Lei  mi guarda e sorride
“ allora dottore è vero che posso tornare  a casa ? tanto io non mi faccio operare ho già deciso, ho 88 anni, dottore. Daniele mi mostra l’ecg: ndp, sovrapponibile ai tracciati precedenti.
“Certo signora che può tornare a casa “.
Lei guarda il marito soddisfatta, lui le si avvicina per baciarla, lei lo allontana, sembrano due ragazzi, potrebbero avere cinquant’anni di meno.
Scaramucce da innamorati.
Cazzo che triste è la  vita. Lui sa che la perderà da un momento all’altro ed ha una paura del diavolo, ha tanta paura che non riesce a godersi il tempo che ancora vivranno insieme. D’altra parte, mi dice, i dottori gli hanno detto che se lei non si farà operare morirà senz’altro e di non farle fare quasi niente, nessuno sforzo, qualcuno la ha anche trattata male perchè ha rifiutato di farsi operare. Sì, lo so, in ogni categoria ci sono gli  stronzi integralisti, o fai come dicono loro o si incazzano, si offendono.
Come se non sapessero che a ottantotto anni, anche senza un’insufficienza mitralica si può morire da un momento all’altro.
O anche a quarant’anni o anche meno.
Come se non sapessero che si muore ugualmente.
Tornate a casa tranquilli, e lei non si preoccupi, la porti pure al mare con la macchina, poi quando siete lì sedetevi davanti al mare  e guardate forte più che potete,  fate finta di niente come se doveste vivere per sempre insieme, non abbiate paura.
E’ quel che mi sento dire, più o meno
Qualche volta mi scordo che le parole servono davvero.
Lui  finalmente si rilassa e sorride.
Chiudo il verbale, vorrei scrivere ‘paura di perdersi dopo 50 anni di matrimonio’
Dici poco? È una diagnosi che mette i brividi, allora scrivo ‘riferita ipotensione in nota insufficienza mitralica severa (la pz ha rifiutato l’intervento cardiochirurgico)’

E’ più corretta,  ma di verità solo l’ombra.

Rem

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Primo giorno d’ospedale

Posted by Magamagò on Agosto 30, 2011
cronache, testimonianze / 5 Commenti

Primo giorno d’ospedale, ma non dalla parte del malato inerme, combattuto tra la sua dignità di uomo del Duemila e l’atavica paura dell’ignoto; no, stavolta sono dall’altra parte della barricata, non ancora medico ma sulla buona strada per diventarlo. Per ora sono una studentessa di Medicina che inizia a fare pratica in Ospedale: in gergo si dice internato.

Già, bisogna che cominci anche io a parlare come “loro“.

L’Ospedale: è un posto dove si gioca un’interminabile partita a scacchi con la Malattia, finché lei, la Nemica con la falce lucente, obbedendo a disegni più alti non allungherà la mano dichiarando scacco matto, o più spesso, si ritirerà nell’ombra.

In fondo la scienza ha fatto passi da gigante, e la chirurgia robotica è qualcosa di infinitamente lontano dalla scheggia di quarzo del primo medico preistorico.

Però il camice, il rito della vestizione prima di un intervento chirurgico, lo stetoscopio freddo poggiato sul filo della schiena a scoprire ogni magagna … tutto ciò è solo progresso o anche stregoneria ?

Forse sono solo rituali magici, esorcismi millenari che rivelano la congenita paura dell’uomo di fronte a fatti più grandi di lui.

Tutto vero, analisi socio-psicologica perfetta, ma allora perché ho scelto di diventare medico anch’io? Diamine, perché ho una folle paura delle malattie, no ?!

Dunque primo giorno d’ospedale, e quello che i maligni definiscono “ il mio restauro quotidiano “ è durato più del solito; non perché io sia proprio un mostro, ma purtroppo Madre Natura mi ha dotato di un aspetto in generale che si usa definire giovanile.

Questo vorrà dire che a cinquant’anni sarò ancora una bella signora, snella e fresca, ma presentemente a ventidue anni suonati e con tutta la mia buona volontà, non dimostro più di 15 anni, e pur essendo matura e intelligente, si sa, anche l’occhio vuole la sua parte.

Ed io, fossi un malato, non mi fiderei più di tanto di una dottoressa che con quel camice bianco sembra appena uscita dall’asilo, dimenticando in aula il suo bel fiocco blu.

Quindi: cerchiamo di invecchiarci!

Primo giorno d’ospedale: non bastano occhi per vedere tutto, né orecchie per ascoltare l’anamnesi del paziente letta con voce monotona dal collega: sembra non basti neanche il cervello per imparare tutto ciò che serve.

Ce la farò? Gli avvenimenti della giornata, piccoli e grandi, rimangono impressi nella mia mente non già come sono ma sotto forma di racconto.

Racconto che farò a tutti: ai miei genitori, che quando mi vedono pallida, a luglio, studiare fino a notte fonda su libroni più grossi di me pensano che loro gli anni della giovinezza non li hanno goduti per via della guerra, però neanche io mi sto divertendo.

Racconto soprattutto da fare al mio lui, conosciuto sui banchi di Anatomia (romanticissimo), il primo di mille che caratterizzeranno la nostra vita in comune.

La cosa più bella è che io ho le idee chiare sul mio futuro e il mio primo giorno d’ospedale potrebbe essere anche uno dei tanti fra dieci o vent’anni; sarò più vecchia, più esperta, toccherà a me spiegare agli studenti, ma l’entusiasmo, il senso del dovere, l’amore per la gente, saranno come oggi, anzi di più.

Primo giorno d’ospedale …o forse è solo un ricordo, di quelli che vengono a chi ha i capelli bianchi e il viso rugoso? Chi sono io, la studentessa col camice bianco o la dottoressa quasi in pensione? Devo vivere ancora la mia vita o è già quasi tutta trascorsa? Chi sono io?… Non dovrei pensare troppo, la mente mi si confonde, è colpa della preanestesia, e poi stare distesi sul lettino e attraversare così tanti corridoi con tante porte …ma non si arriva mai? Ragioniamo: sto per entrare in Sala Operatoria, una cosa semplice, lo so, andrà tutto bene, e poi me lo sta dicendo anche questa graziosa ragazza in camice che cammina affianco della barella.

Quant’è giovane, ha una faccia sbarazzina; con quel camice e quel visino più che una dottoressa sembra una bambina dell’asilo, le manca solo il fiocco blu ….Curioso! Mi ricorda qualcuno ma non so chi, la mia mente scivola nel buio, questa narcosi, bisogna che le paarli doopo …doopo, le parl…curios…

( ritrovato tra le mie carte 35 anni dopo )

Magamagò

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highlander

Posted by zarianto on Agosto 03, 2011
cronache / 2 Commenti

Margherita è una signora di…novantanove anni e mezzo! Ripeto: novantanove anni e mezzo. Vedova, vive sola, in campagna, nei dintorni di una grande città. Spesso, la figlia, ultrasettantenne, le fa visita e le reca aiuto…nell’orto, di cui Margherita si prende amorevole cura; non nelle faccende strettamente domestiche, perché, per quelle, la mamma è del tutto autonoma. Assume una pillola per la pressione e l’aspirinetta. E’ una signora minuta, tutta pelle e ossa che ha attraversato indenne l’intero ventesimo secolo, testimone diretta di due sanguinose guerre mondiali, che, insieme, hanno provocato più di una trentina di milioni di morti e la distruzione di intere nazioni e popoli; della diffusione della penicillina e dei vaccini, che continuano a salvare vite umane; dell’evoluzione dei trasporti, dal cavallo all’ aeroplano e ai veicoli spaziali che hanno condotto l’umanità sulla Luna, gli automi su Marte e Titano e che solo recentemente varcano i confini del sistema solare. Ha vissuto tutto questo, in prima persona! Chissà che potrebbe raccontare! La immagino, di sera, parlare ai bisnipoti degli ultimi regnanti d’Italia, della guerra partigiana e dei bombardamenti, di Carnera, Coppi e Pozzo, della mezzadria, dell’eroico medico condotto del paese che fece nascere i suoi figli e di Papa Giovanni XXIIIesimo. Gli stessi racconti dei miei nonni!
Margherita ha un aneurisma dell’aorta addominale, ovvero una bomba a orologeria nella pancia, pronta ad esplodere da un momento all’altro, provocando un’emorragia quasi sempre mortale. Quando integro, sarebbe anche operabile, in un soggetto più giovane, poiché le statistiche provano che i rischi di sottoporre un ultraottantenne a un tale intervento superano, di gran lunga, i benefici. Quindi, l’aneurisma rimane dov’è e quando si romperà -perché sicuramente si romperà, a meno che il portatore non muoia prima, per altre ragioni- si vedrà.

Un di’ Margherita si reca nell’orto… a zappare la terra, insieme con la figlia. Di pomeriggio, d’un tratto, s’accascia, in preda a un violento dolore addominale. La figlia, conoscendo la probabile causa, chiede immediatamente soccorso e Margherita giunge al dipartimento di emergenza e accettazione dell’ospedale di provincia più vicino, dove vengono praticati antidolorifici ed  effettuate le indagini clinico-diagnostiche del caso, che confermano i sospetti di rottura dell’aneurisma. Le viene spiegato che la cura consiste proprio in quell’intervento sconsigliato in precedenza, cioè ancora in condizioni controllate, che ora sarebbe assai più problematico e rischioso, ma in assenza del quale non vi sarebbe sopravvivenza. Margherita chiede che comunque si tenti di salvarla. E così, il piccolo ospedale di periferia, sprovvisto di competenza specifica, contatta il centro cittadino di riferimento, cui trasferire il caso. Ricorderò sempre l’espressione quasi colpevole, nonché dimessa, del chirurgo vascolare che mi si fa incontro alle ore 22.00 circa, nel corridoio della sala operatoria, dopo aver preso accordi telefonici per il trattamento del caso, che, guardando in terra e allargando le braccia, mi dice: “Che ci posso fare? Me la mandano!”. Così operiamo e Margherita, dopo una esanguino-trasfusione, cioè la sostituzione di tutto il suo sangue con emotrasfusioni, alle ore 06.00 del mattino è seduta sulla barella antistante la sala operatoria, quasi pronta per raggiungere il reparto di chirurgia vascolare, dove rimane per circa un mese (giusto il tempo di guarire da una brutta polmonite insorta successivamente!) per poi tornare alla sua casa in campagna, dove, sei mesi dopo, festeggeremo il suo compleanno!

Ma ricordo altri particolari di quella vicenda, direi quasi surreale e incredibile, se non l’avessi vissuta in prima persona, nell’intima, consapevole e inspiegabile solitudine che si prova durante una lunga notte di guardia, soprattutto nella completa clausura di un blocco operatorio e nonostante si sia circondati dal resto dell’equipe chirurgica. Uno è la faccia divertita del nipote medico che, guardandomi un po’ di traverso, da dietro gli occhiali e con un sorriso sarcastico, sembrava voler dire “Fammi un po’ vedere quel pazzo furioso e incosciente che ha avuto il coraggio di portarla in sala operatoria!”, che è poi esattamente ciò che avrei pensato io al suo posto! In realtà era piacevolmente sorpreso nel ritrovarsi vivo il caro estinto, perché pensava che non avremmo operato.
Il secondo è un articolo di quattro colonne all’interno di un quotidiano di rilievo nazionale, uscito alcuni mesi dopo la nostra vicenda, dedicato non a Margherita, bensì a un ottantacinquenne operato per un aneurisma dell’aorta addominale cresciuto di dimensioni, ma non rotto, trattato in un policlinico,
con tanto di fotografia a centro pagina, del vecchino, seduto nel letto della terapia intensiva che, ahimè, morì alcuni giorni dopo. Margherita ebbe unicamente una colonna sul giornalino del paese, grazie alla nipote fotografa.
E pensare che noi volevamo pubblicare il case report sulla rivista medica
“Criminal Surgery”

Zarianto

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cartoline dall’orlo del vulcano

Posted by Morris on Luglio 02, 2011
cronache / 2 Commenti

Tutti nella vita hanno quello che cercano. Io cercavo una missione. E per i miei peccati me ne hanno dato una“.
Cap. Benjamin Willard (Martin Sheen) in “Apocalypse Now”, F.F. Coppola, 1979.

Oddio, forse come inizio è un po’ pomposo, ma è quello che mi è venuto in mente il mio primo giorno da Dirigente Responsabile del Servizio “Medicina Post-acuti” (si, vabbè, la Lungodegenza) entrando in Reparto.
Dopo anni passati a cercare in qualche modo di ritagliarmi uno spazio mio e di smarcarmi in modo da avere il meno gente possibile sopra la testa, finalmente posso mettere il mio nome sulla tabella in testata al corridoio.
E ora che sono qui, che faccio? Come devo comportarmi per destreggiarmi al meglio in questa sequenza di stanze occupate, sostanzialmente, da poveri vecchi con le 3D (disidratazione, denutrizione, demenza)?
Garantirgli un adeguato apporto di liquidi e di calorie, certo. Evitare che si ulcerino. Cercare di mobilizzarli il prima possibile. Prevenire le infezioni opportunistiche (anche se di tanto in tanto ti tocca di raccogliere un bel fiore di campo come un Clostridio, un Acinetobacter, uno Stafilococco resistente anche alle martellate, in genere gentili omaggi inviati alla zitta dagli altri reparti).
E poi? I posti in RSA dove eventualmente girare quelli che non sono in condizioni di tornare a casa sono sempre meno, e i servizi sociali sono un’entità inafferrabile ed incorporea come la Pace nel Mondo (quando telefoni per cercare un’assistente sociale che ha in carico un determinato caso, la risposta standard di solito è : “E’ in ferie/ è a un corso di aggiornamento/ è in malattia.”).
Quando si avvicina la data della dimissione, pardon, del “reinserimento al domicilio”, di solito ti tocca affrontare parenti che di fronte alla prospettiva di doversi prendere di nuovo carico del cambio pannolini/padella diventano più incazzati dell’orsa a cui hanno toccato i cuccioli; e anche durante la degenza ti tocca affrontare surreali colloqui coi congiunti di poveretti ormai con un piede nella fossa che ti chiedono conto del perché non si fa una TAC o una risonanza “per vedere come sta”.
Senza contare che di tanto in tanto ti capitano situazioni kafkiane come quella della signora trasferitaci dalla Geriatria con una etichetta di “demenza di grado severo”, nonostante conosca persone molto più decerebrate di lei in giro a piede libero per il mondo, cosa che fa sì che a norma di legge non possa essere dimessa perché vive da sola. E siccome i parenti, tutti fuori città , non ne vogliono sapere mezza, ci tocca tenercela finchè il tribunale non delibererà il nome di un tutore legale che potrà occuparsi delle pratiche per trasferirla ad una struttura protetta. E nel frattempo lei ciabatta, sempre più sarcastica, per il corridoio: “Ueh, dottore, allora, me la danno l’amnistia, o mi devo mettere in politica per averla?”
E’ che la lungodegenza è una specie di osservatorio privilegiato di quella specie di Fort Apache che sta diventando il nostro Welfare, assediato dalla crescente pressione di una popolazione di anziani via via sempre più numerosa, con età sempre più alte, con problemi di autosufficienza conseguentemente maggiori, e con famiglie sempre più in difficoltà a farsene carico. Una volta era un punto di onore prendersi cura dei propri vecchi, e quando arrivava il momento, non farli morire in ospedale. Ma erano famiglie con più figli, in cui le donne spesso non lavoravano, e in cui la vecchiaia forse era vista come un traguardo, e non come un disonore come accade invece adesso.
Stiamo in piedi sul bordo del cratere di un vulcano, e facciamo foto da mandare agli amici, pensando che, certo, il vulcano fa paura, ma non si metterà mica ad eruttare adesso. Eppure l’eruzione non tarderà molto, e minaccia di spazzare via il nostro sistema sanitario.
Lo diciamo ai ragazzi che iniziano adesso una professione sanitaria, alcuni dei quali si affacciano a questo blog pieni di belle speranze e di buona volontà, che saranno chiamati a fare, prima ancora che i medici, i “gestori di risorse” e i misuratori della cost/efficacy? Che saranno chiamati a scegliere a chi dare le cure più costose e a chi no, e che fra i “chi no” ci saranno sicuramente i vecchi?
Certo, è una sfida grossa quella che ci aspetta, e bisognerebbe che, nei ritagli di tempo fra le loro mene private i nostri dirigenti cominciassero a farlo capire anche all’ opinione pubblica; sempre che l’opinione pubblica sia ancora in grado di recepire.
L’altro giorno arrivando in corsia mi sono fermato a prendere le consegne dal medico che aveva fatto la guardia di notte, la Grigorieva.
La Grigorieva è una collega di origini russe che viene da noi a coprire dei turni di guardia a libera professione. E’ giovane, carina, molto precisa. E, ahimè, piuttosto carente di malizia. Di ritorno da una vacanza ai tropici, ha portato le sue foto ricordo con una chiavetta e le ha salvate sul computer della medicheria; solo che in quelle foto compare con fidanzato palestrato d’ordinanza, e uno strepitoso microbikini rosso. Così le immagini sono diventate di pubblico dominio presso tutti i bipedi maschi dell’ospedale (in prevalenza in ragione del microbikini, per una minoranza in ragione del fidanzato palestrato), e qualche bello spirito ha perfino suggerito di usarle per il calendario di reparto.
Quindi da allora parlare con lei considerandola solo professionalmente ed in maniera asessuata è diventata una specie di esercizio zen. A me viene più facile se la chiamo per cognome: se socchiudo gli occhi mi viene in mente una robusta ed affidabile badante slava, con grosso modo lo stesso girovita di uno scaldabagno.
La Grigorieva, puntigliosamente, mi espone tutti gli interventi che ha fatto sui nostri pazienti, e arriva infine al caso di una paziente che, ipotesa ed anurica da ieri sera, è stata messa sotto Revivan, con un lieve miglioramento del quadro. Pensando di non aver capito bene, apro la cartella in questione e l’occhio mi cade subito sulla data di nascita sul frontespizio: 1909. Paziente con, lei sì, grave demenza vascolare e un avanzato marasma senile. Praticamente uno scheletro ricoperto di pelle diafana ripiegato in triplice flessione.
“Scusami, Grigorieva, fammi capire, vuoi dire che stiamo tenendo a galla per i capelli con la Dopa una donna di 102 anni?”
Lei mi guarda un po’ sulla difensiva , e fa spallucce.
“E che ci devo fare io ? Quando mi hanno chiamata a vederla ieri sera, e mi sono resa conto che la signora ne aveva per poco, l’ho fatto presente alla figlia. Lei mi ha guardata sconvolta e ha gridato: Ma come, così, tutto all’improvviso?”

Morris

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