l’umiltà degli aquiloni

Scritto da Gaddo il 30 Luglio, 2010
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E’ un corridoio sotterraneo, quello che collega il padiglione dove è ubicato il mio reparto a quello della terapia intensiva neurochirurgica. Un corridoio lungo, buio e freddo. A un certo punto la strada si biforca: a destra si va nel padiglione neurochirurgico; a sinistra, paradossale metafora, si imbocca l’ingresso dell’obitorio. Mentre lo percorro mi viene in mente che se fossi un barbone queste svolte ad angolo retto potrebbero fornirmi un riparo per la notte: ma è il pensiero di un attimo. Il pensiero fisso invece è il motivo della chiamata in consulenza: ecografia per potenziale donatore di organi. Traduzione: un paziente è morto, lo teniamo in vita solo perchè doni i suoi organi a un’altra persona.Quando arrivo in terapia intensiva neurochirurgica lo spettacolo è desolante. Ci sono molti letti, e sono tutti pieni. Poveri pazienti ranicchiati su sè stessi, la testa rapata e solcata da cicatrici che sembrano infinite. Hanno tutti gli occhi semichiusi, non so se dormano e se siano in preda a dolori atroci mezzo sedati dagli analgesici.

Il medico rianimatore è gentile, mi accoglie con un sorriso che già di per sè è un mezzo miracolo. Mi chiede: Come va?

E io che devo rispondergli? Va bene per forza. In un luogo del genere tutto va bene, tranne essere l’ospite.

Mentre l’ecografo si accende il collega mi mostra la tac toracica di un altro paziente. Mi chiede cosa penso del suo torace: c’è acqua e c’è aria libera, dunque non va benissimo. Ma il peggio non è quello: il peggio è l’incidente di moto che lo ha condotto lì, e che lo ha già reso irreparabilmente tetraplegico.

Poi l’infermiera, anche lei incredibilmente sorridente, mi informa che l’ecografo è pronto e scopre l’addome della potenziale donatrice di organi. Che, al di là di questa fredda definizione medica, è una donna. Abbastanza giovane e persino bella, nonostante i tubi che le spuntano come rami secchi da tutte le parti del corpo. Sembra che stia solo dormendo. Che stia sognando qualcosa di rasserenante, mentre il macchinario le pompa aria nei polmoni con stantuffi regolari e implacabili. Mentre eseguo l’ecografia non riesco a non guardarle il viso: ho quasi la sensazione che se allungassi una mano, e le carezzassi una guancia, la signora potrenne svegliarsi e sorridermi meravigliata di trovarsi seminuda davanti a uno sconosciuto in camice bianco.

Ma non ne ho il coraggio. Finisco il mio lavoro, scrivo il referto e me ne torno in pronto soccorso. Questa volta non voglio percorrere quel terribile corridoio sotterraneo: farò la strada esterna, lungo il viale alberato. Anche se la primavera tarda ad arrivare, gli alberi sono spogli e l’unico privilegio del cambio incipiente di stagione sono le prime, maledette zanzare.

Una volta Rod Laver, l’indimenticabile tennista australiano che vinse il Grande Slam negli anni ‘60, in un’intervista disse: Mi sento umile, quando batto un uomo.

Io non ho battuto nessuno, anzi. Ma mi sento umile lo stesso, quando faccio l’ecografia a un paziente che già non c’è più, ma che noi medici tratteniamo con tutte le nostre forze al di qua di quella linea nera da cui, dicono, non si fa più ritorno.

Come se stringessimo nella mano il filo di un aquilone, e fuori ci fosse un ventaccio da paura.

Gaddo

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stasera proprio non mi va

Scritto da Drkrishna il 16 Luglio, 2010
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Stasera proprio non mi va, eppure devo, ma non mi va, ma devo. E’ sabato, e il sabato notte in ospedale è corredato di una nota di tristezza in più rispetto alle notti infrasettimanali.

Stasera non mi va di lasciare la mia famiglia, mio figlio, non mi va di fare la persona seria quando tutti gli altri, proprio perché è il weekend, si possono permettere di non esserlo.

Non mi va di impegnarmi con la mente, con l’anima e con il corpo quando gli altri stanno rilassati: non dico che vorrei andare in giro per discoteche che non è più tempo né luogo, (se questi siano mai esistiti!), ma che mi piacerebbe essere stasera anche come chi può abbandonarsi lascivamente ad un programma televisivo o ad una pizza casalinga o ad una nuova ricetta.

Ebbene sì, stasera non mi va di pensare alle vite degli altri, stasera mi va di pensare alla vita mia.

Ma queste sono parole che non posso confidare a nessuno, perché nessuno capirebbe, mi si risponderebbe con un’altra domanda: ma come? Tu sei un medico, e allora perché hai scelto di fare questo mestiere? Come se non fossi un essere umano anche io,come se non avessi una famiglia anche io, come se una volta tanto, ma una volta solamente, non potessi avere voglia di tirarmi indietro… Come se non potessi sentirmi male anche io, non di un male fisico, ma di un male dentro. Eppure la mia notte comincia ore 20.

Il benvenuto non è male… Al marcatempo è tutto un brulicare di “beep” di entrate e di “beep” di uscite. Quelli che entrano hanno il viso uguale al mio, un po’ stanchi per la giornata trascorsa, e il sabato si sa è il giorno della spesa e dei servizi in casa e con i figli, un po’ spaventati per quello che succederà ma con l’aria sicura di chi pensa “non è mica la mia prima notte in PS!!!”; quelli che escono sono visibilmente stanchi ma contenti, la loro giornata è finita.

Incrocio vari colleghi, “ciao, tutto a posto?”, “si tutto ok, grazie e a te?”, “senti ma poi quella signora?..” fra questi una serie di “buonasera dottorè” che sono poi sono i saluti che personalmente gradisco di più, perchè mi capita spesso che con il personale paramedico riesco ad instaurare un rapporto di maggiore autenticità.

E’ tempo per me di salire in reparto, I piano, servizio di Radiologia. Neanche il tempo di andarmi a cambiare che subito arrivano 2 eco addome del PS, chiama la chirurgia “una diretta addome urgente sospetto di perforazione”, scendono 4 bambini della pediatria “non abbiamo posti e prima di mandarli a casa vogliamo stare sicuri con un’rx del torace” … e io sempre in borghese.

Nonostante i miei 35 anni ed un abbigliamento non proprio da teenager i miei momentanei pazienti si ostinano a darmi del tu (ma questo è per ignoranza credo) a chiamarmi “bella” e a non farmi domande sul loro status perché forse non gli sembro credibile… sarà, ma io non affiderei i miei organi addominali ad una sonda ecografica manovrata da una che non abbia laurea né specializzazione. Uno dei tecnici di radiologia più anziano è quello che i pazienti individuano come “il dottore” e a lui pongono tutte le domande, pure sulle ecografie che IO ho appena fatto… Bene! Ho trovato la strategia per spersonalizzarmi da me stessa stasera, per non essere io, per non essere quello che stasera non ho voglia di essere… e invece no, il referto lo firmo io, solo e soltanto io.

Finalmente mi riesco a cambiare, adesso sono vestita da medico, adesso porto pure un cartellino appeso al camice vicino al dosimetro. Adesso potete pure farvi male, che il radiologo sta qua. Qualcuno ascolta la mia voce dell’inconscio e arriva un codice rosso, forse viola. E un codice così rosso a metà serata non è mai un buon indice di predittività positiva della notte. Parlo con i colleghi, loro richiedono eco addome, rx torace, tc cranio etc etc… Ma che perdiamo il tempo? Via direttamente TAC e pure con il contrasto non c’è tempo da perdere: inizio le scansioni e ingurgito a mano a mano che vedo le immagini. Il chirurgo col fiato sul collo – che in quel momento odio, però poi penso, poveretto questo qui lo deve operare lui! – incalza “allora? Che tiene? E il torace? E l’addome?” e io “Calma, ancora 20 secondi e ti dico tutto…”. Rivedo tutte le immagini e comincio “PNX a sinistra con emotorace, aree contusive parenchimali polmonari multiple bilateralmente, frattura di milza, frattura di rene sinistro, frattura dell’ala iliaca sinistra, abbondante liquido libero in addome, fegato e rene destro apparentemente nella norma.”… Che guaio… E via dritti in sala operatoria. Via. Sono andati tutti. Da che il corridoio trasbordava di gente fra chirurghi anestesisti infermieri e barellieri, ora il vuoto assoluto. E io ancora con l’adrenalina in corpo.

Riesco a mangiare un boccone in compagnia dei tecnici di radiologia mentre continuano ad arrivare altri pazienti con banali contusioni, qualcuno con la colica renale, qualcuno ha mangiato un po’ troppo, qualcun altro si è fratturato un dito, e io continuo a pensare a quel povero disgraziato in sala operatoria che pare avesse perso il controllo del motorino e fosse andato a sbattere violentemente contro un albero. Sono le 3 e mezza. Vengo chiamata urgentemente in sala operatoria per un’eco. Corro pensando di aver fatto un guaio, che magari non ho visto una lesione al fegato, che magari non ho visto qualcosa di lampante e invece no, si tratta di tutt’altro: un uomo con un’arteria del braccio recisa dopo un trauma e zampillante… non potevano portarlo in radiologia in queste condizioni, ma bisogna fare una valutazione di eventuali traumi agli organi interni. Mi avvicino con la sonda ma… sono troppo bassa per il tavolo operatorio, col mio braccio destro non arrivo fino al lato sinistro del paziente per cui, tra le risate di tutti, mi viene gentilmente concesso uno “scannetiello per la dottoressa” ovvero uno sgabellino. Così vi salgo e comincio l’eco, ma stavolta, grazie a Dio, non c’è nulla. Stando all’in piedi sullo sgabellino porgo il mio di dietro ad un collega, maschietto, che in maniera simpatica non manca di fare un commento… in altri tempi gli avrei reciso una carotide col suo stesso bisturi, ma stanotte no, quella specie di complimento me lo prendo per buono, e anzi rispondo come solo una donna medico ospedaliero sa rispondere e nessuna altra donna sa.

Torno in reparto, si sono fatte quasi le 5 e vengo graziata da una pioggia scrosciante… Nessuno esce di casa, diluvia e fa troppo freddo… Mi appoggio sul lettino…

Toc toc… “Dottorè!” – “No, ancora?” – “Dottorè sono le 7,30… c’è il caffé!”

drKrishna

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come cambia la vita in una notte

Scritto da bambinachedanzanelvento il 04 Luglio, 2010
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Inverno 2007-2008. Uno degli inverni più secchi degli ultimi anni, quasi siccità. La pelle mi sembra un po’ secca. Prude. Dappertutto. Inizio a mettere creme e va un po’ meglio. Ma poco. Poi provo a cambiare le stoffe, uso solo cotone, taglio tutte le etichette perché non le sopporto. Passano i mesi.Stanca. Mamma mia se sono stanca. Certo, stiamo facendo turni pazzeschi. Ma d’altra parte i miei turni non sono più pesanti di quelli degli altri, se ce la fanno loro perché non dovrei farcela io? Il prurito continua, eppure ho fatto anche esami del sangue ed era tutto più o meno a posto, niente problemi al fegato, non sono allergica… sarà lo stress? Può essere… sembra peggiorata anche l’esofagite da reflusso: per dormire devo aggiungere un cuscino, altrimenti mi viene la tosse. Mah… forse dovrei andare da uno psicologo…

Inverno 2008 – 2009. Continuano, e aumentano, il prurito, la stanchezza, e i cuscini… Sembra sempre solo stress. Ripeto gli esami del sangue, sembra sempre tutto ok. Lavoro, lavoro, lavoro. Mi sento un po’ gonfia, la catenina non sembra più stretta? E la giugulare esterna sinistra mi sembra turgida, no? Chiedo ai miei colleghi… ma no, figurati… Magari fai una lastra del torace. Sì… e poi? ho altro da fare… e il tempo passa…

28 aprile. Rientro da una settimana di ferie passata praticamente sempre a dormire, ma non mi sento molto riposata. Forse perché la settimana ancora prima avevo lavorato 90 ore? Mah…

Come sempre al rientro dalle ferie, ho “vinto” il turno mattino-notte, e mi preparo alla notte facendo il mio solito pisolino. Stavolta però mi ribello ai cuscini: ho sempre dormito meglio senza cuscini e a pancia in giù, possibile che non possa farlo anche ora?
Mi sveglio a fatica dopo un paio d’ore, la sveglia suona con insistenza, la testa è pesante. Mi guardo allo specchio e mi spavento a vedere gli occhi gonfi. A dire il vero mi sento tutta gonfia, testa, collo… Palpo istintivamente il collo e finalmente lo sento: un linfonodo sovraclaveare a destra, grosso almeno 2-3 cm, ma come avrò fatto a non sentirlo prima?
E d’un tratto, finalmente, dopo mesi, i pezzi del puzzle iniziano ad andare a posto…

Vado a lavoro. Al mio ingresso in rianimazione le infermiere mi vedono e si alza il coro: ma cos’hai fatto??? hai una faccia! Tranquille, mi sono solo svegliata un po’ gonfia, in effetti ho anche un linfonodo ingrossato, ma tranquille, ora vado in pronto soccorso e mi faccio fare due esami… Il mio collega della notte è al telefono, gli parlerò poi…
L’internista del pronto soccorso è d’accordo con me sugli esami e suggerisce anche un ecografia del collo per la mattina dopo. Sono io a chiedergli la lastra del torace. Lui: figurati, dai, speriamo proprio di no… Io: tu prescrivimela.
Passo in radiologia ma c’è tanta gente, e poi proprio in quel momento mi chiamano per un cesareo urgente. Un bel maschietto. Un piccolo miracolo, come sempre, quel piccolo cucciolo urlante, la mamma commossa. Il mio ultimo cesareo per un po’… per fortuna, comunque, anche l’ultima chiamata della notte: quasi un secondo miracolo!

Ripasso in radiologia, c’è ancora gente, ma i tecnici decidono che io ho la precedenza (d’altra parte ero già passata prima, no?) e mi fanno passare. Quando esco dallo spogliatoio c’è un torace sul monitor, e commento: beh, non è male. Il tecnico: sì, in effetti è meglio del tuo… che è questo: il mediastino è un po’ allargato, ma lo sapevi già, vero? io: no, ho fatto la lastra per questo. Il tecnico: ah… mi è sembrata una gran risposta, non c’era proprio altro da dire. Quella lastra poteva voler dire solo linfoma. Se poi ci metti il prurito, la stanchezza, la tosse (che, iniziavo a sospettare, era dovuta alla massa e non all’esofagite), non poteva essere molto altro. Lo sapevo io, lo sapeva il tecnico. L’ha capito subito anche il mio collega della ria, quando sono tornata su e gli ho fatto vedere la lastra. Essere medici in certe cose aiuta, ti risparmi qualche ansia da attesa, perché alcune cose le capisci da solo.

Beh, è stata una serata lunga, sono le 2 passate, e la mia stanchezza è sempre con me. Me ne vado a dormire. Ma riesci anche a dormire, mi chiede il collega? Oh sì! Assolutamente sì!
Vado a stendermi nella poltrona-letto dove ci stendiamo quando non ci chiamano per qualche urgenza, con tre cuscini stavolta… ma in effetti non mi addormento subito. Mi domando cosa mi aspetta, e quando sarà la prossima notte che passerò su quella poltrona, se ci sarà un’altra notte su quella poltrona… ma sono certa di sì. Il linfoma ha una prognosi ottima, l’ematologia non è stato uno dei miei esami preferiti all’università ma questo me lo ricordo bene. Se proprio devi avere un tumore, forse il linfoma è il migliore di tutti. O almeno, il meno peggio.
E poi, se devo essere sincera: sollievo. Non è stress, non sono matta. Finalmente so. Finalmente si potrà fare qualcosa. Finalmente, soprattutto, posso riposare. Al mattino inizieranno gli esami, le cure, le novità che, di fatto, cambieranno un bel po’ la mia vita, almeno per qualche mese. Ma per ora posso riposare. Tranquilla, finalmente.

bambinachedanzanelvento

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sei tu

Scritto da Shadow il 25 Giugno, 2010
pensieri / 3 Commenti

Ho guardato nel profondo dei tuoi occhi cercando di comprenderti ma, ho visto tutto quello che di me mai avrei voluto vedere. Ho visto la mia fragilità e la mia insicurezza, i miei sensi di colpa e i miei complessi, le mie paure e la mia insofferenza, ho visto le mie tenebre e i miei demoni…

E’ stato un vortice di emozioni quella notte, quella settimana, quel periodo… mi sono trovata cresciuta di colpo, come donna, come medico.
Tu stavi male, peggioravi di ora in ora, quasi di minuto in minuto ed io mi districavo tra i fili del saturimetro, quelli del monitor, le flebo legate all’asta dell’armadio, il fonendo che non trovavo mai ed avevo sempre al collo, la diuresi, i cambi di terapia, in una folle gara contro la morte. Ma io sono quella che fa diagnosi appena il paziente entra in ambulatorio, io la regina degli edemi polmonari, non potevo non salvarti, non tu. Ti cambiavo le flebo compulsivamente, ti rivalutavo con una frequenza fuori da ogni logica, io dovevo… lo dovevo a te e lo dovevo al mio ego, perché dovevo dimostrare a me stessa che, a dispetto di tutto e tutti, ce l’avrei fatta anche questa volta…ma non ci riuscivo, e mi sentivo piccina piccina, ero lì non potevo fare più niente, niente bastava, rincorrevo la morte senza mai raggiungerla, mi sembrava per un momento di averla afferrata per il mantello ma subito si dissolveva e le mie mani erano di nuovo vuote, inconsistenti. E tu eri una candela in balia di un vento troppo forte e io non ti riparavo, non riuscivo a evitare il tuo declino, l’innescarsi di una cascata ormai inesorabile. Mi prendevano in giro, tutte le volte che ti ho momentaneamente ripreso “Elena batte Gesù Cristo 2-0” mi dicevano, la sicurezza tornava e con essa una nuova speranza, ma anche se avevo vinto qualche battaglia, la guerra era un’altra cosa, nel mio profondo sapevo che non avrei vinto. Allora mi sono sentita inadeguata come per la maggior parte della mia vita, ho provato quell’orribile sensazione di non essere mai abbastanza. Poi ho capito, ho mollato, avevamo perso. Quindi la decisione di aiutarti nel percorso, l’ultima dimostrazione del bene di chi era lì quella notte, della mia stima ed affetto infiniti. Tu mi hai preso le mani, come facevi sempre, me le tenevi a lungo tra le tue, quelle mani così belle, da scultura, che ho potuto amare nuovamente, e mi hai guardato dritto negli occhi, con le tue iridi azzurre e mentre io mi perdevo nel mare della tua sconfinata consapevolezza, tu mi hai detto “Elena, io mi fido di te”. E in quel momento io ho fatto i conti con la mia impotenza, con la mia inesperienza, con la mia presunzione, la mia inadeguatezza umana e professionale, con il mio essere un medico giovane e una donna insicura, con la mia prima vera sconfitta, con la responsabilità del gesto, con il vuoto che avresti lasciato. Tu morivi e io sono morta con te, in quel momento, per rinascere una donna nuova, un medico nuovo, una donna migliore, un medico che si dovrà sempre migliorare.

…allora ho guardato ancora oltre e nel profondo del mio cuore, un mare in tempesta, un oceano immenso dove tuffarsi e perdersi e lì nel profondo della mia anima ho compreso!

Shadow

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la consapevolezza della gravità

Scritto da DEA il 11 Giugno, 2010
cronache / 1 Commento

Finalmente una notte feriale… la sognavo da tempo, per non dover combattere nuovamente con corpi estratti da macerie di automobili trasformate per attimi in shuttle dalla magia dei fumi dell’alcool…
Tranquilla fino alle ore 5.00, quando il magico tic tac del conto alla rovescia delle 12 ore di guardia pulsa ormai forte e deciso nelle orecchie e nel cervello.
Io e il mio compagno di turno decidiamo di dividerci e lo spedisco in branda mossa a pietà dai suoi racconti di notti insonni grazie alle ripetute coliche del suo bimbo di neanche un mese e dall’adrenalina che ancora mi pervade nonostante si intravedano le luci dell’alba.
Rimaniamo io e i miei infermieri, a pensare alla colazione e a sbirciare dalla finestra, sperando che la neve non attacchi e ci permetta di raggiungere in fretta i nostri giacigli.
“C’è un giallo” risuona una voce stanca “dolore toracico”
“Portiamolo dentro… il solito ragazzi” che sta per ECG e prelievi, mentre io guardo la documentazione clinica e mi preparo psicologicamente a ricevere le informazioni del caso
“guarda Doc…” butto un occhio sul tracciato e lo vedo subito, ma sono al contrario e per un attimo mi sembra sottoslivellato, poi realizzo: “chiamami il cardio sul cicalino” e intanto il giovane signore, che visto da vicino è proprio sofferente, mi dice che il dolore gli pare proprio lo stesso del 2006 quando “ha fatto l’infarto e poi la plastica con il palloncino”
Suona il telefono e il mio Collega Cardiologo mi risponde con una voce proveniente diretta dall’oltretomba.
“Abbiamo un IMA” “E io questo dove lo metto?” risponde “Va beh, scendo”
Il Cardio arriva, getta un occhio cerchiato sull’ECG e prende il telefono, sbuffando bofonchia: “Dobbiamo portarlo su”
Mentre attacchiamo il monitor per il trasporto in Reparto ecco il suono: linea diretta con il 118. Squilli dall’Inferno e penso che è mercoledì sera, ne sono certa, e di tamponamento ce n’è già stato uno verso le 2.00, che c’è ora?
“Questo è rosso, un’emiparesi. 5 minuti, arrivano dal centro città”
Pensavo peggio, rifletto un secondo se preallertare la Stroke Unit e poi penso che prima me lo guardo io, che ho tempo.
Arriva. Ha un emilato in una posizione innaturale e mi dice che è perché è caduto dal letto, che sciocco, ma io leggo nei suoi occhi che oltre a mentire a me mente anche a se stesso.
Lo valuto rapida e poi parlo con la moglie, una bella signora sui 50 anni, seguita da un ragazzo alto alto, che cammina un poco curvo, una zazzera di capelli spettinati sopra gli occhiali dalla montatura spessa.
Lei mi dice che non è riuscita a sollevarlo da terra, che non è mai stato in ospedale prima, che non sa come funziona. Mi chiede fra quanto lo manderemo a casa.
Io le spiego che i sintomi del marito mi preoccupano, che probabilmente è successo qualcosa a livello cerebrale, che sicuramente questa sera non andrà a casa, lo devo ricoverare, ma prima facciamo degli accertamenti, voglio vederci chiaro. Non pronuncio la parola “ictus”, non ancora, tento di farle capire la gravità piano piano, poi le chiedo di accomodarsi in sala d’attesa perché arriva il Collega Neurologo ed inizia a valutare a voce alta se è il caso di trombolisare oppure no. Magari ci sanguina, bisogna avere più informazioni, preferisco che lei non senta. Non subito quantomeno.
Mando il paziente a fare la TC, accompagnato dal Neurologo, mentre io accolgo un nuovo dolore toracico e, di nuovo, chiamo lo “sbuffatore professionista” che, questa volta ormai ben sveglio, quasi non ci crede quando gli dico che ho un altro IMA ST-sopra a distanza di soli 20 minuti dal precedente. Però non brontola più e mi raggiunge anche più rapidamente.
Di nuovo il telefono, questa volta il mio, è il Neurologo dalla TC che mi dice di chiamare il Collega Neurochirurgo perché il paziente è emorragico e che la linea cerebrale mediana quasi non si vede più, tanto è schiacciata da un lato.
Lo aspetto e torniamo dalla moglie, questa volta in una stanza separata. Io più che provata, il Collega preoccupato, il figlio-zazzera e la signora. Le spieghiamo cosa abbiamo visto con la TC, che tutto quel sangue sarà difficilmente raggiungibile chirurgicamente e che preme proprio sopra i centri del respiro, che può peggiorare da un momento all’altro.
Il figlio si siede. Il colorito bianco-verdastro. Improvvisamente lo vedo invecchiare di almeno 10 anni. Lo sbircio cautamente per controllare che dalla sedia non crolli a terra, non sarebbe la prima volta.
Lei no, la consapevolezza della gravità non la raggiunge subito. Inizia a parlare a raffica, del marito, di come sia sempre stato bene, del fatto che non abbia ancora voluto andare in pensione, di sua madre morta a 97 anni (“sono geneticamente forti, mai visto un medico”) all’inizio usa il presente, poi inizia a parlare del marito al passato. Capisco che non siamo più davanti ai suoi occhi, che il dialogo è per se stessa, per poter accettare quella terribile verità che le abbiamo detto che ancora non riesce a farsi completamente strada nella sua mente.
E mi chiedo chi sono io per distruggere le sue illusioni? Che diritto ho di portarla bruscamente con i piedi per terra? Di farle ingoiare questa terribile e fredda realtà?
Ma poi penso che non ho nemmeno il diritto di lasciarle credere che andrà tutto bene, perchè quando la consapevolezza arriverà sarà uno schiaffo forte e secco e le farà troppo male.
Riprendo piano piano le redini del discorso, ripeto cose già dette, più lentamente, la guardo dritta negli occhi e finalmente la vedo, vedo spegnersi una luce nei suoi occhi verdi, le labbra tirarsi e scomparire. Sono pronta a sorreggerla, invece: “Grazie, dottoressa. Ora ho capito” sono le parole che sento. Le stringo la mano e il Neurologo le dice che se ha qualcuno da pregare quello è il momento per farlo. Sono belle parole, io non ne sarei stata in grado.
Ci allontaniamo da loro e continuiamo il nostro lavoro. Guardo l’ora: le 6.45. Mi metto mascherina e guanti puliti – non posso permettermi il lusso di fermarmi – saluto il signor Riccardo, che con la rima buccale deviata, riesce comunque a farmi un sorriso. Ancora stabile nonostante il caos regni sovrano nel suo cranio e per un attimo è lui a fare coraggio a me.

DEA

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la soglia del dolore

Scritto da Morris il 31 Maggio, 2010
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“Voi uomini avete una soglia di sopportazione del dolore così bassa che se sbattete il gomito contro uno spigolo non sentite la scossa, cadete fulminati. Poi si lamentano se noi facciamo l’epidurale per partorire e loro farebbero l’anestesia anche per farsi la barba. ” da: le più belle frasi di Luciana Littizzetto.

Ho riletto già un paio di volte questa frase che campeggia nel mezzo della mia pagina di Facebook e mentre la guardo ancora sento che mi monta dentro un’ ondata di rabbia.
Mi ha mandato questa riflessione una povera di spirito che per disgrazia ho accettato fra i miei amici: già non la sopportavo al liceo, e risentendola tanti anni dopo ho avuto un’ ulteriore conferma del fatto che le persone non migliorano col tempo come il vino: possono solo peggiorare. Figurarsi, ha messo come foto iniziale del profilo un’ immagine in bikini palesemente di almeno dieci anni fa in posa da strafiga, e continua a postare come perle di saggezza aforismi che scarterebbero anche per i Baci Perugina.
Ma questa qui no, non la reggo proprio. Non è perché anche oggi ho visitato l’ ennesima fibromialgica che, quando le ho appoggiato un dito sotto la scapola, si è contorta ed ha urlato come se l’ avessi trafitta con un kriss malese. Poverette, oramai le capisco, le mie fibromialgiche, e le tratto anche abbastanza bene, con adeguate parole di conforto. Non è colpa loro, è che le disegnano così, come Jessica Rabbit.
No, quello che mi rende insopportabili queste parole è che oggi sono andato in camera mortuaria a dare l’ ultimo saluto a Roberto.

Roberto era un collega con cui ho percorso praticamente tutti questi anni di lavoro, anzi, uno dei pochi che oltre che collega potevo definire anche un amico. Abbiamo iniziato insieme con le prime guardie mediche sul territorio, siamo stati assunti praticamente insieme in questo ospedale, per un po’ abbiamo lavorato insieme nello stesso reparto.
Quindi una riorganizzazione interna lo ha “convinto” a passare ad un rapporto di collaborazione libero-professionale, a cui si è adattato inizialmente con un po’ di frustrazione, poi con un impegno ed una professionalità che lo hanno portato ad essere uno dei più stimati e richiesti specialisti del circondario.
Era uno di quei medici che teneva a darsi un tono e ad avere un’ immagine consona al suo ruolo, sempre in cravatta ton-su-ton con la camicia, d’inverno con il panama leggermente inclinato, e la sua naturale eleganza strideva un po’ con i miei pantaloni stazzonati e le mie magliette da 7 euro al supermercato. Ma si capiva che il suo atteggiamento non era un volersela tirare, ma una forma di rispetto verso i suoi pazienti che “volevano” vederlo così.
Poi, alcuni anni fa, le prime avvisaglie; difficoltà a respirare in certi momenti, alla sera sempre più spesso un po’ di febbricola.
L’iniziale atteggiamento da struzzo di tutti noi che lavoriamo in sanità (cosa vuoi che sia, passerà da solo); quindi i primi accertamenti, con risultati interlocutori. Si sa, curare un collega non è mai semplice, così di fronte ad un esame negativo o dubbio di solito il consiglio è spesso di rivolgersi ad un altro specialista “sicuramente più pertinente al tuo caso”.
Così di controllo in controllo, lo vedevo sempre più stanco e preoccupato. Mi aveva confessato che per tenere sotto controllo la febbre e attenuare la sensazione di spossatezza aveva cominciato ad assumere regolarmente del cortisone. Poi, finalmente, all’ ennesimo controllo la diagnosi : una forma leucemica rara, “una di quelle classiche cose da una su un milione che capitano solo ai medici”, disse l’ ematologo con grande tatto e sensibilità.
Iniziò così il solito calvario; i cicli di chemio, accertamenti sempre più serrati ed invasivi, la nausea, i capelli persi, la faccia gonfia per i farmaci, il colorito sempre più pallido.
Ciò nonostante continuava sempre il suo lavoro, con l’ attenzione e la cura di sempre: la mattina andava a fare la chemioterapia, il pomeriggio veniva da noi a svolgere il suo ambulatorio , non prima di essersi fatto sparare in vena uno Zofran ed un desametazone.
In ultimo portava un busto , perché le vertebre rese sempre più fragili dai cortisonici avevano cominciato a cedere. Vedevo il dolore che gli costava ogni movimento, ed era una sofferenza anche per me. Una volta, capendo quello che stavo pensando, mi disse:” Ho dei figli piccoli, è importante che non pensino che mi sto arrendendo”.
In questi anni mi è capitato di perdere diversi colleghi. Alcuni, dopo essersi ammalati, sono semplicemente spariti, come i vecchi eschimesi, che quando sentono prossima la fine si allontanano dal villaggio e si perdono nel bianco.
Roberto no, quando non ce l’ha più fatta si è ricoverato da noi, anche perché i luminari che l’ avevano assistito e che fino a poco tempo prima gli avevano garantito che era sulla soglia della remissione vedendo la situazione precipitare si erano improvvisamente tirati indietro.
Così siamo stati costretti a seguire il suo declino, e abbiamo potuto ammirare la dignità con cui lo sopportava.
Quando infine lo abbiamo trasferito ad una struttura “sicuramente più pertinente al suo caso”, lo sono andato a salutare mentre gli ambulanzieri lo portavano via.
“Cerca di tornare presto”, gli dissi, e sapevo che non sarebbe tornato.
“Vedrò di non deluderti”, rispose con un debole sorriso, e dal suo sguardo capii che lo sapeva anche lui.
Ecco, stamattina lo sono andato a salutare per l’ ultima volta alla camera mortuaria. Ai familiari non ho potuto dire altro che in casi come questo mi sento inadeguato come medico e come uomo.
Inadeguato. Non mi viene nessuna altra parola.
“Voi uomini avete una soglia di sopportazione del dolore così bassa…”
Sotto alla scritta occhieggia, invitante, il link “commenta”.
Che dite, se la mando affanculo e la cancello dai miei amici di Facebook sono troppo cattivo?

Morris

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storie di pronto soccorso (prima notte)

Scritto da rem il 19 Maggio, 2010
racconti / 4 Commenti

Ci sono capitato per caso in un PS
non per scelta. Un giorno il direttore sanitario mi chiama e mi chiede se mi va di fare Pronto Soccorso
Rifletto lo guardo poi dico: certo che sì
So che è la risposta giusta
Come lo so ?
Un’intuizione, il mio spirito guida, la mia innata capacità di fare la cosa giusta al momento giusto? No.
È solo il terzo mese di prova e posso essere licenziato senza preavviso.
E’ un’ottima scelta che contribuirà alla mia crescita professionale
e personale
– dice il Direttore – anche lui, se solo potesse tornare indietro farebbe la stessa cosa, è veramente stufo di continuare a stare dietro alle scartoffie, alle beghe sindacali e a tutto quello che comporta un incarico come il suo, vorrebbe tornare a fare il medico se solo potesse, ma tant’è. Così è la vita.
A proposito…
inizio domani notte.
E’ un vero bastardo il direttore Sanitario

La prima notte

Prendo servizio alle 8 di sera percorro la lunga linea gialla che porta dalla Radiologia alle Sale di visita, ho un camice bianco pulito e degli zoccoli, per il resto sono un perfetto borghese: camicia blu pantaloni di velluto, non ho indossato la classica tuta verde per scelta, non voglio tirarmela, anche perchè a ben vedere non so fare un cazzo, fino a ieri mi occupavo di Geriatria poi hanno ridotto drasticamente i posti-letto del reparto perché rendeva poco, solo pensionati in bilico sulla soglia dell’indigenza, e oggi sono qui nel Dipartimento di emergenza-urgenza-accettazione.
Nessuno mi ha spiegato niente, nessuno mi ha portato a vedere i luoghi o mi ha illustrato le procedure, non mi hanno fatto alcun corso specifico.
Da questa sera sono un medico dell’urgenza
spero in bene per me
e anche un po’ per i pazienti.
Che Dio me la mandi buona.
Anche se non sono credente.
Spero che non voglia farmi un dispetto per così poco, e poi negli ultimi tempi incomincio ad avere qualche ripensamento.
Lo giuro.

Franco l’infermiere più esperto del PS, che chi sa come mai la Caposala ha deciso di affiancarmi in questa prima notte, mi dà le prime coordinate:
di notte siete due medici, tu e il chirurgo, coprite il PS e anche i reparti se vi chiamano,
naturalmente può allontanarsi uno solo per volta,
non ci sono i radiologi e le radiografie te le devi refertare da solo,
non ci sono specialisti neurologi, otorino,oculisti, neurochirurghi né chirurghi vascolari
anche se qualcuno è reperibile telefonicamente.

Sono proprio le parole che avrei voluto sentirmi dire.
Ingoio una compressa di alprazolam e comincio a lavorare.
Per fortuna c’è Franco, per fortuna ci sono gli infermieri.
Lo vedo lavorare e mi chiedo io cosa ci sto a fare qua sotto.
Sa sempre cosa fare e fa sempre la cosa giusta.
Quando mi vede titubante mi dà indicazioni, ma come se fossi io ad avere l’idea.

Arriva mattino, è sempre una buona cosa, ma oggi mi sembra anche meglio.
Me ne vado con un certo grado di soddisfazione: è andata, ho rotto il ghiaccio, non dovrei aver fatto grosse cazzate, ora vado a dormire il sonno dei giusti.

E’ solo un’illusione.
I casi mi ritornano su come cipolle.
tutti i pazienti che ho mandato a casa mi appaiono in sogno puntandomi l’indice contro perché sono morti poco dopo, quelli che ho ricoverato erano quelli che in realtà non avevano un cazzo.
Bastava invertirli.
Che razza di stupido, era così semplice.

Non sono portato per questa professione.
Potevo studiare chimica inorganica.
Mi assalgono tutti i dubbi, ho una crisi d’identità che mi fa fare certi salti nel letto, non riesco a dormire
C’è anche troppa luce.
E’ contro natura dormire la mattina.
Poi crollo e mi addormento profondamente, quando mi sveglio è già ora di andare a lavorare.

rem

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Edoardo

Scritto da Nuccia il 09 Maggio, 2010
cronache / 3 Commenti

Uno sconosciuto nella notte

Le 3 del mattino. Questa notte di guardia è iniziata male: solo ora entro in camera dopo ore dall’inizio del turno, la voglia di un po’ di riposo. Il camice appeso come ogni volta all’ “ometto” (così qui da noi  chiamiamo la gruccia), la pelle che suda costretta dal pesante cotone che non conosce stagioni. La voglia di riposare distesa  almeno un pochino.  Le forze non sono le stesse degli  anni passati, il dovere è lo stesso, i problemi di più.  Terapie intensive, pazienti oncologici, malati complessi , risorse ridotte, infermieri stressati, recuperi quasi impossibili.

Apro il mio libro “da notte di guardia” di solito un romanzo leggero, distensivo, per far riposare la mente.  Solo poche pagine e già una nuova chiamata: ” il numero 3 , non mi sembra stia male , ma ha chiesto di Lei.”.

Risalgo le scale, la sezione è al piano di sopra, cerco di ricordare il numero 3. Non è il mio reparto, il paziente  non l’ho visto altre volte, il collega del turno di giorno non mi ha detto nulla di lui , ma nel tempo ho imparato che a volte anche un piccolo sintomo vuol dire qualcosa di più.

 Un’occhiata alla cartella: metastasi cerebrali , non vedente, pz terminale. L’infermiera mi aggiorna “parametri stabili, sta come al solito, non so cosa vuole”.

La stanza in penombra, la solita luce notturna, un corpo emaciato, il vicino che dorme. Accanto al suo letto, domando di lui , che cosa si sente,  di cosa ha bisogno: una mano un po’ incerta mi cerca, lo guardo, un viso scavato, uno sguardo che reputo azzurro è fisso nel vuoto. “Sono diventato cieco, dottoressa non la vedo, ma prima ho sentito la sua voce in corridoio: un suono che odora di  dolc , di una persona che forse è anche bella,  mi dia la sua mano. Io sto per morire, da solo; da tempo non sono più niente, non lascio nessuno, il  mio buio aspetta una luce che presto vedrò. Ormai non mi resta più nulla se non l’illusione che ogni notte sia l’ultima. Mi dia  la sua mano un momento e mi scusi se l’ho disturbata.

Non sembra stia male, forse ha solo bisogno di una voce per lui. Gli dico “la voce tradisce, non sono più giovane, il bello è passato da tempo e in questo mestiere è meglio essere bravi”. La mano nella sua gli strappa un sorriso: la  pelle sciupata, le dita nodose, intuisce un’età quasi uguale alla sua. Mando via l’infermiera, mi siedo vicina. Gli parlo di niente, non mi ha disturbata, devo comunque star sveglia, mi può raccontare la sua malattia. Non vuole, la voce è un sussurro per non disturbare il vicino, mi spiega i colori dei fiori, i cieli azzurri che può solo immaginare e che non sono mai sempre uguali, i bambini  dai volti ridenti, di come ne amava i capricci e le gioie improvvise, mi parla dei  loro disegni, di tanti ricordi di un mondo felice, faceva il maestro di scuola; di com’era  in passato, della “fortuna” di non vedere  come può essere ora il suo viso; di giorni che sono soltanto notti più lunghe, ormai ne distingue i rumori, immagina i volti di chi lo circonda in base alle voci, ai modi di porsi,  ai profumi o agli odori di ognuno. Vuole sapere di me, di come mi piaccia di più la miseria che trovo ogni giorno, invece del verde di un prato, di un sole che splende, di gente che ” vive”, di occhi ridenti anziché sofferenti. Si scusa di nuovo perché mi fa perdere tempo, un tempo che per lui non esiste e invece è prezioso per me. Voleva “sentirmi” , ancora , ripete,  lo aveva colpito la voce, udita per caso. Gli dico qualcosa di mio; che fare del bene  mi dà ancora gioia, che la sofferenza degli altri ha ancora bisogno di me,  che questo lavoro difficile è vita.  Racconto di alcuni di loro, persone che ho potuto guarire, soltanto alcuni mi ricordano ancora,  persone che non ho potuto salvare e che non ho dimenticato.  Persone che hanno sofferto, persone che ho aiutato a soffrire di meno. Persone. Come me, come tante , a cui in ogni momento può capitare di essere nel letto ove ora sta lui.

La mano pian piano si stende intanto che ascolta. Il silenzio è rotto d’un tratto dal  suono stridente di un campanello.  Mi chiamano altrove. Sussurra un semplice  grazie  e mi lascia con poche parole: “non vedo il suo volto, ma vedo il suo cuore. Soltanto un consiglio: il mondo è più bello di quello che sembra, lo guardi davvero, si fermi un istante a osservarlo, è una grande fortuna  poterlo vedere.”

Arriva il mattino. Il turno finisce. Riprende il rumore del giorno. A casa di corsa, una doccia veloce, un caffè super forte al solito bar sotto casa perché devo tornare al più presto: “dottoressa ha avuto una brutta nottata? Si vede dagli occhi.”

No, è stata una bella nottata, ho conosciuto un poeta.  Mi colpisce una parola: occhi

La riunione mi aspetta, per strada mi vien da  guardare in modo diverso, rallento, mi accorgo di quanti colori ci sono, di quanto sia bello il più brutto degli alberi intorno: arrivo un pochino  in ritardo, ma ho  voglia di andare un momento al piano di sopra, dal numero 3 a salutarlo e dirgli che oggi c’è il sole. 

Il letto è rifatto e  Lui non c’è più.  Allo sgomento subentra un sorriso, il mio questa volta: il suo buio è finito e qualcosa  di bello ha lasciato: una stretta di mano e un semplice grazie che vale un tesoro.  Mi accorgo di non sapere il suo nome e lo chiedo: Edoardo. Adesso  sono io a ringraziarti. E tu sai perché. E chissà, forse ora mi vedi e mi aspetto un sorriso.

Nuccia

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biglie

Scritto da Giramondo il 29 Aprile, 2010
cronache / 4 Commenti

Ero così felice.
E devo ammetterlo, anche un po’ orgoglioso.
In questo Ospedale in Pakistan, in una città vicino al confine con l’Afghanistan,
sono arrivato da circa due mesi.
Quella mattina ero felice.
Durante il giro dei reparti, anche un po’ forzando la rigida separazione tra uomini e donne che vige in queste terre, avevo preso per le braccia Shaiza, una ragazzina di 12 anni che avevo operato due settimane prima, e l’avevo messa fuori dal letto a camminare.
Che gioia !
Shaiza era arrivata in Pronto Soccorso di notte, dopo un viaggio di una decina di ore, con una profonda ferita alla testa in regione parietale destra del diametro di
4 centimetri in seguito ad un bombardamento che, come effetto collaterale, aveva colpito anche il suo giardino di casa.
Glasgow Coma Scale di 9, pupille isocoriche isocicliche, materia cerebrale che fuoriusciva dalla ferita e, dato clinico che non quadrava con la ferita a destra, una emiparesi di tutto il soma di destra.
Parlo con i Parenti per avere il permesso per la craniotomia.
Pianifico Rx del cranio (non c’e’ la TAC…) e poi sala operatoria.
Alla radiografia capisco il perché dell’emiparesi destra:
Shaiza ha 2 biglie di acciaio in testa; una in regione parietale destra, e l’altra che ha attraversato tutto il cervello e si è impiantata nella profondità della materia cerebrale del lobo parietale sinistro, irrangiungibile.
Eseguo una craniotomia destra: estraggo la biglia di destra che è rimasta superficiale, rimuovo un po’ di teca cranica per evidenziare la lesione della dura, riparo la dura con un “patch” di fascia del muscolo temporale.
Tracheotomia per facilitare l’aspirazione delle secrezioni in reparto (non ci sono comunque ventilatori; anzi, non esiste una terapia intensiva).
Mi soffermo sulla biglia: una sferetta di acciaio di circa 5 mm di diametro.
Dalle nostre parti si trovano nei cuscinetti a sfera.
Mi viene in mente che quando ero ragazzino io biglie così le usavo per giocare al campetto sotto casa a ” buca”, a “galletto”… strane associazioni.
Lo stesso oggetto io a 12 anni lo usavo per giocare.Ho chiesto: si chiamano bombe a frammentazione.
Vengono lanciate da aerei o da elicotteri.
Ogni bomba contiene centinaia di biglie così, e quando esplodono vengono sparate come proiettili in tutte le direzioni.

La ragazza nei giorni seguenti progrediva giorno per giorno.
Abbiamo potuto rimuovere la tracheotomia dopo 5 giorni.
Si nutriva per bocca.
E, incredibile, aveva recuperato la motilità dell’arto inferiore destro grazie a un grande lavoro dei fisioterapisti.
Permaneva una marcata astenia dell’arto superiore destro, che però migliorava lentamente.
Niente febbre. Glasgow 15.

Ecco, quella mattina vederla mangiare, parlare e camminare era felicità.

Dopo due notti mi hanno chiamato che improvvisamente ha avuto un arresto cardio-respiratorio.
Sono arrivato in Ospedale e ho potuto soltanto constatare che era morta.

Probabilmente la biglia rimasta nell’emisfero di sinistra ha fatto sanguinare qualche vaso… non lo saprò mai.
Ho provato a spiegare alla madre che era presente: ma come si fa a spiegare una morte che nemmeno io capisco?

Ho imprecato dio (con tutti i suoi nomi).

Mi sono rimangiato la felicità.

E mi sono dato del coglione per l’orgoglio.

Giramondo

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Haiti, oh cara

Scritto da Morris il 20 Aprile, 2010
pensieri / 1 Commento

I turni di guardia notturna sono spesso un occasione per portare avanti un po’ di lavoro che altrimenti durante il giorno non ci sarebbe tempo o voglia di affrontare. Ci sarebbe quella procedura interna da aggiornare, ci sono da preparare le statistiche semestrali sulle infezioni ospedaliere, ci sarebbero… E in genere ti dici sempre, beh, ci penserò la prossima sera che sono di guardia se il reparto è tranquillo.
Questa è una di quelle sere, e sto smaltendo con una certa rapidità le mie scartoffie.
Bene, mi sono meritato un caffè, la macchinetta è qui vicina, e anche se emette una broda ignobile ormai ci sono assuefatto.
Con il bicchierino fumante in mano, torno al computer e vado a cercare su Internet le ultime notizie.
Sono passati pochi giorni dal terremoto ad Haiti, e, smaltita la sbornia iniziale dei media, le notizie sul dopo-sisma sono ormai diventate più scarne. Vado sul sito On-line di un noto quotidiano e la notizia di punta, a tutto schermo è: “Brad e Angelina si lasciano! Tutti i particolari!!”.
Un po’ più sotto, con grande rilievo: ” Perché il Tal dei Tali è stato eliminato da “Amici”: tutti i retroscena segreti!!”.
E quindi, con ampio rimando nei servizi sportivi, il sobrio commento sulla vittoria di un gruppi di strapagati signori in braghette su un altro gruppo di strapagati signori in braghette (” EROICI!!!!”).
Le notizie da Haiti sono su un link piccolino a fondo pagina (“Incertezza sul numero delle vittime: 75000? 100000?150000?”, e chi se ne frega, sembra di capire dal tono); un’altra notizia, è data con più risalto: “Scandalo! Medici ad Haiti mettono su Facebook foto choccanti!” (eh, signora mia, dove andremo finire).
Seguono alcune delle foto scandalo, in cui si vedono alcuni dei medici in questione, inviati da Portorico per contribuire ai soccorsi, che bevono birra, si producono in atteggiamenti goliardici, impugnano fucili a pompa.
Certo, sono foto che viste così non fanno un bell’effetto, ma poi mi chiedo: se noialtri, abituati alle nostre corsie asettiche, ai nostri ritmi costanti, alle nostre belle flow chart decisionali si/no, ai nostri “Mhhh… prima di operare voglio il via libera dell’anestesista-voglio il via libera del cardiologo-voglio un’altra Tac-voglio 5 sacche di O negativo”, ci trovassimo catapultati dall’oggi al domani lì, in un Inferno che fa sembrare al confronto una linda clinica svizzera l’ospedale da campo della Wehrmacht a Stalingrado, come reagiremmo? Non capiterebbe anche a noi di avere atteggiamenti cinici, o di fare cose stupide per allentare la tensione, per non impazzire?
Ma no, queste cose non si fanno: ormai siamo talmente convinti che la realtà virtuale che ci siamo costruiti sia il mondo vero da pensare i medici e gli infermieri devono per forza essere come quelli di E.R., i poliziotti come Montalbano, i professori come Mr. Chips e che la vita è un enorme villaggio vacanze in cui gli altri sono animatori o camerieri al nostro servizio.
L’invecchiare, l’ammalarsi, il morire, non sono entità contemplate, almeno per noi. Gli altri… beh, gli altri sono gli altri (e a loro penserà qualcun altro).
Giusto in tempo per interrompere le mie riflessioni prima che vadano troppo in là, entra nello studio uno dei nostri infermieri, uno in gamba, con una cartella in mano.
“E’ della 306A, una signora di 93 anni con neoplasia gastrica e carcinosi peritoneale. I familiari vogliono parlare con un medico perché non la vedono bene e sono preoccupati”. C’è un attimo di silenzio. Mi guarda in faccia, e capisce parola per parola quello che sto pensando.
“Faccia con calma, dottore, quando ha un attimo…”
“Cinque minuti, Marco. Cinque minuti e sono da loro”.

Morris

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