Il filo rosso che ci unisce

Scritto da massimolegnani il 23 Febbraio, 2012
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Sabato mattina, reparto zeppo di variegata umanità.

Parecchio lavoro e una piccola fortuna, il buon affiatamento con infermiere e mamme con cui divido quelle ore. Alle mamme, che sono qui da qualche giorno, piace assistere ed essere partecipi di una specie di teatrino che improvvisiamo per le stanze, che le faccia sentire ancora vive, sapere la gravità dei figli eppur trovare il tempo breve delle risa. Fabio, per esempio, a due anni è un veterano d’interventi al cuore non sempre andati bene ed ha una mamma tenace, una specie di Penelope che nel silenzio tesse le speranze, tesse e sorride. Così a metà mattina Laura, l’inserviente che sembra la Litizzetto, si presta a punzecchiarmi e a ricevere bordate in mezzo al corridoio. Motivo del contendere è il risotto col radicchio che lei ha in programma di cucinare stamattina, nei ritagli di lavoro.
– Verrà la solita schifezza che dovremo ingurgitare a forza per non offenderla.
– Dutùr, si leccherà la pentola come sempre con quella sua lingua da vecchio formichiere.-
– Laura lei è meglio in cucina che in reparto, è vero, ma è la differenza che c’è tra zero e meno uno.-
– Le darei una mestolata sulle orecchie
da gonfiargliele un altro po’ che già così mi sembra Dumbo.-
Ride la piccola folla, ride la mamma marocchina che pure non capisce una parola d’italiano, ride la mamma di Fabio che profetizza divertita:
– Vedrete, capiterà l’urgenza al momento sbagliato e allora, buono o cattivo, addio risotto. –

Barbara, in effetti, arriva poco dopo la mezza e a Laura si smorza in gola l’annuncio di pronto in tavola. La conosciamo Barbara, quando arriva passa tutto in secondo ordine. Ha sedici anni e una rara malattia che le rovina la vita. È una bella ragazza, ingabbiata in un gonfiore non suo, me la ricordo prima che iniziasse la terapia, mora e slanciata con gli occhioni neri.
Oggi ha gli occhi persi, come ubriaca. L’hanno portata col 118 direttamente in reparto, che la madre gridava di non perdere tempo in Pronto Soccorso. Adesso è lì, distesa sul lettino, bianca e gialla come un cencio lavato male e fatica a respirare, anzi è già così sfinita che non fatica più, rinuncia quasi a respirare. L’ausculto in fretta ma so già, i polmoni sono a bagno nel suo sangue. Laura, Alessandra ed io facciamo come automi i gesti dell’urgenza, la vena, l’ossigeno, il monitor, i liquidi, un prelievo, la saturazione.
Riusciamo a riportarla ad una ossigenazione accettabile, ora possiamo ragionare. E ragionare significa decidere a chi rivolgerci. Non è una paziente che si possa gestire in pediatria, Barbara ha bisogno di un reparto di rianimazione, qui o a Torino. Lo spiego a sua mamma. Lei guarda la figlia che ha sentito le mie parole e subito si è agitata dietro la maschera.
– Non mandatela via. Barbara ha bisogno di stare tra gente che conosce. Io le devo stare vicina per rincuorarla.- L’anno scorso in rianimazione è stato un dramma. Le ho giurato che mai più.
Il monitor lampeggia e gracchia a ricordarci la gravità della situazione. Dico alla donna che è un grosso rischio trattenerla qua, Barbara potrebbe non farcela. Ma la signora ha gli occhi lucidi e quella calma determinata che non mi lascia scelta. La sistemiamo in una stanzetta senza altri ricoverati e lei, da quando ha capito che resta con noi, è più tranquilla anche se sta molto male. Faccio venire in reparto il collega della rianimazione, che sia al corrente del caso e sia pronto a intervenire se necessario.
Alessandra trotta da una parte all’altra e non sbaglia una mossa. Laura usa la sua arma migliore, la parola, chiacchiera con madre e figlia, racconta, distrae. Barbara ascolta, non ha certo la forza di rispondere, ma a un certo punto le affiora anche un sorriso.
Così passano le ore in questo vivere precario, fatto di affanno e attesa.
Ho concordato la terapia con quelli di Torino ma è soprattutto l’assistenza respiratoria che conta in questi casi.
Do il cambio a un collega e vado qualche ora a casa.
Quando torno a sera, la situazione non è cambiata. Barbara è sotto ossigeno al 100%, ma l’ossigenazione del suo sangue è sempre bassa.
Sarà una notte lunga.
Ora c’è Emilia a lavorare, poi arriverà Sandro. Sono i due infermieri migliori e questo infonde fiducia a tutti, a me per primo. E nessuno protesta per un compito difficile che forse nemmeno gli compete.
Barbara si agita, ha un dolore insopportabile al petto, come un infarto, ma non è il cuore, sono i polmoni che si espandono e premono. E con l’agitazione peggiora il rendimento respiratorio. Tornano i rianimatori, diventano figure familiari per madre e figlia. Insieme concordiamo di usare la morfina. Potrebbe deprimere il respiro, ma noi speriamo che alleviando il dolore il beneficio, anche respiratorio, sia superiore al danno. Barbara si acquieta, non ha più male, e soggettivamente si sente meglio, anche se il monitor non è d’accordo. Si lascia bucare per i controlli senza protestare e poi s’assopisce. Riparlo con la mamma, ho un cauto ottimismo ma insisto anche sulla necessità della rianimazione al minimo peggioramento. Nel sonno le cose vanno abbastanza bene, ma ogni volta che la ragazza si sveglia la saturazione scende. Andiamo avanti di morfina e cortisone e tanto ossigeno. Noi che le stiamo intorno alterniamo fiducia e preoccupazione. La paura è tanta, ma il clima è buono.
Attraversiamo la notte senza accorgerci.
Al mattino la situazione è immutata. Barbara è più rilassata, dice qualche parola, ma il suo respiro non va bene. La mamma capisce e la prepara con dolcezza alla necessità di altre cure che noi non possiamo fornire. Qualche lacrima riga il viso dietro la maschera, ma non è più il rifiuto del giorno prima. Le hanno detto che la mamma potrà starle vicino quasi tutto il tempo, Barbara accetta. Così l’accompagniamo in rianimazione. L’accolgono bene, a coccole e sorrisi. Le sistemano uno scafandro in testa che le manda ossigeno sotto pressione. È un aggeggio fastidioso, ma sempre meglio che essere intubati. E la saturazione finalmente sale.
Torno a trovarla nel pomeriggio. Ha avuto il permesso di sfilare il casco per mezz’ora. Si sta facendo pettinare. Nella saletta dei visitatori i suoi amici la salutano dalla telecamera. Lei li guarda nel televisore e solo quando è ben pettinata si mostra loro in video. Questo mi dice del suo miglioramento più dei tanti monitor.

Scendo in reparto, incontro la mamma di Fabio, che oggi non va tanto bene. Eppure la donna come mi vede, finge di proteggersi con un braccio:
– mi creda, non volevo portarvi così tanta sfiga! –
È una mamma coraggiosa, che sa ridere tra una lacrima e un patema.

Ecco, mi fermo qui, a metà di una domenica. Questo non è un racconto, dalla trama ben confezionata e dalla conclusione chiara, è un tratto di vita, dove tutto s’intreccia e resta lì sospeso, incerto, fino alla fine.
Ma l’altra notte ho visto il filo rosso che ci unisce, tutti.

Massimolegnani

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Obiezione di coscienza

Scritto da blue dolphin il 04 Febbraio, 2012
cronache / 10 Commenti

Pomeriggio di guardia. Ostetricia.

Mi annunciano il menù di oggi: una parto-analgesia da iniziare e un cesareo della mattina da rivedere in reparto. “Ah, sì, e poi c’è l’IVG, dottoressa.” Già, siamo ad agosto: il distretto sanitario dove si fanno abitualmente è chiuso, quindi, eccezionalmente, ce ne occupiamo qui in ospedale. Da quando lavoro qui non mi era ancora capitato.

Mi chiedono se sono obiettrice. Che strano, ogni volta che sento questa espressione: obiezione di coscienza, provo come un fastidio. Obiezione…bellissima parola. Coscienza…ancora più bella, vibrante, dignitosa. Come mai messe insieme non mi fanno più una bella impressione, allora? Come la nutella e la maionese! Sarà qualcosa di personale, senz’altro.

Sarà, per esempio, che penso al mio collega della mattina che ha “obiettato”, così che una donna che era qui dalle sette, pronta e digiuna, sta ancora aspettando che qualcuno la chiami. Con i propri pensieri e le proprie paure.

Quando rispondo ”scusate ragazze, ma vi sembro un prete o un’anestesista?” vedo facce inacidite intorno a me …no, decisamente l’ironia non è la miglior virtù delle ostetriche.

Almeno non di queste.

Ci siamo tutti, si può chiamare la signora. Non è che sia stato così facile, però: un’ostetrica di sala, obiettrice, è stata sostituita da una del reparto. Idem per il ginecologo. Tutti i presenti hanno esercitato la propria scelta, come prevede la legge. Il che dovrebbe farmi supporre che per tutti noi quello che stiamo per fare è solo un atto medico. Nessun giudizio, no? Anche perché, tecnicamente parlando, si tratta di una routinaria revisione di cavità, tale e quale a quelle spontanee, come se ne fanno tutti i giorni, mattina e pomeriggio. Naturale o volontaria che sia, non sono affari nostri.

La mia supposizione è evidentemente sbagliata. Il clima è un po’ teso, imbarazzato. Vado a conoscere la donna, visita e domande di rito, torno in sala operatoria, annuncio il nome della paziente che sta per entrare e subito si alza un coro di galline:

“ma…è italiana??”.

Beh, santiddio, è vero che siamo ormai un melting pot, ma ancora qualche paziente italiana ci è rimasta! “No, sa, è che per fare certe cose, di solito sono straniere…”.

Certe cose”.

A 33 anni dalla 194. Un pomeriggio di agosto del 2011, nel civilissimo ospedale multiculturale di questa regione così “avanti” in Italia (beh…ti piace vincere facile, eh?), in mezzo a persone, non dico intelligenti -la mancanza di ironia era già un triste indizio- ma con un livello di istruzione cosidetto superiore, che non si dichiarano obiettrici… ecco il tabù che proprio non ti aspetti.

Chissà, forse per alcuni è così difficile accettare quelle “certe cose”, nascoste sotto le sigle di IVG, RCU, 194 (che poi sempre un aborto è), che l’unica soluzione passabile che hanno trovato è stata quella di immaginarsi sempre e solo una derelitta: straniera, senza permesso di soggiorno, povera, poverissima, magari anche violentata. Ah, sì, di sicuro è stata violentata poveretta, sennò come si spiega? Invece no, eccola lì l’impunita: è italiana, così a occhio direi ceto medio, niente lividi morbosi sul corpo. Non è un’adolescente sprovveduta. Non sembra neanche una tossica. Eccola là, a sbattere in faccia a tutti i presenti la propria scelta. Questa donna aveva il diritto di scegliere e l’ha esercitato. Avrà passato settimane a pensare, considerare, immaginare, come una partita a scacchi in cui ogni azione ha una conseguenza. E questa è la sua mossa con le sue conseguenze. Questa è la sua obiezione. E’ lei l’obiettrice di coscienza. E noi non ne conosciamo le ragioni, nè sta a noi conoscerle o tantomeno supporle.

Sono molti mesi che lavoro in questo ospedale, ma ci voleva un pomeriggio di agosto in cui il distretto sanitario è chiuso per accorgermi di quanto possano essere imbarazzanti persone con cui lavoro tutti i giorni. Persone che lavorano da sempre con le donne e per le donne: gentili, cordiali, capaci di fare un complimento ad una mamma persino davanti ad un neonato palesemente brutto, a dare loro coraggio anche quando la situazione sembra sfuggire di mano e che adesso hanno improvvisamente difficoltà a guardare questa donna negli occhi e ad essere altrettanto gentili e incoraggianti; colleghi che hanno vite spesso “non convenzionali”: tante ostetriche e dottoresse hanno figli senza essere sposate, tra gli uomini solo due ginecologi non sono (ancora) divorziati, una OSS è una lesbica dichiarata… Tutto questo è accettabile. Anzi di più: è giovane, è moderno, è anche un po’ “di sinistra” se vogliamo buttarla sulla politica!

Invece la scelta di una donna che ora è nuda davanti a noi che siamo vestiti…no, non lo è altrettanto, evidentemente. In nome di cosa, di grazia? Di una vita potenziale? Ma se adesso, proprio davanti agli occhi, abbiamo una vita reale e non riusciamo a trattarla con rispetto?

Colgo sguardi complici e borbottii a mezza voce “ma quanti anni avrà?”. La donna se ne accorge ma sta zitta.

Urlerei io, in compenso. Sono così imbarazzata per i miei colleghi che non mi basta più fare da sola sforzi di gentilezza alla signora.

Che poi, a dirla tutta, non è che l’empatia con i pazienti sia proprio la mia miglior virtù… Mi auguro che il midazolam della premedicazione (tanto midazolam!) la immerga nell’oblio e nell’amnesia. E ringrazio il santo propofol, quando il sonno profondo mette un muro tra lei e quell’idiota che dice “Certo che a quell’età lì una dovrebbe saperlo come si rimane incinte, no?”.

Perché, durante un’emicolectomia, non sento mai dire “Certo che di questi tempi lo sanno tutti che le carni rosse e i salumi fanno venire il cancro, no?”

Cinque minuti. Tutto questo teatrino per cinque minuti di intervento. Pago il mio buon midazolam con un risveglio un po’ più lento e poi a letto.

Il pomeriggio prosegue e anche le mie riflessioni. Mi chiedo se sia stato un caso: una congiuntura di persone particolarmente stupide tutte nello stesso turno? Può darsi, conosco tanti colleghi che non si sarebbero comportati così. Ma se un giorno ci fossi io lì, nuda come un verme? Un preservativo bucato, una pillola saltata, una spirale dispettosa…la mia obiezione di coscienza…mi addormenterei sapendo che, appena chiusi gli occhi, qualcuno si farebbe i cazzi miei.

Passano le settimane. Mi capita di leggere un libro, ormai un “vecchio” libro: “Lettera ad un bambino mai nato“, 1975. Beh…non è poi un vecchio libro: forse oggi che una madre sia formalmente signora o signorina importa meno di allora, ma per il resto sembra che in quelle cento pagine si svolga il mio anacronistico pomeriggio di guardia. Ed è triste.

Leggo: “…Il suo delitto non ha attenuanti, signori. Perché lo commise in nome di una illegittima libertà…”

Mi chiedo, nel 2011, come e da chi una qualsivoglia libertà possa essere ancora dichiarata illegittima.

Blue Dolphin

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Farfalle nella notte

Scritto da Pills il 23 Gennaio, 2012
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“Oggi mi sento in forma, ma c’è un sottofondo che guasta tutto. Diffidenza? Presentimenti? Chissà…”
Io e il mio compagno di nottata ci avviciniamo alla postazione medicalizzata. Tempo di scendere dalla macchina e scambiare due parole con i colleghi smontanti, veniamo investiti da Mike e India per un dolore toracico a 5 minuti dalla postazione. Per fortuna è un falso allarme e ce la caviamo in un tempo ragionevolmente breve.
Le ore passano e la sensazione è ancora lì, addormentata nel mio “di dentro” da qualche parte anatomicamente sconosciuta ma di una pesantezza palpabile.
“Scemenze – mi dico – sarà la cena mangiata in fretta”
Passa un altro servizio, un Rosso finto e il mio autista riceve il cambio.
“Ecco Pizzetto, per fortuna gli piace questa postazione. Siamo in una botte di ferro!”
Aspettiamo ancora un po’ perché le 01.00 di venerdì notte non sono un’ora tarda. Mentre Lucarelli parla di Sant’Anna di Stazzema noi soccorritori ciondoliamo sulle sedie col sonno che sale, mentre il Mike dorme come un bambino, perso nei sogni, le mani agitate da scatti. Sgattaioliamo nella nostra stanza e, data la buonanotte spegniamo le luci in un fruscio di federe e lenzuola monouso. Morfeo è pronto a posare la sua mano sulle nostre teste e farci appesantire gli occhi nel torpore, ma la sua opera viene stroncata dallo squillo impertinente del telefono.
Mentre Pizzetto accende la luce io prendo il servizio. È un vago Giallo generico in luogo pubblico, mi dicono di un cinquantenne a terra in agitazione. Tempo di mettere giù il telefono spunta il Mike assonnato sulla porta con l’aria interrogativa che si confà ad un servizio delle 2 di notte. Gli porgo il servizio leggendogli la mia brutta scrittura peggiorata da una penna fallata. “cos’è qua? 500? Ahhh è 50 anni…certo che si vede che vuoi fare il medico, Dottoressa!”. L’unico Mike che mi chiama Dottoressa e si ricorda il mio nome di battesimo nonostante le collaborazioni distanziate nel tempo.
Arrivati sul posto troviamo, con mio sommo orrore, la mia sensazione. È un signore magrolino che si muove con un’agitazione cieca e ha uno sguardo spalancato in un mare di terrore. Le sue urla sono rotte e noi, intrufolandoci in mezzo ad esse lo carichiamo senza tanti complimenti sul telo, sulla barella e poi in ambulanza.
Ci blindiamo nella nostro mezzo e non c’è più Tavor in frigo. L’India gli fa un’iniezione attraverso i jeans. Le braccia però sono ancora agitate e in tre, tra imprecazioni e suppliche riescono ad incannularlo. Intanto l’ossigeno non basta più. Desatura. Il Mike ha già dichiarato “Miosi e poca reattività alla luce”. Mike e India si osservano, lei burbera ma competente, Lui giovane ma operativo. “è brutto” dicono insieme. Decidono per l’intubazione.
Nel marasma di oggetti fuggiti dal borsone nella confusione iniziale recuperano il kit e procedono a infusione di liquidi e farmaci. “Dottoressa, mi dai una mano? Prendi questo, mettilo sul dorso della mano e lubrifica il tubo quando te lo dico,ok?”
Le mani mi tremano e con loro una fialettona di anestetico, una di fisiologica e una siringa per l’intubazione. Riesco anche a passare una benda e il mio cerotto che porto sempre in tasca all’India. Mike riesce ad intubare subito il paziente e può finalmente ventilarlo.
Un momento di assoluto silenzio piomba nell’abitacolo dell’ambulanza. Mike si gira e anche io. Sono agitata perché di tre farmaci che mi hanno chiesto non ce n’era nemmeno uno nello zaino ma solo altri parimenti utilizzabili ma a me sconosciuti. Sono agitata per lo sguardo del nostro paziente, fisso e spaventato. Sono agitata perché non avevo mai assistito ad un’intubazione, né tantomeno partecipato seppur in minima parte. Mike mi fissa con uno sguardo strano fisso nei miei occhi, come solo le persone coraggiose sanno fare. In un sussurro mi dice: “Il signore muore o rischia grosso. Lo sai?”. La mia sensazione si siede dentro di me ed esplode. Eccola confermata.
Annuisco gravemente. Il paziente arriva vivo in ospedale e anche quando torno indietro a riprendere Mike e Telo portaferiti ha un rassicurante bip-bip attorno a sé.
Sono in un bagno di sudore, ho le ginocchia che mi fanno male come tutte le volte in cui sono tesa. Io e Mike entriamo nella benefica arietta fresca.
Mi sento liberata dall’afa, dal caldo, dalla sensazione accovacciata  in me dall’inizio del servizio. Mike si gira verso di me. Ha qualche anno in più di me ed è lo specchio di come vorrei essere io alla fine della Facoltà: operativa, umana, fresca e sorridente.
“Brava Dottoressa” mi dice.

La sensazione scompare in una moltitudine di farfalle. Una per ogni desiderio, una per ogni sogno, una per ogni speranza.
Sono davvero tante.
Sono proprio belle.

Pills

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Coscienza nosocomiale

Scritto da Narcogigi il 10 Gennaio, 2012
poesie / 2 Commenti

Gioventù e senescenza
media età e adolescenza,
sirene, ascensori e bianche lenzuola,
mille dilemmi per una stanza sola,
vizi e virtù sotto un camice bianco,
un vecchietto smarrito sulla scala già stanco,
infermieri nervosi, svogliati o gioviali
premurosi, seri e a tratti geniali.
Disordine, lavori in corso in amministrazione,
destini di pazienti in mano alla regione,
ippocratismo e deontologia lontani sapori
volpi laureate e avvoltoi come attori,
beante e diffusa indifferenza,
da cui a volte imprevista riaffiora
una nosocomiale coscienza,
che incrocia sguardi, ricordi e pensieri
riconducendo i pazienti ad impliciti doveri,
per onorare un’utopica morale
che accarezza lo spirito alleviando il male.

Narcogigi

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Ohne Wiederkehr

Scritto da Lena il 01 Gennaio, 2012
emozioni / 3 Commenti

“…Ma anche presso i moribondi si deve essere stati, si deve essere rimasti presso i morti nella camera con la finestra aperta e i rumori che giungono a folate. E anche avere ricordi non basta. Si deve poterli dimenticare, quando sono molti e si deve avere la grande pazienza di aspettare che ritornino. Poiché i ricordi di per se stessi ancora non sono. Solo quando divengono in noi sangue, sguardo e gesto, senza nome e non più scindibili da noi, solo allora può darsi che in una rarissima ora sorga nel loro centro e ne esca la prima parola di un verso.”
R. M. Rilke

Ho sempre scelto di mettermi in gioco e 3 anni fa, fresca di laurea, mi sono traferita all’estero con entusiasmo per fare la specializzazione. Perchè volevo impararlo bene questo mestiere, potendo dire, sì me la sento di prendere in affidamento la vita degi altri senza paura.

Sono stati anni durissimi: a 1500 km da casa, orari massacranti, responsabilità enormi per una specializzanda. Sono stata sbattuta nella Rianimazione di un Trauma Center dopo poche settimane di preparazione. Di sola di notte, di sola nelle sere d’estate, di sola nei week-end. Per di più responasabile dell’ Emergency Team intraospedaliero. E così al senso di novità e avventura si è sostituito quel senso di inadeguatezza e rimprovero. E se avesse avuto un’altra anestesista, più esperta, più preparata, sarebbe andata meglio?

Tutto questo stress da un lato mi logorava a poco a poco, dall’altro l’autonomia di lavoro e i progressi che facevo di giorno in giorno mi rendevano orgogliosa. Poi è bastata una piccolissima goccia per far crollare quel fragile equilibrio. Un superiore un po’ più stronzo del normale, che critica continuamente con tono aggressivo e che si lamenta che i pazienti non fanno progressi con malcelato rimprovero. Dopo aver dato anima e corpo per la Rianimazione, non ce l’ho più fatta…Non facevo che piangere, maledicendo il giorno in cui sono partita dall’Italia.

Ho avuto la forza di licenziarmi e cercarmi un nuovo posto, questa volta non così lontano dal confine, in un ospedale più piccolo, nelle mie adorate montagne. I miei colleghi si sono tutti stupiti delle dimissioni, nessuno se lo aspettava. Solo ad un professore ho detto la verità, che sto male e che sono alle stremo delle forze. Nessuno l’avrebbe mai immaginato, mi ha detto con dolcezza e dispiacere, ero considarata la più brava, quella che ha sempre la situazione sotto controllo, che ha intuito clinico e che anche nelle emergenze se la cava sempre egregiamente. Che avrei potuto chiedere aiuto, una pausa, ma per orgoglio non l’ho fatto. Ho recitato bene la mia parte fino a che ho potuto.

Mi dispiace ammettere che non ce l’ho fatta, è una resa in fondo, ma a volte bisogna scendere negli abissi dell’anima per conoscersi meglio. Perchè tutte quelle catastrofi umane con cui ogni giorno abbiamo a che fare, ci toccano più di quanto non percepiamo. Mettiamo decine di drenaggi toracici, cateteri centrali, transfondiamo litri di sangue e plasma, cardovertiamo, defribilliamo e rianimiamo mille e mille volte. Combattiamo a fianco dei nostri pazienti ogni giorno per strapparli alla morte, diciamo loro bugie per lasciargli qualche speranza, parliamo onestamente con le famiglie, le nostre parole distruggono loro la vita e spesso siamo solo tristi messaggeri. A volte li salviamo dalla morte, tuttavia non siamo in grado di regalargli la vita che avevano prima. Interrompiamo le terapie quando non ci sono più speranze, concediamo una dolce morte, decretiamo la morte cerebrale, ci sostituiamo a Dio.

Quegli sguardi persi nel vuoto, quei boccheggi, quella vita parallela che si svolge nelle Rianimazioni ci forgia e ci ferisce al contempo. E una volta che si è entrati così addentro nella vita e nei suoi risvolti, si è a un punto di non ritorno, la leggerezza se ne è andata per sempre anche per noi.

Lena

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Notte di Natale in pediatria

Scritto da massimolegnani il 25 Dicembre, 2011
emozioni / 2 Commenti

Ho scelto io questo turno di lavoro poco ambito. Ero convinto che mi avrebbe fatto bene starmene occupato. Ora sono pentito. Il reparto è diventato troppo tranquillo, inanimato, l’ambulatorio s’è svuotato ed anche il telefono ha cessato di squillare. È come se per Natale la gente avesse firmato con noi una tregua, così mi sento una sentinella inutile e temo che l’inazione mi costringa a guardarmi dentro.

Mentre sono lì a rimuginare, vedo di sfuggita una figura entrare in ambulatorio. La raggiungo un po’ svogliato. Ma non mi trovo di fronte una mamma in ansia per il suo piccolo, è una donna anziana, in vestaglia. Mi guarda intimorita, come l’avessi colta in fallo:- Vado via subito- si affretta a dire. Alta, dritta, emaciata, il volto scolpito dalla malattia, gli occhi scavati ma ancora vivaci, la signora non parla. Si muove per la stanza come in un museo e osserva con stupore i grandi dinosauri malati disegnati sulle pareti. Ogni figura viene studiata minuziosamente ed io temo che la donna non ci sia con la testa. – La Medicina ha fatto passi da gigante!- afferma con convinzione. Accenno un sorriso ebete, ma lei prosegue:- finalmente incominciate a capire che dovete prendervi cura delle persone, prima che delle malattie. Queste pareti mi confortano, anche se non sono più una bambina. In queste figure leggo il desiderio di esorcizzare paura e dolore. Ed anche la disponibilità a mettersi in gioco- aggiunge, indicando il vecchio dinosauro con il camice che stranamente mi somiglia.

La signora emana una dignità austera che il turbante di velluto blu, con cui cela la nudità del cranio, non sminuisce certo, anzi accentua, come se quel simbolo inconfutabile di malattia le conferisse un’aura speciale. Non so cosa risponderle, ma mi accorgo che le sue parole mi fanno bene. Desidero che riprenda a parlare. E lei parla, serena, della battaglia che sta per perdere, mi tiene una mano tra le sue, asciutte e calde, come fossi io il malato da confortare.

Poi tace. Si toglie il turbante e lascia che il mio sguardo si posi sul suo cranio lucido. Non abbiamo più pudore. Ci fissiamo muti e sorridiamo senza sapere perché.

La donna si alza in piedi con qualche fatica e mi dà il braccio. Sono le cinque del mattino quando l’accompagno al suo reparto.

Ci lasciamo come due vecchi amici. Un breve cenno della mano che vale più dei tanti insulsi auguri che scambieremo in questi giorni.

massimolegnani

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Cambiamenti

Scritto da zarianto il 15 Dicembre, 2011
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E’ una notte estremamente afosa, come sempre più di frequente se ne verificano negli ultimi anni. Gli inverni miti e le estati fresche riportati dai sussidiari delle scuole elementari, contrapposti agli inverni rigidi e alle estati torride di altri Paesi meno fortunati del nostro, per ubicazione geografica, sono ormai un lontano ricordo. Da tempo l’Italia viene regolarmente presa nella morsa del freddo e del caldo, come annunciano ad effetto, i mezzi stampa, ogni anno. E’ la tropicalizzazione del clima. In questa notte di un caldo e umidità insopportabili, che tagliano il fiato, che per ogni respiro ottenuto affannosamente, cagionano indicibili profluvi sudoripari, capita anche di dover lavorare, di trovarsi a guardia della salute altrui, pronti a intervenire, in caso di necessità, benchè…non ci si regga nemmeno in piedi! Fiaccati da un clima inumano che si appropria dei sonni, di notte, quando, a occhi sbarrati e tra lenzuola madide, si cerca e non si trova la posizione migliore per dormire e che ostacola l’incidere diurno, sempre più sonnolento e rallentato, si reperiscono, dentro e fuori di sè, le risorse da opporre. Così, si spalancano tutte le finestre della stanza, a rischio di essere divorati dalle zanzare e si spingono a manetta le pale del ventilatore: fonda pure!
La città sottostante -il destino beffardo ti colloca anche all’ultimo piano dell’ospedale, dove si accumula l’aria più calda- dorme. Ma dorme davvero, poichè gli abitanti non osano nemmeno uscire di casa. I lampioni illuminano a giorno strade deserte da cui proviene l’eco della voce di pochi ardimentosi che discutono… all’aperto! Quei suoni sono l’unico parametro vitale apprezzabile di un centro urbano in narcosi.
Immancabile giunge una chiamata, che scatena nella mente un’orda di maledizioni, anche in lingue diverse, alcune addirittura morte, poichè si sperava, in tutta franchezza, di averla scampata. Soprattutto perchè si sa bene di essere assai lontani dalla forma, come dire, clinica ottimale, al pieno delle proprie capacità. Ma, con estrema sorpresa, la voce del ricevitore non appartiene a un collega, a un’ infermiere o a un centralinista, bensì… a un amico.
Un amico in grave difficoltà, non di salute, al momento, ma… economica! Trattenendo a stento il pianto e la vergogna, egli racconta di non disporre dei mezzi minimi di sussistenza, del pane, insomma e, di lì a poco, nemmeno più della casa. E’ disoccupato, nonostante trascorra le giornate in file interminabili per un colloquio di lavoro…qualunque, difficile, però, da ottenere a quarant’anni. Emarginato dalla famiglia, lasciato dalla fidanzata che, probabilmente, non hanno energie sufficienti a sostenere altre persone, poichè, a quanto pare, a stento sopravvivono e anche perchè ho l’impressione che alcuni possano considerare la disoccupazione una specie di patologia contagiosa da rifuggire assolutamente e forse non sbagliano di molto, se non perlomeno nell’identificazione del paziente, che in tal caso non dovrebbe essere la persona, ma la società in cui vive, se i tassi di incidenza e
prevalenza -la popolazione colpita, sostanzialmente- sono effettivamenti quelli di una feroce malattia infettiva, ignorato dall’assistenza sociale in quanto single, cioè privo, a questo punto fortunatamente, di altre bocche da sfamare, il malcapitato non sa più a chi rivolgersi.
E allora chiama in tarda serata, furtivamente, come un ladro, col favore delle tenebre, per non essere riconosciuto, evitando anche di esporsi all’attenzione e al giudizio dei famigliari dell’amico che forse lo potrà aiutare, rimettendo nelle mani altrui, l’intera sua dignità! Percependo l’immane difficoltà di chi non ha via d’uscita, lo invito a raggiungermi, nel tentativo di confortarlo. Egli viene in ospedale, all’ultimo piano, provato e non solo per il caldo e si apre. Tornerà poco dopo ai suoi problemi con qualche soldo in tasca, un effimero palliativo.
E poi?
Da almeno vent’anni volano parole come “Lacrime e sangue”, “Sacrifici”, “Tempo di vacche magre” e mi chiedo come si possa essere ancora privi di cura contro la crisi economica mondiale che imperversa da decenni. Si procede tra provvedimenti tampone e misure correttive, ma di eradicazione, nemmeno a parlarne! Il confronto con la medicina è argomento troppo ovvio per essere discusso.
Sortiscono inarrestabili dai meandri della memoria le antiche narrazioni di una nonna a un bimbo che voleva fare il dottore, relative al medico condotto di un tempo, che, dopo la visita domiciliare, non visto, lasciava del denaro sul tavolo della cucina, prima di abbandonare l’abitazione del paziente. Sprofondo nuovamente nella poltrona del medico di guardia e torno a fissare le pale del ventilatore che roteano vorticosamente, allontanando un po’ di quell’arsura irrespirabile dal mio volto e ad ascoltare il silenzio innaturale della città che irrompe nella stanza dalle finestre spalancate, augurandomi che non venga più interrotto dal lamento stridulo e fastidioso del cicalino. Il malessere fisico attutisce il senso d’impotenza e la disperazione solidale che tentano di erompere, ma non vi riusciranno, sopraffatte, anch’esse…dal
caldo!
Fa caldo.  Fa freddo.  C’è crisi.

Zarianto

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Pronto…?

Scritto da Bellerophontes il 05 Dicembre, 2011
emozioni / 1 Commento

Quasi finita.
Esco.
Sigaretta.
Fa caldo oggi, quel caldo afoso che contrasta con il fisiologico bisogno di assumere al più presto il clinostatismo e lasciare calare l’adrenalina.
Non cala, sono le otto del mattino in questa caotica città: i bambini vanno a scuola, il bar dell’ospedale serve i pochi cornetti avanzati dall’orda dei “ragazzi del pronto” che, puntualmente alle sei mezza cercano coccole in un cappuccino forse troppo tiepido, mai così buono eppure necessario.
Occhi gonfi… ok sta scendendo, il parasimpatico riprende con prepotenza il suo ruolo evolutivo e spinge l’uomo al letto e la donna -toste le donne del pronto- a casa,dai bambini o dai mariti, che forse a volte non capiscono perché cazzo la loro compagna di vita abbia scelto quel lavoro.
Jeans, Converse rosse e maglia di qualche festival reggae di chissà dove, sigaretta in bocca e come uno zombie vengo travolto dalla miriade di impegni quotidiani altrui…
-ecchecazzo scansati,non vedi che sei in mezzo alla strada? ma sei fatto?-
-magari-
-vaffanculo-

Vai in edicola
E chiedi il tuo Corriere, non altro.
Sembri solo uno mediamente sfatto che compra un giornale, abbastanza invisibile per i più, riconoscibile appena per il fonendo che tracima dalla borsa col suo plumcake spiaccicato in fondo.
Forse solo per quello in edicola non controllano se i soldi sono buoni.
Stai pensando a cosa avresti sbagliato al posto dei tuoi strutturati e dei tuoi specializzandi, chè rappresenti il fondo della catena alimentare dell’AZIENDA-oddio-ospedaliera e sparare a te non è come sparare alla Croce Rossa, non buchi nemmeno la gomma, al limite, nell’ “area calda” rantoli nel tuo emotorace, questione di dieci minuti, del tutto fisiologica.
Quando esco conto trentadue passi.
Il parcheggio bici delle aule.
Questa sigaretta non è per me, è per festeggiare chi vedo uscire sulle proprie gambe e persino io lo immaginavo sin da subito, ma a volte non ci speravo, quelli che invece riempiranno con gioia le consegne delle cliniche d’accoglimento e quelli che vengono presi mezz’ora prima, sul retro da quell’anonimo furgone bianco senza scritte, interni in nichel, ragazzi 9,30 autopsia….
Pensavo all’inizio che ognuno di quei camioncini rappresentasse un nostro errore, il classico momento in cui ti penti di non aver scelto l’avvocatura, in cui ti chiedi se forse non era quello l’unico caso in cui andava applicato ciò che stai studiando su tomi da duemila e passa pagine, e per gli altri hai avuto solo culo.
Invece ho capito che rappresenta la vita come le auto in coda, il caffè schifoso delle macchinette alle tre del mattino, i maghrebini ammanettati alle barelle da sbirri che portano una bandiera in cui credo e che a volte -poche- meriterebbero che qualcuno gliela facesse mangiare in corsia, la gente che litiga in fila alle poste, quell’ EPA che EPA magari boh…, mah… forse proprio EPA non è fino a che il valore del D-Dimero non sembrava un jackpot dell’enalotto.
O per quel sogno, quel cucciolo con i capelli d’oro che fissi come un ebete, e raccogliere l’anamnesi, da grande onore diventa una seccatura, perché devi scrivere al computer e non puoi perderti nei suoi occhi, e tutto ciò che vorresti dirle è solo: “andrà tutto bene perché io sono qui”, anche se tutto sommato non conti un cazzo.

È particolare.
È dura, ti serve un maestro.
Io l’ho trovata…

Ho ormai fumato la mia quarta sigaretta.
Questa è per voi che entrate distesi in area rossa, col fiato che si spezza nella gola con valori tennistici al saturimetro, forse la squallida lampada al neon sopra il vostro letto sarà l’ultima immagine impressa nelle vostre rètine .
Combatteranno con il cuore di chi non può permettersi di sbagliare ed insieme a volte sbaglia di proposito, perché ricorda che non si cura un cuore malato, ma una persona malata di cuore.

La quinta mi porta a casa e mi insegna che di strada ne manca e tanta…
Darò tutto per i miei pazienti, amore fraterno a tutti coloro che mi lavoreranno a fianco, il mio rispetto e l’obbedienza al mio maestro.

Grazie Pronto,
Sto diventando grande

Bellerophontes

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La Danza del Coagulo

Scritto da Sbaru il 28 Novembre, 2011
cronache / 2 Commenti

Sono solo uno studente in medicina per ora, non so neanche se posso già lasciare qui traccia della mia esperienza… fatto sta che questa notte è stata la mia prima notte in ospedale.
Frequento in cardiochirurgia e il giovedì gli specializzandi riposano e gli studenti vanno in sala. In questo momento l’unico vero studente sono io, infatti ormai quelli che sostituiscono gli specializzandi il giovedì sono dottori in coda per l’ingresso in specialistica. Ovviamente l’operazione più “scomoda” l’hanno sbolognata a me. Un re-intervento nel tardo pomeriggio… bello, vedere sostituire due valvole da mani esperte è meglio che andare al cinema, soprattutto quando ti trovi lavato sul campo operatorio e ogni tanto ti viene chiesto di toccare un cuore con mano, mettere punti o semplicemente aspirare del sangue.
L’operazione è praticamente finita, è il momento di chiudere…tocca a me! Ma la paziente in questione non ha intenzione di coagulare, il sangue che ristagna nel mediastino è fluido come se avesse preso l’aspirina… la sua ACT resta a 190 anche dopo 2 sacche di plasma. L’intervento che poteva finire in cinque ore sembrerà durare molto di più.
Le garze sembrano sempre più rosse e dopo averle provate tutte, comprese le garze bollenti su pleure e pericardio, una infermiera improvvisa la danza del coagulo. Sono troppo stanco per arrivare a leggere l’ora, ma sicuramente la mezzanotte è passata da un pezzo…ciò che inizia a preoccuparmi maggiormente sono le news dal reparto: una signora, non si sa bene come, ha deciso che era la sera giusta per rompersi l’arteria femorale, e così con due clamps uno a monte e uno a valle della rottura giunge nella sala affianco alla mia in urgenza.
Arrivano notizie di un espianto ex vivo di polmone a un ospedale vicino, tutti scalpitano perché è in corso uno studio importante e uno dei nostri pazienti sta per avere in dono il respiro di qualcun altro.
E in tutto questo io sono sempre lì con le mie garze che ormai non si contano più e sono sempre più rosse. Arriva un giovane strumentista in sala urlando “dissecante”…
è l’urgenza per eccellenza in cardiochirurgia e probabilmente la sua notte sarà ancora più lunga della mia!
BASTA…non ha più senso aspettare, ancora una sacca di plasma e poi si chiude lo sterno, si aggiunge un drenaggio in più, ma ci sono in gioco complicanze ancora peggiori di un sanguinamento post-operatorio dopo dieci ore sotto i ferri!
Finalmente quel torace aperto e irriconoscibile, ora ha un aspetto quasi umano, se non fosse per quei 3 tubi che sbucano poco sopra la pancia!
Esco dalla sala operatoria strappandomi il camice sterile neanche fossi dentro un telefilm…peccato che, neanche fuori dal reparto operatorio, giunge la notizia che il dissecante probabilmente non ce la farà…
mi sento in colpa. Non so perché, ma mi sento sempre in colpa, anche quando nella mia impotenza, non riesco a fare il possibile.
Mi assicuro che la mia paziente stia bene, scrivo l’atto operatorio e fuggo in sella alla mia moto, nel buio della città, lontano dalle luci della corsia di ospedale.
Vorrei fumarmi una sigaretta, ma purtroppo non fumo…mi accontenterò di apprezzare il mio respiro che di norma silenzioso mi permette di vivere e di far sopravvivere…

Sbaru

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50 anni di matrimonio

Scritto da rem il 13 Novembre, 2011
cronache / 5 Commenti

Sono le tre e vorrei provare a dormire, oggi la Tc non funziona, il 118 è stato avvisato  e l’afflusso dei pazienti è inferiore al solito, ma basta solo pensare di poter riposare,  prima ancora di pronunciare le fatidiche parole “ragazzi io proverei a mettermi  giù“ che il campanello del triage suona ripetutamente.
Provo lo stesso a stendermi ma so già che servirà solo a farmi rilassare le gambe affaticate per pochi minuti, il telefono  squilla  nella stanza del  medico di guardia. “ ci sono visite” dice Daniele dal triage.
Poi lo incontro prima di entrare in sala visita “ è una coppia di anziani, lui questa sera  le ha misurato la pressione  e l’ha trovata molto bassa così si è spaventato e l’ha portata qui” Sono nervoso, incazzato, volevo davvero riposare, domani speravo di godermi un po’ la giornata invece di morire stramazzato sul letto.
Cazzo è possibile che ormai si venga al pronto soccorso per qualsiasi cazzata, ma se la signora stava bene che cosa l’ha portata a fare e perchè cazzo le ha misurato la pressione alle tre di notte?
Non se ne può più di tutti questi anziani.
Indosso comunque la mia faccia migliore ed entro nella stanza. Di fronte a me c’è un signore  alto con un buon portamento ed un’espressione di scusa quasi avesse sentito le mie parole.
“sa dottore mia moglie ha 88 anni, ha una grave insufficienza mitralica e lei non ha voluto farsi operare ma io ho paura, ho paura che muoia, sa stiamo insieme da 50 anni”.
Ci metto un attimo ad ingoiarmi i pensieri e a sentirmi un imbecille
La moglie è lì, già stesa sul lettino tranquilla con una faccia un po’ seccata
“ è lui, è lui che ha voluto potarmi, io sto bene, non volevo venire, ma lui si spaventa sempre per ogni cosa e mi porta in ospedale  ma quando torniamo a casa mi sente.”
“Va bene signora adesso vediamo”
Gonfio il manicotto e sgonfio lentamente : 120/70,  magnifico! c’è una fibrillazione atriale (già nota) con una frequenza normale, la  signora respira benissimo da supina, la saturazione è sopra i 98% in aria ambiente, c’è  un gran soffio puntale ma non lo straccio di un rumore umido sul torace, niente all’addome, non edemi. Lei  mi guarda e sorride
“ allora dottore è vero che posso tornare  a casa ? tanto io non mi faccio operare ho già deciso, ho 88 anni, dottore. Daniele mi mostra l’ecg: ndp, sovrapponibile ai tracciati precedenti.
“Certo signora che può tornare a casa “.
Lei guarda il marito soddisfatta, lui le si avvicina per baciarla, lei lo allontana, sembrano due ragazzi, potrebbero avere cinquant’anni di meno.
Scaramucce da innamorati.
Cazzo che triste è la  vita. Lui sa che la perderà da un momento all’altro ed ha una paura del diavolo, ha tanta paura che non riesce a godersi il tempo che ancora vivranno insieme. D’altra parte, mi dice, i dottori gli hanno detto che se lei non si farà operare morirà senz’altro e di non farle fare quasi niente, nessuno sforzo, qualcuno la ha anche trattata male perchè ha rifiutato di farsi operare. Sì, lo so, in ogni categoria ci sono gli  stronzi integralisti, o fai come dicono loro o si incazzano, si offendono.
Come se non sapessero che a ottantotto anni, anche senza un’insufficienza mitralica si può morire da un momento all’altro.
O anche a quarant’anni o anche meno.
Come se non sapessero che si muore ugualmente.
Tornate a casa tranquilli, e lei non si preoccupi, la porti pure al mare con la macchina, poi quando siete lì sedetevi davanti al mare  e guardate forte più che potete,  fate finta di niente come se doveste vivere per sempre insieme, non abbiate paura.
E’ quel che mi sento dire, più o meno
Qualche volta mi scordo che le parole servono davvero.
Lui  finalmente si rilassa e sorride.
Chiudo il verbale, vorrei scrivere ‘paura di perdersi dopo 50 anni di matrimonio’
Dici poco? È una diagnosi che mette i brividi, allora scrivo ‘riferita ipotensione in nota insufficienza mitralica severa (la pz ha rifiutato l’intervento cardiochirurgico)’

E’ più corretta,  ma di verità solo l’ombra.

Rem

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