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La magia del Natale

Posted by Magamagò on aprile 15, 2017
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foto di BDV

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E’ la vigilia di Natale, la notte del 24 dicembre, per essere chiara, ed io sono di guardia in Rianimazione; ho scelto io questo turno, tanto mio marito è reperibile chirurgo, la bimba è a casa coi nonni… sistemato tutti, così domani saremo liberi di festeggiare. Abbiamo anticipato solo l’apertura dei regali che stavano sotto l’albero già da un po’. A casa mia si aprono il 24 sera, a casa di mio marito si aprirebbero il 25 mattina ma naturalmente ha vinto la mia tradizione, complice anche nostra figlia che non vedeva l’ora.
Sembra una notte tranquilla, con pochi pazienti e tutti stabili: l’ultima arrivata è una nonnina di 90 anni a cui un embolo ha tolto quel poco di lucidità che l’Alzheimer aveva risparmiato. Fa tenerezza, sembra un uccellino caduto dal nido, piccolina,come me, magrolina; era una professoressa di lettere quando era nei suoi panni, molto amata e rispettata dai suoi alunni mi dicono, e che viveva per la sua “missione “. La definiva così la sua professione. Ogni lavoro, se svolto con impegno e passione è una missione da portare avanti nel mondo, diceva mia madre.
E’ una notte tranquilla e siccome siamo una Rianimazione aperta permettiamo ai familiari di entrare e stare il più possibile accanto ai loro cari.
Ma stanotte fuori nel corridoio ad aspettare c’è solo la figlia della nonnina; ci passa le giornate nel corridoio, su di una sedia, lo sguardo perso fuori dalla finestra, immobile. Le faccio cenno di entrare, cerco di allacciare un rapporto.”Niente festeggiamenti?” La frase cretina (inopportuna avrebbe sottolineato mia madre con la matita blu) mi scappa di bocca, sto per scusarmi quando lei mi risponde alzando le spalle: “La mia famiglia è qui”.
Poi si siede accanto al letto, le prende la mano, quella senza pulsiossimetro al dito e gliela stringe forte forte. Ha imparato subito le regole e i rituali di questa “stazione”e li osserva scrupolosamente, meticolosamente, per non essere la causa involontaria di un allarme. Non abbia paura -la rassicuro- sappiamo distinguere i falsi allarmi da quelli pericolosi.
“Non ho paura -mi risponde- ma sono una bibliotecaria, e ho rispetto per le cose e sono meticolosa di natura, oltre che per abitudine lavorativa “. Mi spiazzano le sue parole,e non è la prima volta;delle persone che incontro qui dentro so sempre troppo poco. Conosco i bisogni essenziali, a volte le aspettative di vita, l’amore che c’è intorno a loro, siano sani o malati. Ma non basta, non basta mai.
“Le parli, le racconti qualcosa di voi, dei bei momenti passati insieme. parli del passato ma non del futuro, forse la sua mamma lo conosce fin troppo bene, meglio di noi, e non vorrei vederlo riflesso nel suo viso”.
Lei mi guarda, annuisce, e poi inizia a parlare, ora guardando la mamma, ora guardando me, ora fissando la mano sottile che stringe nella sua.
“Lo sai mamma che giorno è oggi? Il 25 dicembre: ricordi, lo chiamavi sempre così. Fra qualche ora metterai al mondo due bimbe bellissime, due gemelline adorabili, eterozigote, come sottolineava sempre il professorone che ci aveva aiutate a nascere. E tu, facendo la finta tonta, quella che non ne conosce l’etimologia, pur avendo insegnato greco per una vita, gli chiedevi: “E che significa?” “Che saranno gemelle diverse.” rispondeva con sussiego il professore. E tu allora scoppiavi a ridere, con la tua risata travolgente : “Ma i figli sono sempre diversi, anche nelle somiglianze”.
E’ vero, è stato proprio così, ma tu sei stata una mamma uguale per tutte e due, e nello stesso tempo la mamma che ognuna di noi avrebbe voluto avere, e di cui aveva bisogno. Siamo nate alle 3 di notte del 25 dicembre, ma tu ci facevi sempre due regali, uno per il compleanno e uno per il Natale, fino all’anno scorso. Quest’anno no, quest’anno ci hai fregate.”
Io mi allontano con una scusa di lavoro e con un groppo in gola.
Poi torno, sono le 3, torno e l’abbraccio e le dico: Buon compleanno!
E lei mi risponde: Buon compleanno, sorella mia!

Magamagò

Lo so che è Pasqua, ma c’è poca magia a Pasqua.

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La regola delle tre P

Posted by Zoro on dicembre 19, 2016
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“Una cosa che probabilmente la mattina non farete mai è guardarvi allo specchio e chiedervi: sono uno stronzo? (…) Probabilmente nel mondo ci sono dei veri idioti e di sicuro molti di loro hanno una buona opinione di sé. Non si considerano delle carogne, perché il prendere coscienza della propria stronzaggine è abbastanza difficile.”

Eric Schwitzgebel, dall’articolo ”How to tell if you’re a yerk” Nautilus, 15/9/2016

 

 

Prepotente, Presuntuoso, Paraculo.

Quali migliori caratteristiche per uno che ti lavora a fianco?

Hai sempre sperato di avere accanto una persona (un artista!) che sa di lavorare cosi bene che trova il modo di criticare tutto e tutti, dove, ovviamente, lui, invece, ha sempre la soluzione pronta, il protocollo adatto, la posologia giusta.

E sempre corroborata da una solida biografia, sempre millantata ma mai esibita, spesso controcorrente, a volte inventata di sana pianta, soprattutto quando, palesemente, non esiste. Solo lui, genio incompreso, lavora correttamente, sottolineando puntualmente le tue imprecisioni o presunte mancanze, anzi, puoi essere sicuro che le ha già fotocopiate e documentate e messe da parte nel caso in cui mai avessi per pura invidia, da mettere in dubbio il suo corretto operato.

Di ogni argomento ha la soluzione giusta, ogni diatriba è buona per sparare pareri che nessuno richiede.

Di collaborare poi non se ne parla. Al suo pari non ce n’è, e soprattutto non si fida. Nemmeno c’è nessuno che si voglia prendere l’improbo fardello.

Da buon paranoico ipotizza le complicanze più strampalate: ogni intubazione e difficile, ogni decimo di potassio di deficit prolunga l’inizio dell’induzione, posticipato a situazione riequilibrata, la pre-ossigenazione è un rito iniziatico, cosi come l’incannulamento venoso, precario se fatto da altri e quindi da sostituirsi di default.

L’anestesia è sicura solo se si dispone di tutti i monitoraggi possibili, e quindi non è infrequente una preparazione completa di arteria, vena centrale, intubazione, magari da sveglio e con il fibroscopio… e poco importa se l’intervento è un raschiamento, un tunnel carpale o una cataratta.

Tra induzione e risveglio le sue anestesie durano mediamente un’ora in più, col paziente trattenuto in osservazione per ore, finche non arrivi cambio di turno a graziarlo.

Il suo nemico giurato è il chirurgo, bramoso solo di menare le mani e metterle nella pancia/utero/bocca/schiena (dipende dalla specialità) del malcapitato paziente, di cui il cerusico ignora la vera condizione cinica e che toccherà all’anestesista difendere e tutelare.

La sua è una crociata, una lotta all’ultimo sangue per sottrarre il  paziente alle grinfie dell’orco chirurgo…

Quando poi l’ignaro paziente si lasci scappare in anamnesi il dolorino toracico non indagato, la sincope di ndd, ci penserà lui a infilarlo in un tunnel diagnostico infinito, da cui difficilmente riuscirà indenne, perchè qualcosa che non va si trova sempre.

L’unica cosa che manca, che proprio non si trova da nessun parte è il buonsenso. Di quello proprio non ce n’è…

Zoro

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Il Maresciallo se n’è andato

Posted by Mentepreziosa on dicembre 06, 2015
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foto di EP

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Alto, elegante, profumato, curato; il ciuffo bianco sempre ben lisciato all’indietro, fino all’ultimo; gli occhi chiari e buoni sempre vividi, nonostante la miosi dei giorni vicini alla fine; l’eloquio elegante, gentile, rispettoso come può averlo solo chi è abituato al rispetto della gerarchia, non solo formale ma anche sostanziale. L’ultima settimana l’ha trascorsa quasi muto, senza riuscire ad articolare altro che qualche sillaba afona, qualche smorfia sofferente, qualche lieve lamento: “non fa niente che non riesce a parlare: ci intenderemo a gesti! Le fa male qui? E qui? Mi fa vedere la lingua?”.

Ridotto allo scheletro di sé stesso, mangiato dall’interno da quella stessa belva cui aveva tenuto testa, guadagnando dieci anni di incredibile sopravvivenza (dato per morto un’infinità di volte, si era difeso così strenuamente da sopportare resezioni epatiche, chemioembolizzazioni, termoablazioni ed infine, quando si era ormai constatata la progressione allo stadio multifocale, la chemioterapia e gli scompensi sempre più frequenti, che ne avevano deformato i tratti e l’addome), superando la rottura delle varici esofagee, l’oliguria e l’ischemia che probabilmente ha spento le sue parole, si è consumato lentamente, proprio come una candela, man mano che le funzioni superiori del suo corpo venivano meno.

Sembra ancora così strano non vederlo al mattino, al giro visite; sembra ancora così inconsueta l’assenza del suo nome nella tabella dei pazienti da dividersi; sembra così dolce, delicata, attesa la sua morte da non essere quasi compatibile con l’idea di sofferenza.

Eppure. Che ne so di cosa si agitava nel suo cuore negli ultimi mesi e più ancora negli ultimi giorni, intuendo a cosa sarebbe andato incontro, perfettamente vigile ed orientato, quando alla mia domanda sorridente “come andiamo oggi, Maresciallo?” rispondeva a gesti “e come vuole che vada? Sto morendo”; non potrò mai comprendere quali immagini si dipingevano dietro le sue palpebre quando tentava di gridare di staccare tutto, di non fare più niente, di lasciarlo morire; non sarò mai abbastanza sapiente da discernere se per un uomo sia meglio avere una fibra forte e sopportare settimane di agonia per separarsi dolcemente e poco a poco dalla vita oppure avere un cuore debole, che al primo accenno di edema polmonare, si dispone al riposo.

So per certo però che ho il dovere di non sprecare gli ultimi giorni di vita di un uomo, di non lasciarlo assopito nel suo letto come se fosse già morto, visitarlo come se fosse già morto, toccarlo come se fosse già morto, parlarne come se fosse già morto; mi rendo conto sempre di più che non posso entrare in ospedale pensando di non sorridere: il sorriso è troppo prezioso; loro sentono terribilmente il sorriso, perché dice che non stanno sopravvivendo solo per morire più tardi, solo perché il loro corpo si rifiuta di lasciare la presa ma perché possono ancora ricevere e possono ancora dare. Ci ha ringraziati “per tutto”, con le lacrime agli occhi: a me non hanno fatto paura quelle lacrime, le avevo anche io; mi ha fatto paura la sua paura davanti all’ultimo istante, quella paura che è così ben conficcata nel nostro cuore da avere pudore a vederla negli altri.

E allora l’ho accarezzato, come al solito, come ogni mattina, sulle guance e sulla fronte, gli ho stretto forte la mano e ho sostenuto il suo sguardo perché sapesse che c’eravamo, che lo accompagnavamo e che non aveva sbagliato a riporre la sua fiducia in noi, volendo trascorrere in ospedale gli ultimi momenti, piuttosto che rimanere a morire nel suo letto. Si è congedato da noi con la gentilezza con cui ci si era proposto, dai suoi nipotini con la dolcezza di non rifiutare la loro visita, dai suoi figli con la serenità di sostenere il suo rifiuto all’accanimento terapeutico, dalla moglie con la consapevolezza di aver camminato con lei fin dove poteva.

Ed è morto con qualcuno di noi, perché morire durante un turno di guardia in cui tutti i medici non sono del reparto è troppo brutto. Ed è svanita tutta la sofferenza, tutto l’orrore, tutta la greve atmosfera che pesava su quelle ultime due stanze del reparto: l’altro higlander se n’era andato il giorno prima, nel suo letto. Rimane solo il sollievo, perché tutto è compiuto e i commenti degli infermieri e dei colleghi, “perché era una brava persona”.

Il Maresciallo se n’è andato. Davanti alla morte siamo tutti uguali, non contano titoli, onori, ricchezze ma certi ruoli, ai più fortunati, rimangono addosso per sempre. E se i pazienti sono tutti “Signori”, qualcuno è anche “Dottore”, “Professore”, “Maresciallo”. Da parte nostra, forse, riconoscere questa fusione tra la persona e il ruolo che aveva nella società, persino in un letto di ospedale, è un modo per vedere l’Uomo oltre la malattia, oltre il numero di registro; è restituire all’ammalato la dignità che merita per il solo fatto di stare lì, nudo, davanti a noi, vestiti. Che non sia mai un bieco strumento di potere asservito ad altrettanto immondi favoritismi verso “il Dottore” piuttosto che verso “lo straniero, il tossicodipendente, la casalinga,…”, perché davanti alla sofferenza siamo tutti uguali e ciò che ci distingue è solo quanto riusciamo a non diventare cattivi.

Mentepreziosa

Woman in black

Posted by Stellasplendente on giugno 26, 2015
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Foto di EP

Foto di EP

La donna si aggirava per la corsia dell’ospedale senza riuscire a darsi pace. Le occhiaie nere fino agli angoli della bocca su un incarnato scuro, i vestiti rigorosamente neri, come da quando era rimasta vedova anni prima. Non si rassegnava alla fatalità che anche questo figlio la stesse lasciando. Le aveva procurato non pochi problemi in passato. La tossicodipendenza, l’epatite C, l’alcol, il tabagismo. Tante volte si era augurata la sua morte, non riuscendo ad aiutarlo a smettere, di drogarsi, di bere, di fumare. Insomma, non riuscendo a sottrarlo alle sue dipendenze fatali. Per anni non si erano parlati. Lei si rifiutava perfino di rispondergli al telefono quando, per l’ennesima volta, la chiamava per chiederle soldi. Non ne poteva più delle sue richieste querule e assidue. Sempre la stessa storia che si ripeteva con gli stessi clichè. Prima che trovasse il coraggio di sbatterlo fuori di casa, le aveva fatto fuori la collezione di quadri antichi ereditati dallo suocero. Si era dannata perché il destino crudele le aveva portato via i suoi frutti migliori: in un sol colpo, in un tragico incidente, i suoi due figli maggiori, le sue perle. E, se Dio esiste, cosa della quale dubitava sempre più spesso negli ultimi anni, le aveva lasciato quella gatta da pelare, quella palla al piede del figlio tossico. Era stata la polizia, due anni prima, che la aveva salvata, trascinando la belva in piena crisi di astinenza via nel cuore della notte. Era riuscita a chiedere miracolosamente aiuto scampando alle urla minacciose e al coltello da cucina con la quale l’aveva rincorsa intorno al tavolo. I poliziotti lo avevano sentito urlare come una fiera ferita: “Se non mi dai i soldi ti ammazzo!” e, lei ben sapeva che i tossici in astinenza non scherzano affatto. Da allora non l’aveva più voluto vedere né sentire, anche se della famiglia, non gli restava che lui. Fino a due settimane fa, quando aveva ricevuto una telefonata dall’ospedale. Una voce gentile di donna la avvertiva di recarsi presso il reparto di medicina: “Suo figlio è molto grave”, le aveva detto con un fil di voce. Il suo cuore di mamma aveva sussultato. Si era sentita stringere in gola, aveva provato una sensazione di soffocamento come una mano sul collo che cercasse di strangolarla. Aveva sentito scenderle una lacrima lungo il viso, ma subito si era asciugata gli occhi con lo straccetto bianco con il quale stava pulendo l’argenteria. Non doveva piangere, non per lui, non ne valeva la pena. Nel suo cuore lui era già morto da due anni. Si sentì in colpa, quando notò la fotografia di suo marito buonanima che, con il suo sguardo ceruleo, la osservava serio dalla fotografia accanto al comodino da letto. Riusciva sempre a farla sentire così, inadeguata, anche ora che si trovava al cimitero. Al diavolo! Lui non c’era più, e a lei aveva lasciato tutte le incombenze. Troppo facile sparire così, lasciandola nei guai. Da sola. D’altra parte anche da vivo non era stata una gran presenza la sua, troppo impegnato con il lavoro, a pensare agli affari suoi e a rincorrere le gonnelle delle sue giovani segretarie. Le sue belle responsabilità le aveva se questo figlio era cresciuto così, sbandato. Ma ora era inutile lagnarsi. La donna si preparò per uscire di casa, infilandosi un paio di scarpe basse e comode, rigorosamente nere. Prese il cappotto, nero, la sciarpa, nera, e l’ombrello, anch’esso nero con qualche macchia marrone. Chiuse il portone blindato a chiave, e si apprestò a chiamare un taxi che, al cenno della sua mano gentile ma ruvida, si fermò. “Mi porti all’ospedale. Subito”.
Quando lo vide, sdraiato nel letto con le contenzioni a braccia e gambe, che cercava di divincolarsi con forza, quasi non lo riconobbe. Lo aveva sentito urlare fin dall’ingresso al sesto piano. Le frasi erano sconclusionate, senza filo logico, ma la voce era, inconfondibilmente, la sua, roca e querula, la stessa che aveva sentito troppe volte chiederle denaro. Ebbe l’impulso di allontanarsi, girare i tacchi e ritornarsene nella quiete della sua casa buia. Ma poi si fermò. Avanzò con passo lento fino alla stanza da cui provenivano le urla. Il colorito della sua pelle era giallo, come quello di un limone appena colto. Anche gli occhi erano gialli, fanali nella notte. Puzzava di sudore e pipì. Il pannolone era fradicio e lui, con le unghie luride, se lo stava strappando a piccoli pezzi, incurante delle fasce che lo tenevano legato alle sbarre del letto. L’addome era gonfio come un palloncino che sta per esplodere. Lo sguardo perso nel vuoto a rincorrere piccoli terrifici insetti immaginari. “Via! Andate via, mosche della malora!”, urlava senza tregua. I vicini di letto, infastiditi dalle continua urla, avevano provveduto a chiedere che gli venisse praticato un sedativo, ma a nulla era valso. Ormai era quasi un giorno e una notte che non la smetteva di gridare. La madre si avvicinò al letto e, istintivamente, gli afferrò una mano, come quando da bambino voleva fargli attraversare la strada.

I loro sguardi si incrociarono e lui urlò ancora più forte: “Mamma! Ti voglio bene!”. Non aveva mai detto questa frase o, perlomeno, non da quando era diventato adulto. La sensazione di costrizione alla gola, riprese più forte e la donna dovette farsi forza per non cadere a terra. Prese una sedia e si accasciò rumorosamente su di essa, facendone scricchiolare le giunture, logore come le sue articolazioni. Le sembrò come se tutto quel tempo in cui erano stati separati, di colpo si fosse annullato. Lo rivide bambino con i pantaloni corti a rincorrere il pallone, nel suo primo giorno di scuola con i lacrimoni agli occhi, nel giorno della sua prima comunione accanto ai fratellini sorridenti quando ancora sembravano una vera famiglia. “Non mi lasciare, figlio mio”, si sorprese a dire con un vigore che credeva di aver perso. Lo strinse forte al petto per non lasciarlo andare. Ora che l’aveva ritrovato, non doveva, non poteva finire così. Un medico di mezza età, con gli occhiali spessi e la schiena curva, le si avvicinò e le cinse con una mano la spalla sinistra. “Mi dispiace, signora”. Gli occhi della donna, bui e incattiviti dal tempo, incrociarono quelli chiari e buoni del dottore, nascosti dalle lenti spesse. Non disse una parola. Non c’era nulla da dire. Ora le rimaneva solo una cosa da fare: accompagnare, come aveva fatto per la sua nascita, quel figlio ribelle verso il suo destino. Accarezzandolo, gli cantò una lunga ninna nanna. Lentamente l’uomo bambino si acquietò e si abbandonò sereno come un neonato sul grembo materno.

Stellasplendente

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Nuovo ricovero

Posted by Midiego on maggio 01, 2015
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Foto di MV

Foto di MV

Entra in reparto un barella, accompagnata da mascherine di protezione, è la prima cosa che noto, si accende il dubbio… Sulla barella spiccano oltre la mascherina un paio di occhi, di quelli che noi occidentali non possiamo permetterci. Un insieme di ossa raggruppate da un velo di pelle, una voce flebile imbarazzata, e lo sguardo sperso, impaurito. Non parla italiano, ne’ inglese, ne’ francese, ma una lingua che viene da lontano, talmente radicata nelle sue origini che prende il nome dal proprio popolo. Il traduttore c’è e mi aiuta a capire chi mi trovo davanti, almeno in senso clinico.
È quello che viene dopo che fa la differenza.
Costretto in isolamento dentro una stanza, solo, sento per lui l’ulteriore discriminazione che si aggiunge a quella che c’è già in giro, come se non bastasse. Porta sulla pelle i segni della guerra, le cicatrici dell’imposizione di presunti valori e regole che non appartengono a nessuna morale se non quella che segue la follia umana. Nella banale intimità del corridoio mi racconta a gesti e improvvisate parole come la baionetta gli abbia trafitto il torace, il calcio del fucile ferito la fronte, le percosse e le cinghiate abbiano segnato in realtà soltanto quel velo di pelle..
La verità è che hanno compromesso definitivamente orgoglio, anima, cuore, sentimento, dignità, diritti.
La verità sono gli otto mesi di cammino a piedi dall’Afghanistan all’Italia, e i suoi compagni morti di stento, con dentro agli occhi soltanto più la speranza di quel cammino.
La verità sono i suoi fratelli minori uccisi a colpi di kalashnikov, i suoi figli e sua moglie rinchiusi in casa per non cadere sotto i cecchini.
La verità sono i valori di una religione antica, manipolati per seminare terrore tra la gente, una guerra tra i poveri.
La verità traspare da quegli occhi.
Che alla fine su quel letto d’ospedale siamo poi tutti uguali senza distinzione alcuna.
Che fermarsi ad un pregiudizio, non ne vale mai la pena. Mai.

Midiego

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Pezhman, suonatore di Tar

Posted by Labile on agosto 06, 2014
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tar azerbaijan“ Se mi avessero calpestato come attraversando un campo di rose avrei parlato  con le parole profumate della poesia.

Se avessero accarezzato il mio corpo con una piuma avrei raccontato delle carezze dell’amore in una notte d’estate.

Se  avessero chiesto il conto del mio sguardo lo avrei risolto semplicemente con l’attesa, quella parola con cui gli altri mi chiamano libero e che io chiamo unicamente vivere.

Vivere,vivere, vivere senza l’infelicità di un  domani che significa morire .”

….. Appena apre gli occhi, mi vede nella penombra di una sala rossa illuminata dalla sola luce  del monitor.

Il verde smeraldo della traccia cardiaca, il tenue azzurro della traccia capnografica, il giallo siena della frequenza respiratoria.

Il bianco, il bianco, un bianco onirico che gli restituisce la mia faccia sovrapponendola a quella di un suo passato aguzzino.

“Hanno torturato il mio corpo come quello di un santo, trafitto, bastonato, saccheggiato di umori e di lamenti alla ricerca di una parola delatoria che non saprà mai raccontare l’ angoscia della mia gente.”

Stringe al petto una strana custodia nera, rigida , di pelle come quella di un violino smagrito e allungato nelle forme.

La stringe con dita lunghe e sottili, deformate leggermente a martelletto sulle punte come un suonatore a lungo invecchiato sulle corde.

Il viso ancora giovanile sprofondato in uno sguardo precocemente invecchiato, barba cresciuta nella notte e capelli arruffati in un biancore spaventato.

Fuggito da un paese infiammato  dalla guerra, attraversato da  confini mai ben  compresi per approdare in una terra amata già da lontano.

“Il verde smeraldo delle mie colline, l’azzurro tenue del cielo e il richiamo giallo dei fiori a primavera ….”

Vivere, vivere e ancora vivere della propria musica, mai soddisfatto del dolore e di un  corpo che restituisce la memoria.

Memoria  del corpo torturato, del  corpo martirizzato, del  corpo violato.

È così che stringe la custodia del suo Tar al petto, per ricordare che è lì che il suo cuore approda e trova rifugio, calcando la nostalgia come l’unica malattia che non potrà mai ammazzare.

“Non legare il cuore a nessuna dimora, perché soffrirai quando te la strapperanno via.” 

Rumi  (Jalāl ad-Dīn Muhammad Balkhī  1207-1273  poeta mistico persiano)

Labile

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Emily

Posted by Labile on giugno 10, 2014
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immagine da RS

Unico fotoritratto conosciuto di Emily Dickinson, dagherrotipo, 1847

 

 

È quasi mattino, una luce indefinita si fa spazio nella notte avanzando coi cinguettii tipici del un risveglio estivo. Una infinita moltitudine di uccelli nascosti in ogni possibile anfratto partecipa al baccano, che a ben ascoltarlo celebra il risveglio, come una elaborata orchestra che celebra la vita.

Noi, insonni ospedalieri, siamo quasi alla fine del turno, il migliore o il peggiore, quello notturno che di piacevole ha , appunto, questa ora che ci avvicina alla fine aspettando il cambio.

Appassionante come può essere una liberazione, onirica nel bisogno di riposo, urgente e bella come la luce che invade le colline.

I  primi di raggi di sole ancora freschi e dorati come lo sono in questo mese di Luglio in un anno così indefinito da sembrare eterno.

Giunge mentre osserviamo lo splendore dalla finestre e di spalle non ci accorgiamo del suo arrivo.

Passettini silenziosi senza fretta l’hanno portata qui con il desiderio di essere ascoltata, il  peso portato nel petto nella notte appena trascorsa che  l’ha spinta a venire.

“ Solo un consiglio …  poi torno a casa, alle mie cose”.

A vederla così all’improvviso alta e magra, esile figura di altri tempi, semplice e chiara come una forma apparsa dal nulla, vestita di cotonina fiorita,  mani forti e annerite,  torte nel grembo piatto mai partorito.

Contadina scesa da uno dei paesi del monte in cui fa giorno prima, specie d’estate che l’attesa fa presto a divenire fretta, sempre, quando qualcuno ha bisogno di noi.

“ Il cuore strabatte che lo sento nelle orecchie e nel petto un volo d’anatre indaffarate che mi stringono il collo”.

Ci parla con antiche e  sorpassate parole che nessuno, oggi,  più è disposto ad usare e tantomeno ad ascoltare.

Descrive così bene il suo disturbo che ha già fatto diagnosi ben prima dei consueti esami.

È come se scendendo dal monte potesse venire a bere un bicchierino d’acqua fresca e tornarsene semplicemente così alle sue cose, al suo orto e alle sue galline.

“Alle cose che anneriscono le mie mani,  ma schiariscono bene la mente” ci tiene a dire mentre pratichiamo qualche farmaco.

Prende così l’avvio una conversazione surreale che si mischia ben presto ai suoni degli uccelli di fuori , mentre lei racconta della sua voglia contadina di vivere, semplice e con poche cose, la sua passione di scrivere “a poeta” quello che gli canta da sempre in testa.

Frasi semplici e minute, recitate a bassa voce per non disturbare chi ha sonno,

“Ne ho giusto due qui in tasca e te le voglio lasciare ….

Qualche volta mi capita ancora di trovarli quei due fogli,  avuti in dono  in una mattina di un improbabile Luglio di molti anni fa.

“A brief, but patient illness / An hour to prepare
And one below, this morning / Is where the angels are ”

(Una breve, ma paziente malattia / Un’ora per prepararsi
E una quaggiù, stamane / È dove sono gli angeli)

Emily Dickinson 1858

 

 

Labile

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Un angelo malato

Posted by Angela on maggio 11, 2014
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foto di RR

Durante le mie lunghe notti di guardia, sono tante le volte che la mia mente torna a quei pomeriggi d’inverno assolati… io e lei attorno a quel “braciere”, che mi infuocava le gambe: quanta serenità, quanta sicurezza in un affetto incondizionato. La guardavo incantata: nonostante la sua malattia, presente da quando ho memoria della mia infanzia, la sua  pelle era sempre candida, le sue trecce ordinate attorcigliate intorno alla nuca, i suoi occhi vivaci e inquisitori, il suo sorriso povero di denti, ma così ricco di una bellezza d’altri tempi.

Le nostre chiacchiere coprivano il ticchettio di quella sveglia sul tavolo, in cui un gallo picchiettava di continuo in sincrono con la lancetta dei minuti. Ero capace di raccontarle qualsiasi cosa, e lei era sempre attenta ad ogni mia parola, sempre interessata, sempre partecipe della mia vita, nonostante non ricordavo di averla mai vista lasciare la sua casa .

Lei, cascasse il mondo, ero certa che l’avrei trovata seduta su quella sedia davanti all’ingresso ad aspettarmi.

Non accettavo nemmeno la vaga idea che un giorno avrebbe potuto lasciarmi. No, lei no.

Mia nonna era, ed è ancora tuttora, un amore viscerale, una figura angelica che ha accompagnato la mia vita riempiendola di una tenerezza infinita.

Il desiderio di vederla star bene, mi ha fatto sognare di diventare un medico fin da quando avevo dieci anni. Da quando ne avevo solo quattordici mi occupavo di tutta la sua terapia, e lei amava farsi “curare” solo da me.

Lo so che in realtà era piena di difetti, una matriarca tremenda, ma guai a chi me la toccava, io ero perfetta per lei e lei era perfetta per me.

Ancora oggi, a distanza di ormai quasi dieci anni dalla sua morte, sento il dolore immenso della sua mancanza, il bisogno delle sue mani calde con cui scaldava spesso le mie, sento ancora l’angoscia del nostro addio. Il dolore lancinante durante il viaggio verso casa per raggiungerla durante un suo nuovo malore. La consapevolezza che quella volta la mia amata professione non l’avrebbe aiutata, la mia rassegnazione di un giovane medico che si deve arrendere davanti alla morte non più rimandabile. Il suo “grazie di tutto”…

Nei momenti bui della mia vita, sento quelle mani, stringo forte la sua fede al mio anulare destro, sorrido, e il suo conforto mi arriva fino al cuore, e so che non si separerà mai da me, perché continua a vivere attraverso di me.

Oggi, se sono diventata un medico rianimatore, so per certo di doverlo solo a lei… il mio angelo malato che rivedo in ogni paziente e che mi porta a mettere il cuore ogni giorno in quello che reputo una nobile e meravigliosa professione.

 

 

Angela

Giovani d’oggi

Posted by Ultiva on marzo 27, 2014
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foto di HA

foto di HA

 

Mi fa imbufalire.
Si incazza come una bestia per questioni di principio.
Non sa ancora che nel nostro lavoro il principio va messo da parte…. non tanto perchè non esiste, ma perchè al sistema non importa del “principio”.

Mi fa venire le lacrime agli occhi quando vola e mette il braccialetto che gli regalò la madre di un giovane Paziente deceduto.

Gli attorciglierei le giugulari quando fa lo stizzoso perchè trova lo zaino in disordine o qualcosa che non è al suo posto, come se fossi io il responsabile del disordine degli altri.

Mi lascia spiazzato quando vedo quanto è preciso nel lavorare, come fa andare le mani, come pensa.

Ho istinti omicidi quando, mentre mettiamo in ECMO un Paziente, lui cazzeggia con l’Infermiere.

Ma lui è il futuro, e se ce ne sono tanti come lui, forse non siamo messi così male.

Ultiva

Geronimo

Posted by Labile on gennaio 30, 2014
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L’uomo anziano che arriva in ospedale, annaspa nella poca aria ingurgitata, con la tipica fame d’aria mescolata ad un palese e incontrollabile stato di agitazione.
Il colore, bianchissimo, della pelle mi sorprende mentre taglio la maglietta. Liberato il torace, cominciamo velocemente le manovre consuete per trattare l’edema polmonare imponente che lo travolge.
Incannulate un paio di vene e somministrati i primi farmaci, velocemente collegato al monitor.
“Si, sembra reagire …” è il pensiero che facciamo tutti guardandoci e cominciando ad allentare la tensione provvediamo velocemente al resto.
Nel tagliare la maglietta emergono segni e linee bluastre che pian piano prendono forma. Un uccellino con una rosa in bocca, una scritta che recita eterno amore, una sirena a seno nudo e due code, un cuore dedicato alla mamma.
Tatuaggi abbozzati chissà quando da una mano incerta e in un segno bluastro malamente tratteggiato. Tipici, vista l’età del possessore, dei carcerati.
Di quegli uomini che hanno passato chissà quanti anni “a bottega” come mi spiegherà in seguito Geronimo che con voce stentata risponderà alla mia curiosità.
Si l’ho battezzato subito Geronimo, come il mitico e bellicoso capo indiano Apache, visto che sul suo petto troneggiava anche una enorme figura di un Indiano con copricapo di piume, fumante una lunga pipa, il calumet della pace. La figura, sicuramente il più importante fra i suoi tatuaggi, occupava l’immenso e bianchissimo torace che per parecchio tempo ci ha impegnati a risolvere il suo edema polmonare.
Geronimo, ultraottantenne, ha scontato per un delitto “d’onore ” parecchi anni in carcere. Uomo d’altri tempi, che capita qui in pronto soccorso, trascinando peccati lavati e raccontabili dalla sua pelle tatuata nelle lunghe giornate carcerate con ago e inchiostro, che a distanza di decine di anni hanno assunto una particolare colorazione bluastra che raccontano la sua personale visione dell’amore provato per la sua donna passato per un onore schizzato di fango.
Uomo d’altra epoca, di quelli che la donna era prima la mamma e poi la moglie, sempre da amare all’infinito e sempre da proteggere magari smacchiando le offese nel sangue, come accadeva nell’Italia dei primi anni ’50.
Geronimo raccontandomi e spiegandomi il significato dei suoi tatuaggi mi fa capire l’infinito amore provato, quello sospeso e sempre sognato nelle giornate carcerate, dell’attesa dentro lui e fuori lei, che aspetta, che lo aspetta fino alla fine. E allora sirene a due code sognate di notte e un uccellino per portare una rosa d’amore all’amata e ricordarsi sempre che l’amore, quello certo, ce lo insegna per prima la mamma.
“E l’indiano , Geronimo?”

“Essi sapevano come stavano le cose e tuttavia dissero che io ero un uomo cattivo: l’uomo peggiore del posto; ma che cosa avevo fatto? lo stavo vivendo pacificamente qui con la mia famiglia sotto l’ombra degli alberi …”

Labile

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