oggi per domani

Scritto da folfox4 il 28 Aprile, 2011
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LE DIRETTIVE ANTICIPATE DI UN ANESTESISTA-RIANIMATORE

Le un giorno mi succedesse di non poter più scegliere per me e la mia sorte fosse affidata ai miei colleghi, desidero, prima di tutto, che nella fase più acuta della mia malattia sia fatto il possibile per salvarmi: credo nella scienza e amo la vita.

Desidero però che fin dall’inizio il loro impegno non sia profuso acriticamente, ma costantemente ispirato alle migliori evidenze scientifiche da un lato, e al minor grado d’incertezza possibile dall’altro.

Laddove non vi fossero certezze, desidero che sia la buona pratica clinica a guidarli.

Così, chiedo loro di accettarmi in Rianimazione solo se saranno sufficientemente sicuri di poter fare qualcosa per me.

Altrimenti di non farmi soffrire.

Una volta ammesso in reparto, desidero che essi, nel corso della malattia, mantengano costantemente ancorati ad un ben bilanciato rapporto costo/beneficio il giudizio clinico e le successive decisioni.

Per interpretare il senso che io do alla parola “costo”, desidero sia ascoltata mia moglie, l’unica in grado di dire al posto mio per che cosa valga la pena per me vivere.

Quello che in merito posso affermare io oggi è di aver sempre cercato una proporzione tra quantità e qualità della vita.

Per qualità di vita intendo la possibilità di avere coscienza di me nel mondo, memoria di me e dei miei cari, di essere per loro un riferimento affettivo, ma anche un utile appoggio nelle diverse congiunture della loro esistenza.

Non voglio invece essergli di peso.

Durante il periodo di mia “non presenza” desidero che i miei cari possano essermi accanto in Rianimazione senza limiti di tempo, liberamente.

Così, gli si allevierà l’angoscia dell’impotenza, e, vedendomi, si renderanno conto del mio reale stato giorno dopo giorno, facilitando ai colleghi il compito di informarli.

A questo riguardo, chiedo ai colleghi di essere chiari.

Perché i miei cari possano comprendere senza dover sopportare ansie inutili, ma anche senza farsi illusioni.

Ove possibile, sarebbe opportuno che fosse sempre lo stesso medico a rapportarsi: “una faccia, una parola”.

Desidero che i colleghi fondino poi le loro decisioni sulla prognosi, non su ciechi tentativi.

Desidero che ricordino di condividere con i miei cari le scelte terapeutiche che dalla prognosi deriveranno.

La responsabilità di quelle scelte non dovrà né ricadere totalmente sui miei cari, per un malinteso senso di rispetto della mia autonomia, lasciandoli soli a decidere senza gli strumenti per farlo, né dovrà essere avocata totalmente ai colleghi escludendo i miei cari dalla possibilità, in futuro, di ricordare di aver contribuito a fare qualcosa di buono per me.

Se le cose dovessero andare male, una volta maturato il profondo convincimento dell’inutilità di continuare con le terapie, desidero che i colleghi lo dicano chiaramente ai miei cari e condividano con loro la scelta di desistere da ogni ulteriore trattamento, avendola i colleghi stessi, per primi, condivisa.

Desidero che questi ultimi compiano ogni sforzo per far comprendere ai miei cari che l’unico modo per dimostrarmi ancora affetto è lasciarmi morire.

Desidero che i miei cari rispettino questa mia volontà.

In quel momento sarà importante per loro che sia un collegio medico, rappresentativo di quel reparto, a esprimere la prognosi, non un medico solo.

Perché credo che la scelta di lasciar morire sia tanto responsabile quanto angosciosa, e che la solidarietà espressa da una comunità umana di fronte alla morte aiuti tutti i suoi componenti ad affrontarla: familiari dei malati, medici, infermieri.

In questo caso desidero che mi siano garantite una totale analgesia e una profonda sedazione e che mi sia concesso morire con i miei cari accanto.

Se durante la mia malattia dovessi invece rimanere cosciente e consapevole, desidero essere informato di ogni situazione e messo nella possibilità di scegliere io per me.

Di scegliere anche di rifiutare trattamenti vitali, se giudicassi il vivere nella nuova condizione non consono al mio concetto di dignità.

Folfox 4

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un corso sul politrauma

Scritto da il Jolly il 05 Aprile, 2011
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Un corso sulla gestione del politrauma, in qualità di docente. Dovevo arrivarci prima o poi a questo momento topico della mia carriera professionale! Be’, le linee guida della regione Marche sul politrauma sono del 2006, a dire il vero, ed il gruppo di revisione della zona territoriale di Senigallia, si è limitato ad adottarle con qualche aggiustamento (ad esempio il radiologo di guardia 24/24 noi non lo abbiamo. Non ce lo possiamo permettere). Affronterò il tema dei criteri di centralizzazione dal DEA di I° al DEA di II° livello. Poi verranno discussi dei casi clinici. Porterò P.B. Non so bene ancora perché, ma lo saprò presto.P.B. aveva accompagnato i figli ad una serata del Summer Jamboree, il festival musicale anni 50 che la mia città ospita da diversi anni. Sindacalista stimato, concreto, ne aveva passati di momenti difficili, come un trapianto di rene alcuni anni prima. Fino a quello stop. Un attimo di distrazione, lo schianto sul lato di guida ed il dolore, forte al torace, il respiro faticoso. Codice rosso traumatico. Al PS le condizioni sembrano gravi, ma non disperate: PA 130/70, GCS 15, FC 100, SpO2 97% con O2 in maschera.
Però un forte dolore al torace e l’addome fa male anche quello. Viene sottoposto ad RX torace che evidenzia un pneumotorace a sx con fratture costali multiple. Arriva il Rianimatore e si avvisano il Radiologo ed il Chirurgo reperibile. Verrà condotto in sala ecografica dopo il posizionamento di un drenaggio toracico in sala operatoria. Il Rianimatore sale con il paziente, segue il Chirurgo. Ci vuole poco in mani esperte a posizionare un drenaggio toracico. Escono 800 cc di sangue. Il collega mi chiama (e se Enrico chiama… sono cazzi!). Il chirurgo vorrebbe una TAC toraco-addominale. Lo dissuado, chiamo il Radiologo e lo faccio salire in sala con l’ecografo portatile. Nel frattempo il nostro P.B. e’ sempre piu’ dispnoico e va in shock! Gia’ visto. Mettiamo la sonda ecografica, ma sappiamo gia’ quello che vedremo e lo vediamo. P.B. e’ lucido, lo avvisiamo della necessità dell’intervento e di dover procedere alla anestesia generale. Ci avvisa che sarà una intubazione difficile, ci prega di fare attenzione a non rompere le protesi fisse. Immagino siano costate un occhio. Induciamo. Ha ragione, non si intuba! Iniziamo l’intervento di laparotomia con Enrico che ventila in maschera. Poi provo con la CTrach e riusciamo ad intubarlo in qualche modo. Ha una cannula sedici ed un diciotto. Metto un CVC. Milza rotta, lacerazione di mesosigma e meso ultime anse ileali, esteso ematoma retroperitoneale, disinserzione completa emidiaframma sx…ecc. Teniamo duro per tre ore e tre arresti cardiaci intraoperatori. Sul campo di battaglia nove unita’ di emazie concentrate, due di plasma, 2 litri di colloidi, 4.5 litri di cristalloidi, infusione di amine, sudore… Poi l’ultimo arresto. All’ultimo punto di cute. Parlerò di P.B., non so ancora perché, ma lo saprò al momento.

Il Jolly

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attimi

Scritto da Icy24 il 18 Marzo, 2011
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La sigaretta si consuma lenta sul posacenere mentre il fumo lentamente si dissolve davanti allo schermo… so ch’è tardi e so che domani avro difficoltà a svegliarmi così come accade ogni volta che indossiamo quella maglietta blu scuro con una grande croce rossa sulla schiena… ma anche stanotte ho (abbiamo) aggiunto qualche altro mattoncino prezioso su quello che sarà, un domani, il muro dei ricordi…
…mattoncini senza nome…
…mattoncini con volti e parole……come quello che descrive Claudietta che medica e pulisce tranquillamente una ferita aperta e da suturare quando, poco tempo fa, sarebbe inorridita al solo pensiero… che ogni volta che la guardo… sono orgoglioso di Lei…

…come il falegname poeta con la distrofia muscolare che la moglie ci dice avere un brutto caratteraccio e di stare attenti ma che con un paio di parole e un sorriso si ammansisce e comincia a parlare, parlare, parlare e incantare…

…come i volti di tanti bambini che entrano con i lacrimoni e quanche urlo che farli calmare a volte è una impresa ma che quando escono sorridono ed esibiscono un piccolo cerotto o un braccino ingessato come un trofeo…

…mattonicini di gente allo sbando in cerca di un posto dove pasare la notte da gestire spesso non senza qualche difficoltà affinchè non rechino disturbo a chi soffre davvero…

…mattoncini di paura vera durante un collasso e la corsa con le ali ai pedi verso il box di emergenza rossa… mattoncini di un certo Luca che alla fine, ringraziando il cielo, era solo una crisi di panico, panico vero ma…. cavolo… m’è preso un colpo pure a me…

…mattoncini che non si fermano un secondo e girano per il pronto soccorso con veloce e silenziosa efficenza dalle 20:00 alle 24:00… e più…

…e mattoncini di gente che si ferma a leggere con più attenzione la scritta “VOLONTARI del soccorso” che circonda la croce rossa che portiamo sul petto… e ci dice semplicemente GRAZIE… e che raramente esce dal policlinico senza passare a salutare con una silenziosa ma bellissima stretta di mano…

…mattoncini che a fine serata, davanti a uno schermo e con la sigaretta che ormai sfuma nel nulla, guardi… sfiori con la mente… respiri… e che ti regalano il vero perchè tu sai qual è la risposta alla domanda “…ma chi ve lo fa fare?” che troppo spesso ci vien fatta… perchè alla fine… già…

…chissà perchè…

Icy24

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entro in c ward… poco dopo

Scritto da Aral il 03 Marzo, 2011
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Poco dopo entro in C ward. Provo a non farci caso, ma spontaneamente butto l’occhio sul letto vuoto. Lei è tornata alla missione cattolica, un’oasi di felicità, dove ha la possibilità di studiare e stare assieme ad altre ragazze diversamente abili, perché abili lo sono ma a modo loro, con le loro difficoltà che non hanno vergogna di nascondere. E anzi di mostrare su un palco dove danzano con i loro sogni, le loro protesi, le loro carozzine. Si, danzare! Perché tra i vari progetti della missione c’è anche una scuola di danza per ragazze disabili.

Poco dopo la sua ammissione nel nostro ospedale Reaksa è distesa su un lettino, in attesa di entrare in sala. Sul quel letto immenso, i suoi occhi sembrano ancora più grandi. I nostri chirurghi provano a toglierle le ossa del coccige, puliscono bene la piaga e cominciano così le medicazioni ogni due giorni. Comincia cosi l’ennesima speranza di guarigione, quella che accomuna tutti noi, tutto lo staff di Emergency, ognuno di noi guarda i pazienti con questa attesa.

Poco dopo comincia l’amicizia con Chanta, la bambina saltata su una mina con la sua famiglia, e salvata grazie alla bravura dei nostri medici e infermieri. E con Soknga, la bambina con l’osteomielite a cui si tenta di salvare la gamba. Tutte e tre giocano assieme, vanno a mangiare assieme, si toccano, si guardano, si rispettano, ognuna con la sua disabilità.

Poco dopo arriva un materasso ad acqua donato da Emergency alla missione cattolica, il cuscino antidecubito per la carozzina e alcune medicazioni speciali dalla generosità di alcune persone dall’Italia.

SI, poco dopo aver visto gli occhi e il sorriso di Reaksa non si può fare a meno di volerle bene e di desiderare di vederla danzare con la sua carozzina negli abiti tradizionali Cambogiani.

Buona fortuna Reaksa. Che la gioia dei tuoi occhi rispecchi la tua vita.

Aral

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Anna e Giorgio

Scritto da Meri il 15 Febbraio, 2011
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All’Asilo dei Vecchi si lavora per difendere la vita. Ma non come in una rianimazione e men che meno come in una neonatologia, perchè è la vita di vecchi, è già vissuta. Si aspetta solo che finisca in qualche modo, non si può fare altro che togliere un po’ di dolore, ma non si riesce mai farli star bene. Facciamo attenzione che non gli vengano le piaghe, che riescano a mantenere i movimenti che hanno ancora, che siano puliti, dignitosi insomma.
Una volta la settimana si proietta un film o qualcuno suona una fisarmonica cercando di mantenere vivo un minimo interesse per la vita, ma solo ed esclusivamente la propria, quella degli altri non esiste più. Il mondo di ogni anziano che abbia ancora un minimo di lucidità e molti acciacchi, inizia e finisce con lui.
Lavorare all’Asilo dei Vecchi significa difendere la dignità della persona al di là del suo stato, per quello che è, se è ancora qualcosa in un involucro sofferente, o per quello che è stato.
All’inizio sembra tutto inutile, perchè sono anziani, perchè non sono più consapevoli, perchè sono aggressivi, perchè hanno un rivolo costante di saliva che gli riga il mento, perchè qualcuno ogni notte fa a pezzi il pannolone e sparge e spalma ovunque il contenuto…
Tuttavia col passare degli anni (per quanto mi riguarda, almeno dieci) scopri e capisci che ciascuno di loro è un personaggio, sia nella lucidità che nella demenza.
Raccontano una storia, la loro certo, ma tutte simili tra di loro. Sembrano brandelli della stessa storia universale, il che mi fa venire il dubbio che possa essere un’anteprima della mia possibile storia, ma anche della tua o di ciascuno di noi.

Allora lo sguardo, il punto di vista cambia e si fa più attento, le orecchie più tese.

Cerco di andare oltre e di immaginarmi quella persona quarant’anni fa, nel pieno delle sue forze quando lavorava in miniera o in fabbrica.
Così mi lascio dare un bacio sulla guancia, per quanto mi faccia un po’ senso. Talvolta afferro una mano che vaga nell’aria anche se è scambiata per quella di una figlia, ma più spesso per quella di una mamma.

Al secondo piano dell’Asilo dei Vecchi c’è Anna, con i suoi 94 anni, una postura perfettamente eretta, lo schema del cammino sciolto e ancora agile senza bastone nè girello. Può salire più volte al giorno quattro piani di scale, ma il suo sguardo è opaco, guarda con sospetto ogni persona che le passa accanto perchè pensa che voglia ucciderla, non parla con nessuno, non partecipa a nessuna attività e, di tanto in tanto, preleva alcuni abiti dall’armadio, li ripone in una borsa di nylon e si siede sulle scale aspettando, a volte anche per intere giornate, un nipote inesistente che la riporti “a la sua casa”.
Al primo piano c’è Giorgio di 68 anni che cinque anni fa ha attraversato la strada ubriaco ed è stato investito da un’auto riportando delle lesioni cerebrali gravissime con gravi conseguenze motorie e cerebro-cognitive. Dopo un lungo ricovero in ospedale, senza figli nè moglie è finito da noi, all’inizio qualche visita sporadica di qualche lontano parente e poi via via sempre più rade. Solo un fratello di tanto in tanto gli fa visita, ma lui sembra non accorgersene, le voci che sente più di frequente sono quelle del personale che si prende cura di lui.
Chissà se pensa, chissa che cosa pensa Giorgio, rannicchiato in posizione fetale, con gli arti raggomitolati e le mani serrate a pugno. Può fare solo delle smorfie quando il dolore, mentre lo mobilizzi o mentre lo lavi, è troppo forte. E’ nutrito con la Peg ed è ovviamente disfagico per cui si dà solo acquagel.

L’altro ieri passando davanti alla stanza di Giorgio, vedo accanto al suo letto Anna.

Mi fermo un po’ stupita e incuriosita mentre Anna cerca di stare sulla punta dei piedi per poter rimboccare le coperte a Giorgio. Ma il letto è di quelli elettrici, alto, con le sponde. Le sue mani artrosiche fanno fatica a passare sotto il materasso e tra le sbarrre.

Intanto gli parla dolcemente, gli racconta di castagne da raccogliere, di mucche all’alpeggio, del dover tornare a casa. E lo accarezza, e Giorgio ha un’espressione beata con gli occhi stranamente aperti. La guarda con una certa espressività che io non gli ho mai visto, addiritttura sembra muovere le labbra e persino gli arti sono un po’ più distesi.
Allora mi avvicino e Anna mi spiega che quello è suo figlio, che lei è lì per curarlo e per riportarselo a casa, ma lui è molto malato.

E’ come se un lampo mi avesse attraversato la mente: ma certo! Quale soluzione migliore per entrambi? e mentre rimprovero tutta la mia razionalità e la mia capacità di pianificare l’assistenza e l’esistenza altrui, capisco che in ciascuno può esserci una soluzione…

A che cosa?

a quello che a noi sembra “IL NULLA”.

Così prendo una poltroncina per Anna, abbasso il letto di Giorgio e tiro un po’ giù le sponde.

Meri

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dualità

Scritto da Magamagò il 09 Febbraio, 2011
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Una serata sola in casa: sola? Non proprio: mi fanno compagnia una cagnetta di nome Lulù stravaccata sul divano (si sa, i volpini sono cani da salotto!) e una bimba piccolissima, tanto piccola che è ancora in me, poco più di una speranza, anzi molto più di una certezza, enorme, coinvolgente tutto e tutti nel mio microcosmo. E’ piccola, ma crescerà.
In lontananza una sirena d’ambulanza: non potrebbe essere la Polizia, o i Vigili del Fuoco, o vattelappesca? O, figurarsi, il mio sesto senso (o perchè sono una streghetta come mia nonna bonanima) mi dice di no, e che forse fra poco qualcuno avrà bisogno di me, del mio amore per il prossimo, della mia professionalità, del fatto che in questo piccolo paese, in quel piccolo Ospedale oggi ci sono solo io come Anestesista. Eh sì, bimba mia, hai scelto una mamma con un lavoro un po’ burrascoso e tosto, una mamma che ama l’imprevisto anche se non lo cerca… Suona il telefono: lo dicevo io! Mentre nelle mie vene scorre a fiumi l’adrenalina rispondo, con in mano i vestiti ed il guinzaglio, già pronta per uscire. Poche parole, un romanzo non detto a cui manca il finale. “Un incidente… un ragazzo in coma, c’è bisogno di te… lo conosci”. Volo per le scale, corro in ospedale col cane in macchina che mi segue ovunque fin dove può e poi mi aspetta paziente. E naturalmente porto dentro di me la mia bimba. Scusa Chicca, non vorrei strapazzarti ma laggiù c’è un bimbo cresciuto che sta male e una mamma che dopo tanta fatica rischia di vederlo andar via in un attimo. Scusami non è colpa tua se sono un’anestesista, è casomai colpa mia, ma è il mio lavoro, quello che ho scelto lottando duramente e voglio svolgerlo con impegno e poi fino a un attimo fa tu non c’eri. Al Pronto Soccorso bastano pochi minuti, decisioni rapide prese coi colleghi, alcuni gesti essenziali e l’ immediato colo sembra scongiurato, o almeno rimandato. Ma non basta: bisogna trasferire il ragazzo in un Ospedale più grande, più attrezzato; lo si “carica” sull’ambulanza. E’ così tranquillo ora, sembra che dorma, e invece è in coma e vive solo perchè è aiutato da noi, dai farmaci e da Dio soprattutto. Di nuovo la sirena che lacera l’aria e nella notte buia si ingigantisce di più. Reggiti forte, bimba mia, dentro la tua mamma, anche se ti senti sballottata, anche se sei piccolissima e fragile. Ti abbiamo cercata per anni il tuo papà ed io; non siamo genitori cattivi, nè il tuo papà in camice bianco che al PS ha fatto quello che ha potuto e poi ci ha lasciate salire sull’ambulanza, nè io stessa che mi affanno attorno a questo ragazzo in fin di vita. Vedrai piccolina, non ti succederà niente, Dio non baratta una vita con un’altra e noi lo salveremo anche grazie alla forza tua, la forza della Vita nascente!

Però ti prometto che da domani farò la casalinga e niente più ambulanze, niente stress… e niente strizze!

Magamagò

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per una brocca d’acqua

Scritto da Rachele il 28 Gennaio, 2011
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E’ una bella mattina di sole quando le donne della famiglia si recano al serbatoio d’acqua in cima alla collina. Ma qualcuno vede in questa madre e i suoi figli un obiettivo militare, come se fosse così difficile distinguere una famiglia afgana da un gruppo militari armati… e così parte il missile con il suo carico di morte e distruzione e nel giro di un attimo distrugge una famiglia. Due bambini muoiono sulla collina, la madre e 4 figli vengono trasportati all’ospedale di Emergency.
Tre sorelle dai 5 ai 10 anni appaiono subito molto gravi. La più piccola è in coma perché i frammenti dell’esplosione le sono penetrati in testa e nell’addome, le due più grandi sono in shock per i frammenti penetrati nel torace e nell’addome.
Comincia la solita corsa in sala operatoria per cercare di strappare alla morte chi è troppo giovane per morire così, per una brocca d’acqua in una bella giornata di sole… Si mobilitano i chirurghi, si attivano gli anestesisti, il laboratorio per il sangue. Le tre sorelle vengono operate: una per una toracotomia d’urgenza, l’altra all’addome e la terza per un intervento alla schiena nel tentativo di evitarle la sedia a rotelle a vita. I frammenti dell’esplosione sono anche penetrati nelle gambe e nelle braccia delle tre bimbe e i chirurghi con pazienza rimuovono i tessuti distrutti e le schegge.
Le due ragazzine più grandi si svegliano nella terapia intensiva di Kabul, si guardano intorno, chiedono della madre, anche lei ricoverata nel nostro ospedale, chiedono quell’acqua che è quasi costata loro la vita. Fa pena vederle così tutte e tre, nei grossi letti, con flebo, pompe, cannule ovunque perché i bambini non dovrebbero stare in un letto di ICU, ma giocare con gli aquiloni sotto il cielo di questo paese… Invece una di loro non correrà mai più dietro agli aquiloni colorati perché le schegge le hanno lesionato il midollo e quello che la aspetta d’ora in poi è la vita di una paraplegica a soli 10 anni, per sempre…
Per due giorni la più piccola delle sorelle rimane attaccata al ventilatore, in coma farmacologico per dare tempo al suo cervello di riparare i danni del trauma. Il terzo giorno proviamo a svegliarla e per quelle strane risorse che solo i bambini hanno, la bimba si sveglia, respira bene, apre gli occhi di nuovo a quel mondo che le ha finora concesso molto poco… Non parla ma si guarda intorno, afferra il dito dell’infermiere per portarselo alla bocca e poi la siringa per bere. E’ una bella piccola bambina, con gli occhi pieni di vita e i capelli rossi per l’ennè che qui si usa specie dopo il Ramadan per colorare mani e capelli.
Non sappiamo chi ha lanciato il missile, né ci interessa saperlo perché per noi la guerra sono solo i nostri pazienti, soprattutto questi bambini che hanno avuto la sfortuna di nascere qui e che imparano cosa è la morte e la sofferenza prima ancora di imparare a camminare. Ed è per loro che Emergency è qui e che continua con i suoi medici e infermieri a dare una speranza di vita e di futuro a tutte le vittime di guerra.

Rachele

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amami, Alfredo

Scritto da blue dolphin il 19 Gennaio, 2011
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Alfredo ha 55 anni, una moglie simpatica e una figlia adolescente.
E’ ricoverato in rianimazione da oltre 3 mesi, battendo svariati record provinciali e regionali. Ha all’attivo una fibrosi polmonare occupazionale, una cardiopatia dilatativa, uno shock settico e due arresti cardiaci, da cui il meritato nomignolo di Highlander. A vederlo, soprattutto quando è in buona, non lo diresti… certo, le masse muscolari sono solo un vago ricordo, la crymine lo ha indebolito tanto da renderlo quasi incapace di parlare, tanto che la cannula fonatoria giace spesso inutilizzata nell’apposita scatolina e il colorito non è dei più sani, ma in realtà il nostro eroe è stato dichiarato dimissibile da settimane. Eppure anche stanotte è qui. Eccoci all’annoso problema: quei fantasmi dei “reparti a bassa intensità di cure” che, a quanto pare, esistono solo sulla carta, anche in questa regione così figa dal punto di vista sanitario (dicono…). Nei fatti, nessuno è in grado di prendersi cura di Alfredo, della sua tracheostomia e del suo ventilatore domiciliare, come i molteplici e spesso drammatici tentativi di trasferimento hanno dimostrato: Alfredo è sempre tornato al mittente, talvolta ripreso per i capelli, con un’espressione allucinata e colpevolizzante del tipo “ma dove accidenti mi volevate mandare?? vi sembro uno da corsia?”. Perplessità comprensibili, ma… che fare? Con tutto il bene che ti vogliamo, Alfredo, dove ti mettiamo? La soluzione è per ora una lunga lista d’attesa in una “struttura speciale”. Nessuno sembra veramente convinto e l’attesa sta diventando secolare, ma se qualcuno ha un’idea migliore, batta un colpo per favore.
Per il momento, insomma, il Nostro resta in famiglia. E non si limita a governare il proprio box, ma da lì ci sorveglia tutti, reclama le nostre attenzioni battendo le mani (gli facciamo il verso: “cameriere, il conto!” e lui ci risponde con un garbato segno dell’ombrello) e commenta con pollice verso l’arrivo dei medici che gli stanno antipatici (non ho ancora capito cosa diamine pensi di me…). Non solo: dal proprio trono giudica, con inequivocabili espressioni del volto, l’arrivo degli altri pazienti, in un turnover che – per fortuna – gli porta dei vicini di casa nuovi quasi ogni giorno. Sembra una zitella inacidita che osservi il via vai di gente dal balcone: faccia indifferente, forse un po’ snob, per i banali postoperati; espressione mesta per i neurolesi; disgusto per i politraumi; rassegnato scuotimento del capo per chi secondo lui non ce la farà… e c’è da dire che è diventato più bravo di qualunque score multiparametrico!
Ma quello che veramente lascia esterrefatti è guardarlo mentre si gestisce le proprie invasività: si aggiusta le medicazioni del cvc che non lo convincono e quando gli gira, scelto il sondino più opportuno, si broncoaspira con gusto le secrezioni, dopo aver sconnesso con attenzione il circuito dalla tracheo. Uno spettacolo! Intendiamoci, nessuno gli ha mai chiesto di farlo. Ma lui è ostinato e ci si impegna, un po’ per sentirsi autonomo, un po’ perchè forse si annoia; e poi, insomma… credo che lo farei anch’io al suo posto. La tracheo è mia e la gestisco io!
Il suo stato psichico è spesso un problema. E’ difficile immaginare di passare 3 mesi in una rianimazione, 2 dei quali in piena coscienza: perdi la consapevolezza della notte e del giorno, i tuoi ritmi circadiani si confondono col cambio turno degli infermieri, sei condannato ad un inquinamento acustico spesso assordante e soprattutto aspetti senza sapere bene cosa, quando e soprattutto perché. L’assistenza psicologica e la terapia antidepressiva qualcosa fanno, ma spesso Alfredo si scoraggia, a volte piange, a volte sillaba con le labbra “tanto muoio”; a volte invece per fortuna si arrabbia, ti manda a fanculo senza motivo e poi sembra stare decisamente meglio.
La sera, dopo che sua moglie se ne va, è il momento della tv. Non ne ha sempre voglia. Spesso scrive sulla sua lavagna “ma perchè paghiamo il canone?”. Sempre lucido, senza dubbio…
Stasera sono reperibile e mi hanno incastrato. Tra 20 minuti vado in sala. Ho mangiato qualcosa e ci sarebbe giusto il tempo di guardare un po’ della mia telenovela preferita. Sia ben chiaro, non che io la guardi spesso, ma ogni tanto, per svagarmi un po’… e poi stasera Angela e Franco si dovrebbero rimettere insieme, è un puntatone. Mi affaccio nel box di Alfredo, aria assente e depressa: “che guardi?”. Scuote la testa con indifferenza. “Ti scoccia se cambio?”. Fa spallucce. Mi appoggio al letto, monopolizzo il telecomando e seguo rapita le commoventi scene d’amore-vendetta-ritorni di fiamma, dimenticandomi quasi del mio ospite, che comunque non si ribella alla cosa. Dopo un po’ si affaccia il collega di guardia, il vice-capo: “ma tu non dovevi andare in sala? e che è sta roba trash che guardate??”. Mi sveglio dalla trance e davanti al mio serissimo Responsabile, un po’, sinceramente, mi vergogno. Ed ecco l’idea geniale e perversa: “Facevo compagnia ad Alfredo…il programma l’ha scelto lui!”. Gli faccio l’occhiolino e scappo in sala, mentre lui scuote la testa in segno di profonda disapprovazione. Tanto la fonatoria non ce l’ha neanche stasera, non farà la spia…

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notti di guardia

Scritto da Gaddo il 10 Gennaio, 2011
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Ore 19.45. Entro in ospedale in fretta e con una punta di rimorso: avrei voluto arrivare prima per mandare a casa il mio collega della guardia pomeridiana, ma non ce l’ho fatta. Fra i saluti ai bambini, una cena ultrarapida con piatto unico che farà le veci del cenone di capodanno e il caricare tutto in auto, non ce l’ho proprio fatta.
Ore 20. Faccio il mio ingresso trionfale in PS. In sala d’attesa radiologica c’è gente, e io non credo ai miei occhi: fra poco cominciano i festeggiamenti e le danze, non riesco a trovare motivi per una presenza così assidua e affezionata al pronto soccorso. E infatti non la trovo nemmeno quando comincio a refertare esami: dolori alla spalla da settimane, distorsioni di cinque giorni prima, dolori al petto in giovani ventenni ansiosi. Mi chiedo cosa stia succedendo, nel mondo in generale e in questo paese in particolare.
Ore 20.43. Mi chiama l’ortopedico di guardia e mi comunica che alle ventidue e trenta, urgenze permettendo, ci si vede su da loro in reparto per una bicchierata e un taglio di panettone. Io dico che ci sarò, salvo sorprese, e lui cala l’asso: Ho una paziente in reparto che respira male, l’ha vista la geriatra di guardia e dice che può essere un’embolia polmonare. Embolia polmonare, come no. Non so perché, ma dal tono di voce del mio collega inferisco l’estrema improbabilità statistica che si tratti di embolia. Potrei scommetterci un intero mese del 2011.
Ore 21.05. In Tac. La paziente dell’ortopedia non ha l’embolia polmonare, è ufficiale. Il mio mese del 2011 è salvo.
Ore 21.30. Porca miseria, mi sono accorto di aver dimenticato l’Ipod a casa. Bene: notte dell’ultimo dell’anno senza nemmeno un po’ musica. Che culo.
Ore 21.44. Mi telefona una cara amica: Non è che per caso sei di guardia stanotte? Perché mia figlia ha appena ingoiato una batteria. Portala subito qui, le dico.
Ore 22.05. Mi richiama l’ortopedico: c’è una donna che si è buttata giù da un balcone non troppo alto, non è riuscita nel suo intento ma in compenso si è fatta molto male. Serve una Tac del bacino perché secondo lui le radiografie non sono chiare. Io mi chiedo perché mai le persone aspettino le feste comandate per arrecarsi danno: se per una inclinazione irreversibile legata alla malinconia delle feste in solitudine o se per farla pagare a chi invece le feste se le sta godendo alla faccia di chi minaccia il suicidio. Forse entrambe le cose insieme. Nessuna delle quali, a mio modesto parere, giustifica la conclusione di ritrovarsi in un triste letto dell’ortopedia con il bacino fracassato. Se proprio vuoi ammazzarti, insegna il saggio, meglio scegliere un piano abbastanza elevato.
Ore 22.30. Arriva la mia amica con la bimba, in un felice istante lavorativo in cui fuori non c’è nessuno che aspetta. Facciamo la radiografia alla bimba in un istante e la batteria c’è per davvero. La rispedisco in pediatria, mi richiameranno loro per discutere il caso.
Ore 22.55. Incredibile, qui fuori c’è ancora gente che aspetta. Mi ero portato il PC portatile per scrivere qualcosa, ma non riesco a staccarmi dalla consolle del PACS. Quando esco dalla mia sala di refertazione per andare in ecografia le persone in attesa hanno una faccia incredibilmente priva di espressione. Come se fossero altrove: in treno, in coda alle poste per pagare una bolletta, davanti alla tivù mentre guardano il Grande Fratello. Forse è solo la tristezza del luogo, forse è la stanchezza fisica. Forse è il senso di disperazione che ti assale ogni volta che entri in ospedale dalla porta d’ingresso sbagliata, quella del paziente.
Ore 23.35. Viene in studio uno dei due chirurghi di turno. E’ una persona simpatica, con cui vado d’accordo a prescindere: sono contento di vederlo anche se in realtà è venuto a pormi un problema. C’è la paziente a cui ho fatto l’ecografia poco prima: ha mal di pancia ma è molto grassa e non è facile visitarla. Ha un po’ di sangue nelle feci e una leggera anemia. Gli esami del sangue per il resto sembrano a posto, salvo i lattati alti. Insomma, per farla più breve di come la fa lui: Secondo te, mi chiede, è legittimo chiedere una Tac con questo quadro per una sospetta ischemia intestinale? Beh, gli rispondo, non è che bastino i lattati alti per sospettare un infarto intestinale. Ma è la notte di Capodanno, non ho voglia di discutere e neanche di essere sarcastico; e ho intuito che né lui né la collega di PS ci hanno capito nulla. Facciamola pure, questa Tac. A una quasi novantenne, una volta tanto, aver preso raggi per niente non farà grossi danni.
Ore 23.57. Il tecnico mi chiama al telefono perché la paziente è già sul lettino, pronta all’esame. Io entro in Tac, oltre al tecnico ci sono due infermiere dall’aria stanca. Parte l’esame: e la mezzanotte scocca durante il bolus tracking, in un silenzio rotto solo dal ronzare del tubo radiogeno che fa il suo dovere. Ci scambiamo gli auguri, io, il tecnico e le due infermiere, mentre l’esame finisce. Nessuna traccia di ischemia intestinale né di altre patologie. Quale che sia il motivo del mal di pancia, e non c’erano molti dubbi che non di trattasse di infarto, il mio amico chirurgo dovrà cercarselo altrove.
Ore 0.10. Dopo un fitto scambio di SMS sull’inutilità della peretta evacuativa e sulla somministrazione di un purgante più robusto alla bimba, la mia amica dice che viene a farmi gli auguri. Scende dopo pochi minuti: ha la faccia stravolta dal sonno mentre la bimba è vispa come se l’avesse punta un calabrone, e a più riprese cerca di smontare la sala refertazione. Andiamo dai tecnici, in un momento di pace, con un pandoro e una bottiglia di prosecco. La tecnica va a procurarsi un cavatappi, e alla fine si aggiunge anche l’otorino di guardia. Alla vista della bottiglia ghiacciata si rianima, e racconta che in reparto ha appena brindato con un vinaccio che sembrava fatto con la polverina. Brindiamo anche noi a momenti migliori, ognuno concentrato sui propri desideri. La bimba è irrefrenabile, allegra più di noi tutti messi insieme.
Ore 01.30. L’emorragia di esami si arresta, la sala di attesa è vuota come solo una sala di attesa ospedaliera può essere. L’albero di Natale lampeggia a intermittenza, gli occhi mi bruciano. Decido che è ora di ritirarmi nelle mie stanze. Leggo un libro per cinque minuti, poi le palpebre mi si chiudono e prendo sonno.
Ore 02.00. Anziano paziente dispnoico, Rx torace.
Ore 02.30. Anziano paziente dispnoico. Rx torace e addome diretto.
Ore 03.00. Anzianissima signora con un probabile ictus cerebrale. Rx torace di benvenuto.
Ore 03.30. Anziana signora con difficoltà respiratorie. Rx torace.
Ore 04.00. Giovane con sospetta frattura del polso. Che non ha, of course.
Ore 04.30, 05.00, 05.30, 06.00. Altri ultranovantenni, sempre per gli stessi motivi. Faccio davvero fatica a tenere gli occhi aperti, vedo praticamente doppio. Converto il mio privato desiderio di fine anno in quello di non finire in galera per aver sbagliato uno degli esami notturni, refertati praticamente con un occhio solo.
Ore 06.30. Ancora l’ortopedico, implacabile come l’anno della fame. C’è un’altra paziente ricoverata in cui la geriatra sospetta un’embolia polmonare. Gli chiedo, con voce implorante, se il sospetto è proprio così terribile da non poter attendere almeno un’ora, in modo che possa riprendere un minimo di conoscenza. Dalla risposta allegra del collega (ma questo non ha mai sonno?) re-inferisco che all’embolia polmonare non ci crede molto nemmeno questa volta. Per amor del vero, l’ortopedico non mi sveglierà fino alle 8 di mattina, e la tac per embolia la faremo insieme io e il mio collega, al cambio guardia. Negativa, of course.
Ore 07.59. Squilla il cordless, ancora e ancora. E’ il mio collega del cambio, mi chiede dove sono ma lo capisce subito appena rispondo con voce cavernosa. Mi alzo, mi bagno la faccia, lavo i denti. Disfo il letto in cui praticamente non ho dormito, rimetto a posto le coperte.
Ore 08.15. Porto il cordless al collega. Scambiamo due chiacchiere, gli auguro migliore fortuna durante il turno giornaliero e prendo la strada di casa. In strada nessuno, nemmeno un cane. La mia macchina è ricoperta da uno strato di ghiaccio spesso un dito. Ci sono tre gradi sotto zero, l’aria è davvero magnifica. L’alba è rosa.
Ore 09.00. Sono a casa. Tutti dormono, anche la piccola: che in genere alle sette di mattina salta sul letto intonando canzoni natalizie. Mi siedo sul divano, accendo la televisione, guardo un pezzo di film degli anni cinquanta. Il silenzio è perfetto. Dopo mezzora i miei bimbi irrompono nella sala e mi abbracciano: e l’anno comincia per davvero, nel migliore dei modi possibili.

Gaddo

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una notte tranquilla

Scritto da zarianto il 29 Dicembre, 2010
racconti / 1 Commento

E’ l’una di notte e ho appena messo in ordine i pazienti della terapia intensiva che probabilmente veleggeranno tranquilli fino a domattina, quando giungerà il mio cambio. Al momento, la loro presenza è scandita unicamente dal monitor che ne trasmette il battito cardiaco, fortunatamente ritmico e regolare – fossero tutti così… Il volume è basso e si diffonde poco oltre la penombra della sala degenza, dove, abbassate le luci, per consentire agli sventurati ospiti di conservare almeno una parvenza di ritmo sonno-veglia normale, qualche infermiere, vinto dal sonno, si assopisce, chi su una sedia a sdraio, chi reclinando il capo sulla scrivania. E resto solo! Solo, in cucina, alla luce fioca di una cappa, a sorseggiare placido un bicchier d’acqua naturale da frigo, che di più la mia salute con consente. Dinanzi a me, l’enorme vetrata che, dall’alto del colle su cui mi trovo, domina il borgo sottostante, appena abbozzato dai lampioni che disegnano viali deserti e geometrici. Una luna brillante si affaccia tra nubi rade a tratteggiare i contorni degli edifici, bui, in cui gli altri, giustamente, riposano. Alcune stelle biancheggiano – o rosseggiano – minuscole nel cosmo. Una quiete irreale e insolita avvolge il nosocomio. E io rimarrei qui, a farmi sorprendere da un’alba che mi apparirebbe in tutta la sua grazia. Ma non posso. Devo tentare di riposare, per essere fresco, lucido e forte, qualora dovessero chiamarmi a soccorrere un paziente vittima di trauma maggiore, di avvelenamento, di emorragia cerebrale, di arresto cardiaco, di insufficienza respiratoria… Così, svogliatamente mi sollevo da una sedia piuttosto scomoda, volgo le spalle all’infinito e mi dirigo verso il corridoio, unico ambiente illuminato a giorno. Non appena attraverso la porta della cucina, vedo irrompere nel reparto… il mio cambio in borghese, che a quest’ora, da disposizioni turnistiche, dovrebbe essere comodamente adagiato nelle lenzuola di casa sua! Non faccio a tempo a chiedergli cosa accada che d’improvviso… intuisco! E mi faccio prima serio e poi triste. Di ciò che mi racconta, capisco solo il nome della moglie, l’altro mio cambio del mattino, gravida di un bimbo tanto cercato! Ricordo come nei giorni scorsi si portasse spesso la mano sull’addome e lamentasse fitte. E ciò che tutti temevamo, e a cui nessuno voleva credere, si è avverato. Ora tocca rivedere il cavo uterino, cioè “raschiare” – come si dice – i resti dell’aborto spontaneo. L’ingrato compito di sedarla, è mio!
Mestamente e in silenzio, il mio cambio e io ci dirigiamo verso la scalinata che conduce alla camera operatoria della sala parto e la percorriamo, guardando, ma non vedendo, uno ad uno i gradini che da essa ci separano… Non una parola. Non oso sollevare lo sguardo.
In sala operatoria, lei mi attende, nuda e indifesa, assicurata al letto, in posizione ginecologica. Vorrei abbracciarla e proteggerla e anche il marito, persone al cui fianco lavoro già da qualche anno, che conosco da ancor più tempo e che frequento fuori di qui, nel mondo reale! Amici? Non so, forse. Se no, qualcosa di molto simile. Sono piuttosto imbarazzato, ma, sorridendomi, la mia amica mi scioglie subito.
Terminata la procedura, dolcemente si risveglia e, liberata dai lacci di contenimento, atti ad evitarne la caduta durante il coma anestesiologico, mi prende la mani per poggiarvici le labbra, in segno di ringraziamento! La consegno al marito e mi reco nella stanza del medico di guardia, dove l’alba, filtrando dalle fessure delle serrande semichiuse, mi coglierà supino, con le mani incrociate dietro la nuca e rigorosamente sveglio, poiché non sarò riuscito a fare altro che pensare al mio, cambio!

Zarianto

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