Civitanova – 2

Scritto da Herbert Asch il 14 Aprile, 2013
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illustrazione di US

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Sospiro 8, Servizio Oncologico (Maria)

Anche la morte è diventata virtuale in questo mondo e nessuno l’accetta più nella propria carne. Quando gli uomini e le donne arrivano qui sono stupiti – soprattutto stupiti – spaventati e certi d’incontrare, nel mio volto, quello della loro morte che ha la mia voce, i miei occhiali e la mia firma sulle loro ricette. Non mi sono mai sentita particolarmente bella, e all’inizio quegli sguardi peggioravano la mia insicurezza, ma ora  ho imparato ad accoglierli e non succede più.

Scelsi l’oncologia perché c’era maggiore probabilità di trovare un posto in specializzazione, e così di avere le carte in regola per fare il medico in ospedale. La laurea a quei tempi non valeva già più niente, e proseguendo con l’inflazione dei titoli, sarà sempre peggio.

Ma allora tutto questo stava solo iniziando e non mi rendevo conto delle conseguenze, sapevo solo che senza specializzazione non sarei andata da nessuna parte e mi buttai dov’era più facile entrare. Da giovani si cerca di avere un posto sicuro, uno stipendio e una casa in cui vivere. 

Spinta da questo iniziai a entrare nella carne impazzita degli esseri umani, quella cannibale e suicida del cancro: l’ho odiata, mi ha terrorizzato, appassionato, stupito, e alla fine l’ho accolta nella mia vita di tutti i giorni. Di quando preparo da mangiare, faccio i compiti coi figli,  li porto in piscina e gli dico buonanotte; di quando faccio all’amore col mio uomo e ci addormentiamo abbracciati. Abitiamo in campagna per fortuna, nella vecchia casa dei suoi nonni che abbiamo ristrutturato e sono contenta che i bambini possano crescere tra piante e animali. Avranno più confidenza con  la vita e la morte  per quello che sono sempre state, anche prima che arrivassimo noi umani. Per me che sono cresciuta in città è stato tutto nuovo quando ci siamo trasferiti e difficile all’inizio, ma ora è come se fossi nata qui. A un certo punto ci si accorge che la vita è un puzzle di pensieri, incontri e scelte che prende forma partendo da tentativi e incastri fortuiti.

Adesso nella mia,  vedo un’oncologa che vive in campagna col marito e i figli e non cambierebbe questo per null’altro al mondo. Mi sorprendo spesso a guardare dal finestrino il paesaggio intorno alla strada che va da casa nostra all’ospedale, e qualche volta mi fermo. I rami degli ulivi cambiano colore sotto il vento d’autunno. Il grande mandorlo fiorito dichiara la primavera. I girasoli sulla collina cantano il coro dell’estate. Il grano d’inverno spunta verde dalla terra bruna. E, ogni anno, mi dico di fotografarlo alto prima della mietitura ma non lo faccio, e so che non lo farò mai per dirlo ancora l’anno che verrà. Cammino sola al margine del campo carezzando le spighe ed è un momento solo mio, bello e terribile come il parto.

A ogni giugno bisogna restituire alla morte i suoi diritti, e tra le spighe mature, la prego di lasciarmi fare ancora questo gioco. L’anno scorso me lo ha concesso, il prossimo si vedrà. In ospedale stiamo insieme tutti in giorni, lei fa il suo lavoro ed io il mio: è bello incontrarsi fuori almeno una volta all’anno. Il grano maturo accanto alla strada racconta la grande fame del mondo, la fatica degli uomini, la speranza e la certezza della morte. Sono le stesse cose che ascolto sul lettino bianco del mio studio (proprio le stesse) ma con un nome, una voce, un gesto.

Nel cassetto ho una penna, una biro da due soldi che conservo gelosamente, me l’ha data un uomo i primi tempi che ero qui… non trovavo la mia per scrivergli la ricetta e lui con un sorriso mi porse la sua dicendo che a lui non serviva più. Era un sorriso vero e buono che mi ritorna ogni volta che guardo le spighe mature. Quell’uomo chinò dolcemente il capo alla falce prima che la grande fame del suo cancro mordesse con troppo dolore… La fame, la fame delle cellule impazzite è insaziabile e primitiva. Ė la forza originaria della vita, che senza più regole reclama nutrimento solo per se stessa. Per lei non esistono l’organismo e gli equilibri necessari alla vita ma solo l’istinto di moltiplicarsi e mangiare. Il flagello delle locuste o le fauci degli squali sono solo  le altre facce  della stessa fame che conoscono tutti. Ma quando è all’interno del corpo, sono soltanto io a vederla e il risultato non cambia: finito il cibo, finisce anche la vita e il cancro muore con il suo ospite. A volte si riesce a vincere (molti usano il verbo vincere al posto di guarire; a me non piace). Altre volte, si costruiscono delicati compromessi tra  morte e vita, che anch’io chiamo tempi di sopravvivenza. Sono le lunghe trincee dove ho imparato a conoscere  donne e uomini, senza cessare di sorprendermi della loro infinita diversità. A volte abbiamo combattuto insieme, altre abbiamo solo aspettato, altre sono rimasta sola nella terra di nessuno perché anche  non volere alleati è un diritto. Quello che non riesco a spiegarmi è come mi vengano lesinate le munizioni con la fondata ragione che costano troppo ( i farmaci anti tumorali sono costosi!).

Mi chiedo come sia possibile che non possiamo più pagarli, e penso che qualche altro cancro sta divorando le nostre risorse. Certi umani sono affamati come le cellule di un tumore, ma più intelligenti. Dopo aver divorato l’organismo di una società migrano altrove su un aereo privato senza suicidarsi nel cadavere che lasciano. Sono metastasi che diventano più immortali ad ogni fuga. Nonostante squali e cavallette umani, continuo a carezzare il grano per il dovere della vita che lo semina e il diritto della morte che lo falcia. Perché alla fine, con o senza munizioni, quando ogni arma è inutile e anche la trincea scompare, l’uomo è in un luogo senza nome che non somiglia ad altro; è solo e possono raggiungerlo soltanto le parole care, i volti amati. Restituire alla morte i suoi diritti è l’abbraccio che lo accompagna fin dove può sentire.

 

Quando siamo venuti al mondo, mani delicate ci hanno stretto al cuore nell’abbraccio di benvenuto: dev’esserci lo stesso abbraccio anche quando ce ne andiamo, se vogliamo che la morte riconosca ancora donne e uomini.

 

 

 

tratto dal libro “Buongiorno Dottor Cronin” di Ubaldo Sagripanti – gli utili di vendita andranno all’emporio della solidarietà del comune di Civitanova: un posto dove distribuiscono beni di prima necessità a chi ne ha bisogno

 http://www.amazon.it/Caro-Dottor-Cronin-ebook/dp/B00BTNNJWS 

 

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Civitanova

Scritto da Herbert Asch il 13 Aprile, 2013
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Foto di HA
Foto di HA

Di solito sono preciso, man mano che i post arrivano li metto in ordine e programmo la pubblicazione, mantenendo rigorosamente l’ordine di arrivo.

 

Giorni fa ci è arrivata una mail, un amico ci ha inviato addirittura un e-book. Non erano molte pagine e, in attesa di leggerlo, comunque, mi sono tenuto sulle generali. Pensavo che, visto che era pubblicato ed in vendita, anche se non certo a caro prezzo, avremmo potuto postare un piccolo estratto, indicando poi il link per eventualmente acquistarlo.

 

Quindi ho risposto chiedendo cosa ne voleva fare.

 

Poi, in una interminabile seduta operatoria, ho avuto il tempo di leggere il libro, e devo dire che mi ha preso bene.

 

La risposta è arrivata quasi contemporaneamente alla fine della lettura:

 

“Ciao Asch, sono contento che il libro ti interessi, ma vedi com’è la vita, oggi mi trovo a risponderti in un modo che non avrei immaginato quando ti ho inviato Caro Dottor Cronin, il quattro aprile. Forse non lo sai ma io vivo a Civitanova Marche, un qualsiasi posto della costa adriatica fino a tre giorni fa, poi all’improvviso due brave persone si impiccano in uno sgabuzzino chiedendo perdono e una terza, appena lo scopre, si getta in mare e li segue; così questa mia piccola città di provincia diventa il simbolo della sofferenza della gente in tempo di crisi.

 

Ma facciamo un passo indietro.

Circa un anno fa mi venne l’idea di scrivere qualcosa che raccontasse chi siamo noi medici di oggi, cosa pensiamo e sentiamo mentre marchiamo il cartellino; credevo che la gente dovesse sapere chi c’era dentro i camici cui s’affidava.

Non l’ho scritto e lo confesso a te, ma credo che siamo in una condizione simile a quella dei fanti della prima guerra, che se non saltavano fuori dalla trincea o non avanzavano adeguatamente, venivano ammazzati da altri soldati italiani a questo deputati. Si poteva quindi scegliere soltanto tra una pallottola austriaca e una italiana. Noi medici di questo SSN derubato, truffato, tarlato e falsamente aziendalizzato abbiamo la malattia al posto degli austriaci e i politici che ci sparano alle spalle. I pazienti, gli esseri umani che vogliamo curare, in tutto questo, invece di essere la patria da difendere, stanno sdraiati e aspettano nella terra di nessuno (mi vergogno di questa similitudine offensiva per i fanti e spero che mi perdonino se li ho paragonati a noi, ma è solo per la emblematicità di quanto accadde a loro).

Sempre per i casi della vita, mia madre mi restituì una vecchia copia di E le stelle stanno a guardare venuta fuori da uno scatolone dei tempi del liceo. Rileggendo Cronin non ho potuto fare a meno di trovarvi  le similitudini sconcertanti di cui parlo nel prologo del libro e che mi hanno spinto a sceglierne il titolo.

Finito il lavoro, ho pensato che potevo farne qualcosa di utile a chi ne avesse più bisogno e se vai al link

 

http://www.amazon.it/Caro-Dottor-Cronin-ebook/dp/B00BTNNJWS 

vedi che avevo deciso di devolvere gli utili di vendita (anche se probabilmente simbolici) all’emporio della solidarietà del comune di Civitanova: un posto dove distribuiscono beni di prima necessità a chi ne ha bisogno.

Pensavo che la prima forma di cura sia quella di garantire almeno il nutrimento.

L’undici marzo, quando il libro è stato pubblicato, mi sentivo soddisfatto della mia scelta e del lavoro. Giorni dopo veleggiando nella rete mi sono imbattuto nel vostro sito, l’ho visitato e mi è piaciuto molto (adesso faccio lo psichiatra ma ho cominciato come medico di pronto soccorso e conosco l’odore delle notti di guardia), così vi ho inviato volentieri una copia, era il quattro di aprile.

Il cinque aprile si sino ammazzati in tre, e il sei aprile, il Presidente della Camera è venuto in piazza da noi, in chiesa e in comune. Questa mia piccola città è stata sparata sui media in ogni forma, ognuno ha trovato il modo di dire la sua: dall’ OMICIDIO DI STATO, a Vittime della DIGNITA’…

Quante parole, e a sera, leggendo la tua mail, non me ne venivano per rispondere alla tua domanda: che ne vuoi fare?

Ho aspettato e penso che, nonostante tutto, continuare a parlare e diffondere quando tutto sembra insensato può sempre rappresentare, se non altro, una ricerca di senso. Inoltre, seppure la scelta di attirare l’attenzione su chi si trovava in condizione di improvvisa e imprevista povertà è stata per il momento inutile (e a vederla da qui, davanti a quei morti, simile ai soliloqui di certi miei matti), credo che sia coerente proseguire. Non solo, se oggi qualcuno è morto perché dopo una vita di lavoro non aveva più di che sostentarsi, continuando così, non è da escludere che domani qualcuno possa ammazzarsi perché non potrà permettersi le cure che un SSN in fallimento non può più prestargli.

 

Quindi, caro Herbert, scegli uno o due sospiri e pubblicali pure. Se vorrai diffondere il link che ti ho indicato sopra te ne sarò grato.”

 

e così farò.

 

Vista la concomitanza degli eventi stavolta non mi sono sentito di procrastinarlo (sarebbe passato a fine maggio) e così chiedendo scusa agli altri autori, il prossimo post sarà tratto dal libro “Caro Dottor Cronin” di Ubaldo Sagripanti.

 

Herbert Asch

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Ginocchieide (2a parte)

Scritto da rens il 05 Aprile, 2013
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foto di RR

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Camera operatoria.

Si fa avanti un’infermiera. Sarà la mitica anestesista? Provo.

-Io vorrei l’anestesia totale, ma mi dicono che devo…- – deve parlare con l’anestesista!-

-Lo so! Rispondo secco. È lei?- – No-.

-Ma lei è teso-, mi dice con un sorriso dietro al simil-burka che le copre il viso -…cosa la turba?-

-Certo che sono teso, è da questa mattina che mi dicono di parlare con l’anestesista… esiste costui? È un terrestre? O è un fantasma?- rispondo un po’ incavolato.-Vede, è che vorrei… ma a che serve contarla a lei se devo parlare all’anestesista…-

-Ma no, mi racconti, mi racconti tutto…-

-È che vorrei l’anestesia totale e tutti mi guardano come fossi un marziano. Mica lo faccio per sfizio, è che è più forte di me, svengo se mi bucate la schiena.-

-Non se ne faccia un problema. Anch’io avrei paura, sa? Anch’io farei la totale, c’è niente di strano. Parli con l’anestesista e vedrà che vi mettete d’accordo.-

Che mi stia pigliando per il culo, mi chiedo… Ma quella mi sorride e mi dice che non vuole vedermi arrabbiato, che posso contare su di lei, che tutto si sistema. È una persona, e mi quieto. Avevo solo bisogno di un po’ di comprensione. Un pochino. Mi parla gentile, mi fa anche una carezza sul capo. Grazie, le dico, grazie.

Intanto si fa avanti un’altra infermiera, giovane, anche lei mascherata; mi buca il braccio e ci infila un chiodo per la flebo. Non una sillaba. Neanche fossi un legno o uno straccio. Ma a queste ragazze non l’ha mai detto nessuno che i malati sono anche persone? Lo sa quella fighetta risicata che fuori di qui me la trito in un baleno? Che non le lascio nemmeno il tempo di dire bah…

Arriva un tipo, un uomo questa volta, sempre mascherato. È così in quei posti, non vedi nessuno in faccia; oltretutto senza occhiali sono proprio orbo; se si ritraessero di un metro potrebbero farmi impunemente gli sberleffi.

-È lei l’anestesista-, chiedo?

-Si, che c’è?-

Infine eccolo qui, dunque, il mio arabo fenicio.

-Senta, io vorrei l’anestesia totale, l’ho già detto a tutto il mondo, e l’avevo detto anche al dottore che mi ha pronosticato il menisco rotto, ma lì c’è scritto che mi fate l’epidurale. E tutti m’hanno detto che devo parlare con lei…-

-E perché la vuole totale?- Mi chiede; ma è gentile, affabile. Forse è un furbone.

-Perché se no le resto in mano… svengo. Prima, sotto, ho già corso grossi rischi per il prelievo di sangue.-

-E come ha fatto?-

-Ho dovuto guardare via e farmi mettere un rattoppo sul braccio. Si figuri dunque se mi buca la schiena.-

-Beh, qui ha ancora meno problemi, allora, perché non può vedersi la schiena.-

Un altro che mi piglia per i fondelli, penso…

-Comunque se vuole io gliela faccio, la narcosi, ma non le conviene sa-, dice con calma. Mi parla anche lui come fossi una persona. –Oltretutto-, continua, -con l’epidurale dopo non ha male.-

-Dice bene lei, ma se le resto in mano?-

-Beh, siamo già qui… c’è tutto il necessario, cosa vuole di più?-

Bel merlo, penso, non c’è che dire. Però potrebbe anche esser vero quel che afferma, non è scritto che debba essere un serpente incantatore. Perché è davvero difficile essere bugiardi così bravi.

Un lampo, da pazzo, come spesso m’è successo: -dai, proviamo-, rispondo. Non so nemmeno io perché. Arriva l’infermiera umana, mi infila una siringa nel tubo predisposto da quell’altra e dice quasi con leggerezza: -questa le fa bene, è bella… è buona, è soltanto un calmante…- M’hanno incastrato come un pivello. Come un novellino; non di primo pelo, ma proprio sprovvisto, di pelo. Non dispongo più d’uno sputo di difesa.

Mi segano.

Mi spostano ancora, me e il letto. Mi fanno girare sul fianco destro e portare le gambe al petto. Braccia lunghe. Sono in due lì dietro. Sento pungere la schiena. Tutto lì? Però, una bazzecola, aveva ragione il tipo. Mi rigirano pancia al cielo. Poi mi alzano un telo davanti alla faccia. Bene, non voglio vedere. Dall’altra parte del telo parlano, muovono, non so cosa traffichino. Ogni tanto la fascia attorno al braccio sinistro si gonfia: controllano se son vivo, penso. Certo che son vivo!

Ma cosa combinano lì davanti? Che diavolo aspettano? Il tempo non passa, non m’accorgo nemmeno che non sento più la gamba.

Mi hanno messo addosso le coperte con la mano destra fuori, perché è quella impalata. La sinistra sotto, a non prendere freddo, allungata sul fianco. Mentre aspetto la mano si muove. Trova una massa molle, in mezzo alle gambe, senz’anima ne corpo, incoerente. Che diavolo è? M’han tirato fuori le trippe! Ma no… Sono i genitali! Realizzo di colpo. Possibile? Tocco meglio… non li riconosco, non hanno consistenza, come non fosse roba mia; eppure il salamotto piccolo piccolo sembra proprio lui, il fratellino…

Quando eravamo bambini e nessuno ci vedeva, toglievamo i vestiti alle bambole per vedere com’erano fatte in mezzo alla gambe; senza sapere cosa cercare, per altro, ma si cercava, la curiosità era prepotente; e non c’era niente. Nè pisello nè altro. Tutto liscio, tutto piallato, nulla. Ecco, io mi sono scoperto così, quando la mano è andata a spasso sotto le coperte.

Mi spostano ancora. Allora hanno finito. Mi fanno passare in una apertura strana per mettermi dalla lettiga a un’altra.

-Si sposti!-, mi incitano.

Macchè spostare, una parola, non risponde niente. Sono di piombo.

-Dai, forza!-, insistono.

Allora provo a rotolare. -No, non rotolando-, mi ammoniscono. E come faccio allora, maledizione? Poi ci arrivo. Punto sulle braccia e sposto la schiena sul lettino a fianco; qualcuno mi sposta le gambe. Si torna al mio letto. Non so chi mi porti, sono proprio cotto. Chissà che diavoleria m’han messo in vena…

La pipì.

Letto, Mil lì vicina che sorride.

La pace dopo la tempesta. Arriva un donnone e mi cambia il recipiente della flebo. Sarà un antidolorifico, penso. Per fortuna non c’è da bucare. Il buco è sempre quello della stronzetta di sopra.

-Appena fa pipì, la lasciamo andare-, dice il donnone.

Quanto ci vorrà?

Un paio d’ore.

Il tempo passa.

Ho modo di controllare tutto me stesso lì sotto, quel che sento e quel che non sento. Gamba destra assente, sinistra presente ma senza dita del piede, e gluteo che sembra un budino, una vescica tiepida, sorda come una ciocca. Ma non c’è dolore, è già qualcosa.

Flebo finita. La sostituiscono con un fiasco. Ci sarà un litro di brodo lì dentro. Per fare pipì. -Beva quattro bicchieri d’acqua-, ordina la tipa. Questo è facile, penso. E invece no. È difficilissimo bere stando orizzontale. Difatti non c’è nessun animale che beva così, in natura. Nemmeno le lucertole: pigliano una boccata e alzano il muso al cielo per mandarla giù.

Passa il tempo. Mil va a farsi un giro, è stanca e stufa ed ha ragione. Che palle aspettare che uno faccia pipì.

Entrano due ragazzette bianco vestite. -Ha urinato?- Esclama forte una. Avrà visto il grigio dei miei capelli e deciso che sono sordo. -No-, rispondo secco. Urinare, penso: dev’essere per darsi un tono… fatto pipì non va eh, troppo umano, ma vaff… anche tu, dai. Altro fiasco da mandare in vena.

Scoccano le due ore.

-Fatto pipì?-

-Macché!-

L’infermiera è un’altra. Ma quante ce ne sono? Sono tutte qui a scrutare le mie disgrazie?

Questa però mi piace. Giovane anche lei ma semplice e umana, sorride, ha un cuore e credo anche un’anima.

Quanto ci vorrà ancora? Mezz’ora e vedrà che arriva. E intanto cambia fiasco un’altra volta. E tre! Più il primo.

Due ore e mezza, niente.

Tre ore.

Quattro, tuoni e fulmini.

-Fatto pipì?- -Nooooooooooo!-

-Vedrà che adesso arriva-, dice sorridente l’infermiera. Venti minuti.

-Provi a sedersi sul letto con le gambe penzoloni-.

Aspetto un po’ poi Mil mi aiuta. Ma come si fa a fare pipì se non ti senti il pisello, accidenti? Eppure, tra fiaschi e bicchieri d’acqua, ne avrò bevuti dieci, non quattro, dovrà pur decidersi. È un’impresa persino infilare il pisello nel pappagallo: poveraccio lui, è mortificato, potesse rientra nell’antico vano assieme ai testicoli. Ma quando tutto sembra perso…

Pipìììììììììììììììììì………… poca, ma c’è.

Robe da matti. Sessant’anni per gioire d’un bicchiere di pipì! Troppo poca, dice l’infermiera, e mette su un altro fiasco. Con questo sono quattro. Ma ormai il ghiaccio è rotto. Sono le 19.00 suonate quando l’impresa ha termine, faccio di nuovo pipì e l’infermiera dice che possiamo andare. Schizzo sul letto.

-Non vuole mangiare qualcosa?-

Ma no… andiamo via subito.

-Mangi qualcosa…-

-Un frutto-, rispondo. C’è?

-Una mela cotta?-

Perfetto. Due mele cotte, una anche per mia moglie.

-Gliele porto, ma non devo farmi vedere-, dice il mio angelo.

Si vede che c’è qualche bastardo che controlla, penso, e magari il rancio non mi spetta. Trovarlo tra qualche tempo, il verme, magari al Lauzun o al Lubè… Mangio in un lampo, Mil non ha fame. Torna l’infermiera, mi insegna a farmi l’iniezione nella pancia da solo, a camminare con le stampelle, due dritte generali; la ringrazio con un sorriso da orecchio a orecchio, l’abbraccerei, le darei un bacio, tanta è la mia riconoscenza. Tutto il contrario di quanto provo per il Dottore che mi ha operato. Lui non m’ha detto nemmeno crepa, su in camera operatoria, nemmeno m’ha degnato d’uno sguardo; gli sarebbe bastato affacciarsi oltre il telo, ma forse pensava di operare un pupazzo. Di fare allenamento. Tanto meno s’è degnato di venirmi a vedere in camera. Sono singolari questi personaggi. Autentici luminari, bravissimi e senz’anima, vuoti come una vescica; sembrano il mio gluteo sinistro quando ancora era sotto effetto dell’anestetico: lo sentivo ballonzolare se lo scuotevo con la mano ma non sapeva di nulla e non diceva nulla. Una vescica. Gli stambecchi per i quali mi sono fatto male sono molto più espressivi, ed uguali quanto a parola, perché entrambi sono muti.

Ma ora è tutto passato. Si parte. Via!

Tutti in fila.

Da quell’ospedale là a casa ci sono una novantina di chilometri. È buio pesto ormai. Mil non ama guidare di notte, conosce poco la Polo che non usa mai, e non conosce il percorso. È tesa ma si và. Faccio il navigatore.

Tutto dritto, asciutto, non c’è nebbia. Mil guida impettita, dura a metà dello spazio tra il volante e il sedile. Se la si bucasse non uscirebbe una stilla di sangue. Cinquanta all’ora, ma si va. Dietro ci sono parecchie auto. Più grandi, più piccole, furgoni e camioncini. Mil ha messo tutti in riga. Chi ha la ventura di fare il nostro percorso, viaggia a cinquanta all’ora. Passano uno alla volta dove possono.

Da quell’ospedale là a casa. Eterno.

Vicino a casa Mil si rià, tocca punte anche di ottanta chilometri l’ora per qualche istante: lì conosce bene la strada; tiene duro, è davvero grande la mia Mil, e alle 21 siamo a casa. Dalle 6.30 del mattino.

È fatta. Siamo eroi.

E tutto per uno stupido menisco… una guarnizione, o poco più. 

rens

 

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Ginocchieide (1a parte)

Scritto da rens il 01 Aprile, 2013
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foto di RR

Genesi.

Tutto è cominciato il 31 dicembre. Dodici ore in più e il 2012 sarebbe finito senza guai, e io non sarei qui a scrivere dei miei bubù.

Anche se forse tutto è iniziato ad agosto, al Lubè, mentre portavo a casa una roverella per i bari dell’orto.

Pesava come ferro quella pianta, e salendo verso il sentiero, subito a monte del ciabot, sono scivolato; non potevo cadere con quel carico sulla spalla, lì dove è pieno di pietre e lose spigolose. Così avevo fatto forza sulle gambe ed ero riuscito a stare in piedi. Ma al ginocchio destro avevo provato una sensazione sgradevolissima; non dolore puro, ma come di qualcosa che grippa, che si incricca. E nei giorni successivi il ginocchio aveva cominciato a darmi fastidio e non potevo più chinarmi col peso del corpo sui talloni, ché faceva troppo male. Un problema fotografare i fiori. Dovevo avvicinarmi a terra allungando le gambe, niente ginocchia piegate. Più d’una volta, dimentico del problema, ho ribaltato come un fesso. Poi, piano piano la situazione era migliorata, tanto da indurmi a pensare: prima o poi passa e mi lascia in pace. Perché la mia filosofia è: come viene, prima o poi il bubù se ne va.

E così ero arrivato al 31 dicembre, Vallone di Massello, prati tra la Cascata del Pis e le Miande Lauzun; a correre dietro agli stambecchi che, in quella stagione, lì si riuniscono per fare l’amore; quasi in gruppo… lo sapessero i vescovi…

Salendo, piccola scivolata, proprio piccola, da nemmeno registrare, sul prato, ma con ginocchio destro tutto chiuso. Di colpo. Che male. Una legnata. Quando ho cercato di muovere, dopo un attimo, una spilla di fuoco tremenda mi ha schiacciato a terra. Di qui non vado più via, ho pensato. Qualche istante e ho riprovato, e la fitta era un po’ più leggera. Ancora un attimo e sono riuscito ad alzarmi. Che male, ma ero in piedi, forse potevo rientrare con le mie forze.

Prima però sono ancora riuscito ad andare dietro agli stambecchi, e li ho anche agguantati… con l’obbiettivo, intendo.

Nei giorni successivi sono ricorso alle arti di Fiurelin, l’amica carissima fisioterapista, a qualche cerotto anti infiammatorio e mi sono rimesso. Quasi. Perché sapere d’avere un ginocchio che può mollarti da un momento all’altro non è bello. E se mi molla al Col dell’Arcano? Pensavo, ai Laghi dell’Albergian? Anche solo a Roca Cadrega? Alla Cascata di Mil?

Così sono andato a fare la risonanza, e lì non hanno detto niente di particolare, niente di molto diverso da quanto emerso già in agosto dove, con un’altra risonanza a seguito dell’incidente del Lubè, era emerso che si, il ginocchio non era splendido, ma nemmeno da buttare; un ginocchio di sessant’anni, tutto lì. Ma questa volta, dopo la risonanza, Mil mi ha guidato da un luminare, il quale, dopo attenta meditazione e dopo avermi fatto un male cane, ha decretato: menisco rotto. Ed eccomi qui, claudicante, a raccontare per trascorrere il tempo, e pure un po’ per ridere, delle mie sventure di inseguitore azzoppato di stambecchi e di trasportatore mediocre di travi di roverella.

Il decreto.

Era giovedì 24 gennaio quando il dott. Tal dei Tali decretò che il menisco era rotto.

Intervento in quell’ospedale là, ragionevolmente verso la metà di febbraio. Telefonare per mettermi d’accordo. Tipo freddo, il luminare, di quelli formalmente corretti che ti fan sentire una merda, perché dall’alto del loro io non scendono al tuo basso. Da quell’altezza, però, dovessero mai cadere o trovare la loro roverella, sai che tonfo.

Telefono due giorni dopo e mi confermano ipotesi metà febbraio, da definire.

Si trae il dado.

Lunedì 11 febbraio, sono al lavoro.

È l’una, ho appena finito di mangiare quando squilla il telefono. Sono solo e sono in pausa, non ne sono tenuto e non rispondo: chi me lo fa fare, in quel luogo di puttane e ruffiani. Ma il telefono continua e alla fine, non so perché, alzo la cornetta. È la segretaria della clinica, quella che ho sentito una settimana prima. -Si è liberato un posto per il 14 febbraio, dice, se le va bene… –

-Ceeeeeeerto che mi va bene-, così la facciamo finita, penso. Ma poi… 14 febbraio, giovedì… tra tre giorni… quasi cado dalla sedia. -Mi lascia mezz’ora per decidere?-, le chiedo? -Va bene-, risponde.

Telefono a Mil, dice OK, richiamo la clinica ed è fatta.

Sono basito: non mi sembra vero: tre giorni e mi segano. Bene, così non ho tempo di pensare e penare, si fa tutto mentre fa freddo e fuori non si può concludere un gran che, nemmeno andare per roverelle al Lubè!

Tempo di darmi da fare.

Il gran giorno.

Giovedì 14 febbraio. Giorno del mio secondo menisco. Il primo fu dieci anni fa, se ricordo bene.

Alle 7.30 siamo in clinica. C’è già la coda per farsi ricoverare. Una signora gentile mi dice che per gli esami devo salire, che i documenti di ricovero li fanno anche dopo.

Salgo, Mil continua la coda.

Sopra, al terzo tentativo trovo lo sportello giusto, sanno addirittura chi sono – mi sento importante -, mi danno un foglio con su il mio nome e la mia data di nascita: sono il numero otto!

Mi fanno accomodare in una grande sala dove siamo in pochi. Ma in un baleno è colma. Le 8.00 e nulla si muove. Mi raggiunge Mil; che aspettano? Un attimo e d’incanto si va, ne chiamano otto, entro di culo nel gruppo d’elite. Vado davanti a una stanza ad aspettare in piedi. Dentro nemmeno un lettino, dissanguano da seduti. Brutta faccenda, per me. Per fortuna arriva un’altra infermiera uscita da un’altra stanza; cerca l’otto, per l’elettrocardiogramma, così guadagniamo tempo, dice…

Mai fatto l’elettrocardiogramma. Osservo curioso che mi agghinda, dopo avermi spruzzato d’acqua petto, caviglie e polsi. Poi mi collega, mi sistema modello defunto ben disteso ma con braccia ai fianchi, e via. Un attimo e mi toglie gli aggeggi e sono fuori, di nuovo davanti alla porta dei vampiri. E torno in crisi. Passeggio, mi allontano, cerco di pensare ad altro. Mi chiamano. Entro e dico subito alle due infermiere che ho dei problemi, che potrei svenire. Solite mezze risatine, il diavolo le porti, ma sono gentili. Mi fanno mettere sulla poltrona e mi ribaltano a testa in giù. Quella che mi buca è incredibile. Mano leggerissima. Un attimo e sono fuori anche di lì. Ma prima le dico che ho chiesto l’anestesia totale… Dice che l’ha scritto sui fogli grande come una casa. Ma bisogna parlare con l’anestesista. Va bene.

Si va al terzo piano. Infermiera gentile coi capelli rossi. Ancora un chilo di carta da compilare.

-Anestesia totale-, ripeto. -Bisogna parlare con l’anestesista-, conferma.

Attendo, molto, che mi diano una camera. Alle 9.30 l’ottengo: 333, c’è scritto fuori dalla porta. Dopo un po’, altra infermiera, pure lei gentile, a farmi la barba al ginocchio da segare. Tricotomia si dice, perbacco!

Anche con lei: -anestesia totale-, abbozzo… -Bisogna parlare con l’anestesista-.

Poi se ne va.

Pausa eterna.

Eccone un’altra. Giovane, mulatta direi, quasi carina, ma antipatica. Mi porta il costume per la camera operatoria. Spiega: -alcuni minuti prima di salire veniamo ad avvisarla, così si prepara: nudo come un lombrico, mette slip, cuffia, calzari e tunica-.

Ci provo anche con lei: anestesia totale… -Bisogna parlare con l’anestesista!-

Comincio a essere nervoso. Che mi stiano prendendo per il culo?

Aspettiamo.

Io che mi riscaldo, Mil anche, nel timore che mi saltino i nervi.

Eterno.

Tempo per scoprire che ho un calzino bucato. Maledizione, non le metto mai quelle calze, le ho scelte per esser un po’ più figo… e sono bucate. Porco mondo. Mica ho pensato a controllare se avevano dei buchi, questa mattina all’alba… Le tolgo, così non si vede il buco. Nella stanza fa caldissimo, ma ho i piedi di ghiaccio. Tensione, fifa, nervoso. Li tengo in mano per scaldarli. L’orologio sembra fermo. Qualcuno ha incollato i numeri.

Non viene nessuno.

Le 10.00; 10.30. E se mandassi tutti a cagare e me ne andassi? Questo pensiero garibaldino in camicia rossa mi insegue e mi martella sempre più deciso in testa. Quasi quasi, mentre ho ancora le mie gambe da corsa… Perché si può morire anche senza l’aiuto dei medici, diceva un mio amico tanto tempo fa.

11.00; niente. 11.45 o giù di lì: rientra la tipa antipatica.

-Si prepari che andiamo-, annuncia.

Mi spoglio e Mil mi aiuta nel passarmi il costume da camera operatoria. Anche lei è tesa. Cerchiamo di ridere e scherzare. Che forza la mia Mil.

I mini slip sono molto sexi. Da gigolo. Da una parte un triangolo più grande, dall’altra un rettangolino piccolo piccolo. Due spaghi per la vita. Quale sarà il davanti? Quello più piccolo, dice Mil decisa. Infilo così. Quel rettangolino tiene su, si e no, il pene che, pur ridottissimo per la tensione, non ci sta; esce una volta a destra e una volta a sinistra. Forse va al contrario. Si, così va meglio.

Rientra la tipa: mi fa salire su una sedia a rotelle. Mi dice di tirare su i piedi. Dove? Tiro su i piedi… Il predellino è aperto! Se ne accorge, traffica un po’ e ce la fa.

Andiamo.

Non una parola: come fossi un sasso.

Vaffanculo, ragazza!

rens

Fine della prima parte (continua)

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Guardiani…

Scritto da TNT69 il 28 Marzo, 2013
emozioni, pensieri / 3 Commenti

foto di MV

foto di MV

Ancora una notte, tranquilla, un incontro con la morte, che di notte è quasi sempre calma, silenziosa, attesa per alleviare le sofferenze di corpi ed anime angosciate. Leggo le vostre storie e in questa notte particolarmente tranquilla mi soffermo su titolo del blog “nottidiguardia”.

E’ vero siamo dei Guardiani, di eventi, storie, attimi fuggenti a volte così intensi e profondi da lasciare dei solchi nelle nostre anime. Dalle storie scritte emergono dei Guardiani attenti, premurosi, che ce la mettono tutta per salvare, guarire, curare o accompagnare. Ci mettono l’anima, il cuore, la passione, la fatica e la rabbia per poter fare al meglio nonostante i limiti e gli ostacoli della realtà quotidiana che vivono.

E così sono qui in questa notte tranquilla a leggervi con un groviglio di emozioni nella pancia che il silenzio della notte amplifica, sperando che i racconti continuino e che i Guardiani non si estinguano mai!

Grazie a tutti!

TNT69

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Vigilia

Scritto da Picu il 24 Marzo, 2013
emozioni / 5 Commenti
foto di MV

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Qui, di vigilia, come un soldato romano a guardia delle mura. C’è da tener fuori il nemico, almeno stanotte. A guardia di queste creature in bilico tra il qui e il là, tra l’ora e il sempre, tra il contatto e il ricordo. C’è da tener fuori quella nera signora, a volte con l’inganno e un trucco subdolo, a volte sfidandosi a viso scoperto, con ogni mezzo a nostra disposizione. Siamo coraggiosi ma a volte non basta, e ci assale un timore antico. No, non ora, non oggi, per favore. Non a me. Egoismo dell’angoscia. A volte spavaldi, ma che vuoi da noi?, vattene o sarà peggio per te! A volte invece non siamo nulla, siamo tranquilli, per questa notte è lontana, e ci penseremo domani. E invece ci assale di sorpresa, non ha il coraggio di guardarci in volto: e non eravamo armati.

Qui, di vigilia, come madri antiche a guardare il loro bambino, in notti di febbre, di respiro pesante, in notti di paura per quella paralisi che prendeva all’improvviso, per quel mal di gola che chiudeva il respiro. Sentimento universale di paura per il tuo sangue, la tua carne, terrore e preghiere. Madri anche noi, questa notte prestate ad altri figli, perché altre madri possano chiudere gli occhi un momento, e sperare non sia mai accaduto.

Qui, di vigilia, ad aspettare che sorga il sole, e qualcuno prenda il nostro posto. Che qualcuno controlli i nostri errori, e ci rassicuri che non saranno fatali. Ad aspettare il primo raggio di luce nel buio dei nostri dubbi, e che si alzi la nebbia, e venga giorno pieno a scaldarci.

Qui, di vigilia, a sentirci soli in quell’ora che non è quasi più notte ma non è ancora giorno, quando vorresti chiamare qualcuno a dividere il carico con te, e nessuno può venire, e chiudi gli occhi e li riapri credendo il tempo così passerà prima, ed è sempre lo stesso minuto, la stessa ora.

Qui, di vigilia, quando vorresti essere a casa a dormire coi tuoi, di bambini, e maledici il giorno in cui hai scelto questo lavoro, e poi si fa l’alba, ed è passata ancora una volta, e qualcuno sta meglio, e sai benissimo che altro lavoro non potresti fare.

Picu

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Lei

Scritto da Pills il 15 Marzo, 2013
pensieri / 2 Commenti
Foto di MV

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Hai passato momenti bui e difficili, di cambiamento e di rinnovo.

C’è stata la “grande fuga” dei dipendenti, ci sono stati anni di magra, ci sono stati periodi di aumento impressionante di quote rosa (in arancione) con il successivo problema: “E mo’ le spinali chi le tira giù dalle scale?”.

Ora il trend pare essersi ripreso, sia in numero che in parità dei sessi.

Gente è entrata ed è rimasta, altri sono andati via per studiare e lavorare. Altri sono usciti e ora sono sposati. Il loro matrimonio è stato privato. Non una sola nota di arancione tra i banchi, neanche virtualmente sotto la giacca o l’abito elegante.

E’ aumentata la famiglia allargata grazie alle nascite di bambini molto voluti e travagliati. Non è stato semplice ma ora la felicità sprizza furiosa dagli sguardi dei miei compagni. Fuoriesce violenta dalle foto e video che fanno alle loro creature. Invade tutti senza pietà quando i pupi vengono a trovarci.

Dei “nuovi” c’è che si interessa, chi vivacchia, chi è sbruffone, chi è curioso e fa delle domande il suo pane, chi si esalta, chi ha un passato importante ma lo gestisce bene, chi sembra messo lì per caso, chi flirta, chi ride e basta, chi medita, chi ha una vita scombinata e tenta di ricucirla con la nostra attività.
Mi impensieriscono queste persone, perché Lei è impietosa con chi non ha proprio idea di dove inizi la sua esistenza. Porti i il valigione (ma basta anche una borsetta) di tuoi problemi alla guardia e Lei farà in modo che in serata ti si rovesci sulla testa con una violenza inaudita. E’ matematico. Crudele ma matematico.

Il tacito contratto recita:
“Non verrai in guardia coi cacchi tuoi ad occupare la tua mente. Tu servi focalizzato e sgombro da rimuginamenti.
Nel caso li avessi la cura è camerata con porta chiusa o garage o cucina. 10 respiri profondi, pensieri zen e si ricomincia in pieno stile Hakuna Matata ”

Mi è capitato di trasgredire, come capita a tutti prima o poi. A volte hai così tanti pensieri che ti sembra che la testa voglia scoppiare e non riesci nel tuo intento di astrazione.

Il duro suolo di cemento del garage, il piano d’acciaio della cucina, il sintetico arancio fluo e la pelle di viso, collo e mani accolgono bene le lacrime per poi farle scivolare via ed essere puliti come prima, solo un po’ più salati. Garantito al limone. Ho parlato troppo di Noi, torniamo a Lei (che in fondo è Noi).

Sta passando una durissima transizione. Ha qualche ematoma qui e là, ma guariscono per poi riformarsi per poi guarire ancora una volta. Ci sta lavorando su con qualche protezione di fortuna. E’ come se fosse un Irish coffee: è buona complessivamente ma è bifasica.

In superficie è trasparente, limpida, quieta anche durante movimenti bruschi e soprattutto omogenea. In profondità è opaca, torbida, scura, puoi vederci le onde se crei turbolenza e la sulla sua omogeneità ci sarebbe da argomentare.
Per quanto uno mischi, le due fasi a periodi tendono a tornare divise.

Lei sta solo aspettando che più di qualcuno si stufi di essere Irish Coffee e voglia diventare Bicerin: bifasico in origine ma mixabile con estrema facilità ed efficacia.
Ma se l’alcol che sta sopra al caffè, che è l’ingrediente maggiore, non ha alcuna volta di evaporare e di trasformarsi in panna liquida rinunciando ad un po’ della sua massa per guadagnarne in densità, palatabilità e omogeneità…se l’alcol non vuole saperne io da umile Bicerin non posso fare altro che dispiacermi un po’.

Mi dispiaccio perché Lei in fondo è una bella entità. Plasma i suoi componenti secondo l’indole di ognuno. Che tu tenda alla leadership moderata od estrema, che tu tenda a seguire le correnti maggiori e ad essere sbatacchiato da un fronte all’altro a seconda del vento, che tu tenda ad essere un outsider chiuso nel suo guscio ai più ma libro aperto per alcuni, che tu sia gasato, che tu sia non tagliato per l’attività, che tu abbia sete di sapere ed imparare…chiunque tu sia e che tu so sappia già o ne sia ancora all’oscuro, Lei ti farà sbocciare. Fiore o rovo, dipende da te e dalle tue motivazioni. Lei non nega nulla a quasi nessuno. Solo chi non sa chi è rimarrà in boccio ed uscirà in boccio. Lei non è il luogo per trovarsi, ma il luogo per scoprirsi.

La Squadra, se sai e vuoi viverla, ti dona splendide amicizie, furiose litigate, grandi pensieri, chili di senso di responsabilità, difficile vita di comunità se uno non è già abituato e molto altro che è meglio scoprire che elencare.

Mai precludersi niente una volta entrati. “Never say never”.
Ho iniziato con dei dubbi, sono cresciuta con delle certezze, ho continuato a crescere con degli amici (adesso anche fuori guardia), continuo il mio percorso cambiamenti di opinioni e e qualche scazzo, ho trovato il nirvana in borghese con un compagno arancione.

Un’estate di una notte ogni nove a parlare in garage o in postazione, ad aprirsi in ambulanza durante le check list, a dare piccoli segnali e ad instillarsi leggeri sospetti. E’ iniziata in arancione senza che nessuno dei due lo sapesse, scintillando coi catarifrangenti alla luce dei fari nella notte.
E’ finita dopo la cena di squadra con un bacio, tutti e due finalmente consapevoli dopo una rapida somma degli eventi. Ora risplendiamo anche senza fluo e catarifrangenti.
E Lei, alla fine, ad essere stata la nostra madrina, guardiana, chaperone.

Dunque, grazie Squadra, madre e matrigna. Grazie per tutto.

Pills

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Ieri e oggi

Scritto da Magamagò il 08 Marzo, 2013
emozioni / 2 Commenti
Foto di MV

Foto di MV

Io ho un amico, un tipo buffo, a metà strada fra cielo e terra, fra realtà e sogno.
Già all’aspetto ci si accorge che è straordinario: due occhi vispi, lucidi lucidi, furbi; ti guardano e ad un tratto si raggrinzano tutti, e ridono in silenzio, seguendo chissà quale pensiero, lontano mille miglia dal presente.

E’ un attimo solo, poi il viso torna serio, di quelli che anche senza occhialoni professionali ti mettono un pò in soggezione. Ma io non ho paura di lui, io lo conosco, so chi è, l’ho scoperto una sera di primavera, mentre cercavo un pezzetto di cielo senza stelle per tuffarmici dentro. Mi è apparso all’improvviso, cominciando dagli occhi neri, e poi formandosi tutt’attorno. Mi ha guardata e mi ha detto: ” Ciao micia bianca col fiocco azzurro!” Non lo sono? Sì invece: e poi i gatti hanno un bel  carattere, volitivo, dignitoso, ma sanno anche essere al tempo stesso affettuosi e fedeli; e poi una micia bianca tutto pelo è bella!

“E tu chi sei stasera ? “

“Vediamo: ti andrebbe un cucciolo di pastore tedesco con le zampotte ciotte ciotte e le orecchie una dritta e una piegata a metà? Un cane tonto a cui piacciono le micie bianche? ”
E, non ci crederete, ma io mi sono sentita veramente una gatta e mi sono accoccolata fra le sue zampotte facendo le fusa. Da allora è rimasto questo piccolo segreto fra di noi: appena cala la sera corriamo nei prati, io micia e lui cucciolo.
Di giorno no, siamo seri, dottorali (per forza siamo medici!), impegnati nella nostra battaglia quotidiana contro la sofferenza, con la coda arrotolata sotto il camice, camminando a due zampe.
Ma i pazienti se ne accorgono specie quelli anziani, specie quelli che amavano gli animali e lo farebbero ancora se non fossero totalmente impegnati a vivere: dicono che ci sia empatia con noi due, condivisione con loro di vita, passata, presente… e futura, forse. Ma in maniera lieve, giocosa: non sono solo i bambini che hanno bisogno di ridere, giocare, sognare… credo che soprattutto gli anziani abbiano bisogno di ridere, scherzare, giocare col gomitolo di lana e non pensare ad altro.
Non importa tanto essere bravissimi, luminari della scienza, quanto essere con loro e non lasciarli soli, non abbandonarli quando cercano conforto e sicurezza, sorridere con loro quando si vince, piangere con loro quando va meno bene. Il più bel regalo per noi? Quando un paziente, o i suoi familiari, a distanza anche di anni, incontrandoci, ci dicono: “si ricorda? Quante risate fatte insieme, grazie.”

Noi ce le ricordiamo tutte, ma proprio tutte, sono come cellule del nostro corpo, ci formano, le portiamo con noi, ci fanno vivere.
I nostri pazienti… sono la nostra sola ragione di vivere. E condividerli da quarantanni con mio marito… bè, è un bel collante!

Magamagò

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Adriano

Scritto da Labile il 01 Marzo, 2013
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Foto di SC

Foto di SC

“Ho sempre preferito il fuori al dentro.”

Spesso mi torna in mente questa frase, per niente innocua e di grande interesse, ogni volta che da una finestra guardo in basso fra gli alberi.

Guardare da dentro a fuori è sempre stato quello che preferiva fare, quasi come per gioco, un passatempo, una scoperta continua , una raccolta di dettagli e particolari che si fissano per sempre negli occhi.

È raro trovare un reparto così, dove la luce potrebbe non essere necessaria, inv

ece in questo palazzo romano del ‘500 è del tutto normale avere a disposizione grandi finestre, quasi delle vetrate, da cui piove una luce scenografica e crepuscolare.

Più in là, lo stesso palazzo, si trasforma in atelier di pittori e scultori e più oltre ancora nella scuola di nudo dell’accademia.

Se getti lo sguardo, oltre la finestra, mentre traffichi con la consueta e necessaria attenzione attorno a uomini e donne, spesso intubati, è come volare sopra il grande platano e vedere come da prospettiva da quadro impressionista francese, foglie e rami che intrecciandosi salgono dal secondo cortile interno di quest’ospedale.

Adriano è in un letto di fianco alla finestra, non riceve mai il sole direttamente, una luce limpidissima lo inonda appena fa mattino. Non vede altro che rami e foglie nell’intreccio vitale che rende il platano secolare un vero ed inarrivabile esempio di attaccamento alla vita.

“Proprio come la sua”, penso mentre gli allungo la colazione.

D’altronde Adriano è uno dei pochi pazienti che, svezzato dalla ventilazione assistita, riprende lentamente a parlare.

Pian piano prende confidenza con noi che, ormai abituati a trattare col suo corpo, ci sembra di conoscerlo da tanto tempo, anche nell’animo.

Il suo sguardo come fatto d’acqua, giorno dopo giorno riacquista forza, quella stessa forza che lui sa di aver praticato per vivere.

Adriano sa di dover morire, non come noi ignoranti e sani.

“Tutti prenotati, siamo tutti prenotati …” rispondo quando mi dice di sapere già come andrà a finire.

Di netto come una banalità buttata li a perturbare la bellezza delle foglie e dei rami.

Essere consapevoli deve essere il più cattivo dei tormenti, eppure la faccia e il corpo di Adriano dicono di una immensa calma, una serenità che di rado ho visto nelle persone.

Adriano, mani splendide di sarto romano d’alta moda, corpo asciutto e capelli appena imbiancati, sessant’anni appena e ben portati.

Adriano legge epigrafi funerarie latine raccolte in una vecchia edizione Einaudi e ogni mattina come uno scolaro diligente si fa trovare con il libricino fra le mani.

“Ascolta questa …” mi dice mentre legge ad alta voce una che gli è sembrata bellissima.

Poche parole, aggettivi delicati eppur potenti a rappresentare in appena due o tre righe il carattere e la vita, il sentimento di defunti millenari, spessissimo bambini, mogli amatissime e mariti valorosi.

L’imbarazzo che provo nei suoi confronti mi ammutolisce, quasi sempre non riesco più a parlare di fronte alla sua leggera e consapevole necessità.

Quasi mi spaventa.

Adriano è morto.

Appena finì di leggere il suo libro, me lo allungò con delicatezza dicendomi: “È tuo”.

Compì il suo modo di acconsentire l’arrivo della sua fine leggendo quella di altri e mi piace pensare alla sua forza quando sfoglio le pagine di quel volumetto sapendo che Adriano riposa da qualche parte in compagnia della sua bellissima e immortale epigrafe.

Labile

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…e Fabio ride.

Scritto da massimolegnani il 23 Febbraio, 2013
cronache / 3 Commenti
Foto di MV

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Scaraventato giù dal letto sono lì che mi arrabatto contro rantoli a pioggia e parametri da schifo, cercando di farmi venire in mente qualche idea che sia buona ma non troppo devastante e lui dal letto mi guarda e ride. È una risata senza voce ma inequivocabile: sta ridendo di me, non c’è dubbio. Forse è la mia faccia da vecchio gufo (saggio? rincitrullito?), forse il mio affanno attorno a strumenti e tubi, a divertirlo. Gli allarmi strepitano ma lui agita nella mano destra, l’unica abile, una spada fatta con i palloncini, e tenta di darmela in testa. Non so che fare, sfodero anch’io una risata, però mi esce amara, in linea con la situazione poco allegra.

Fabio è qui da una settimana, l’ennesimo ricovero, questa volta per una brutta polmonite che l’ha sfiancato, lui già così debilitato. Potrei snocciolare come un rosario tutte le sfighe di questa sua corsa ad handicap per restare in vita, più lui resiste e più gli arriva una mazzata, un nuovo grano di rosario che si aggiunge alla sua corona di spine.

Per una settimana non ha guardato nessuno in faccia, se n’è rimasto lì tutto rattrappito e cupo a lasciarsi sforacchiare, rigirare, nutrire, massaggiare, come se quel corpo non gli appartenesse, forse aspettando il peggio. E adesso che il peggio sembra essere arrivato, eccolo di umore splendido come per magia. Già questa mattina era più partecipe, aveva accennato dei sorrisi, e in effetti le cose sembravano mettersi al meglio. Ma stanotte che tutto sta di nuovo precipitando perché ride?

Non c’è niente da ridere mi viene voglia di dirgli. Ma non è lui che si è ammattito, sono io che sto sbagliando approccio. Dimentico sempre di che pasta sono fatti, lui e la sua famiglia, gente tosta, che sa ridere e combattere. La mamma quando un’ora fa mi ha visto tornare in reparto per suo figlio, mi ha accolto con una battuta allegra, come fossi lì in visita di cortesia, salvo poi opporsi, con tatto e fermezza, alla terapia d’urgenza che volevo intraprendere; mi spiega come nella cardiomiopatia ipertrofica i diuretici siano un azzardo. Già, perché ha pure l’ipertrofia del cuore, non me ne ricordavo, aggiungo mentalmente quest’altro grano al suo rosario. Dovrei chiamare il rianimatore e affidarlo alle sue cure, ma qualcosa mi frena, temo che una volta attaccato al respiratore non lo si svezzerà più. E poi intubazione significa trasferimento, relegarlo in luoghi anonimi, a chi potrà più dare in testa la sua spada?

Smetto di guardare radiografie e monitor, torno alla sua faccia come a un punto di partenza: non ha cambiato espressione e se Fabio ride significa che possiede ancora risorse da cui attingere. E allora aiutiamole queste risorse, mi dico, ma usando il minimo di intervento possibile. Così decido per l’aerosol di adrenalina e per la vecchia maschera di Venturi al posto dell’apparecchio d’ossigeno a pressione positiva che in teoria doveva essere più efficace.

Nel giro di poco il respiro si fa più regolare, gli allarmi finalmente tacciono. La crisi è superata, di qualunque crisi si trattasse, che ancora non ho capito se erano i polmoni, il cuore o il circolo a non fare il proprio dovere.

Ora che dovrebbe ridere, Fabio si è acquietato. Riposa tranquillo, ancora sveglio, un vago sorriso sulle labbra e un’aria soddisfatta da “missione compiuta”. È spossato, d’altronde glie n’è costata di fatica farmi capire come dovevo comportarmi.

massimolegnani

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