vi racconto la SLA ovvero la solitudine dei medici di terapia intensiva

Scritto da Malanotteno il 17 Gennaio, 2010
testimonianze / 4 Commenti

Rispetto all’ultima volta che l’ho vista la signora Maria è più triste, dimagrita, è diminuita la mimica facciale.
– Come sta la sua nipotina?
– Sta crescendo bene e va molto volentieri all’asilo nido.
– Sta ancora leggendo i quotidiani?
– Si, a volte li leggo io, a volte quando non ce la faccio me li legge mio marito, ma ormai leggere i giornali sta diventando angosciante.
– Sta seguendo la nascita del PD?
– Si ma non mi piace la contrapposizione tra Soru e Cabras.
L’impressione che ho avuto quel giorno è stata di una donna molto presente a se stessa.
– Signora Maria mi sembra un po’ giù di umore oggi.
– Perché secondo lei come dovrei essere?
– La capisco, ma forse si potrebbe aiutare con qualche farmaco , un ansiolitico o un antidepressivo.
– Sino a quando ce la faccio preferisco di no, in seguito si vedrà.
– Sta dimagrendo molto, evidentemente quello che riesce a mangiare non le basta, forse è il caso di aggiungere un po’ di nutrizione enterale attraverso la PEG.
– Ma cosa me ne faccio di mettere su qualche chilo.
– Una buona alimentazione serve per prevenire le lesioni da decubito e le infezioni, comunque se lei non è d’accordo lasciamo così, d’altronde abbiamo sempre cercato di rispettare la sua volontà.
Dal suo sguardo, ho capito subito che mi ero intrappolata in una situazione difficile. Infatti alla mia affermazione non poteva che seguire la sua domanda.
– Davvero dottoressa rispetterebbe la mia volontà? E se arrivasse il momento in cui io le chiedessi di staccare il ventilatore, lei lo staccherebbe?
Non ero pronta. Avevo riflettuto a fondo sulla possibilità di trovarmi in una situazione così, come credo abbiano fatto tutti gli anestesisti quando tirarono un sospiro di sollievo perché per fortuna non era toccato a loro essere il medico curante di Nuvoli o di Welby .
Me la sono cavata mediocremente.
– Suvvia signora, io penso e le auguro che la sua vita, anche se in questa condizione, per lei abbia sempre motivo di essere vissuta.
Io così pensavo e le auguravo. Feci finta di non capire quello che continuò a dire subito dopo.
La donna che ha intelligenza soprafina ha capito benissimo che non le stavo rispondendo e io sapevo di non aver risposto, sapevo soprattutto di non saperle rispondere.
Sapevo che quanto successo quel giorno era una puntata di un dramma iniziato quattro anni prima,
sapevo della mia vigliaccheria.
Andai a trovarla qualche altra volta. La malattia evolveva molto velocemente. Tutti i muscoli erano paralizzati, riusciva solo ad aprire e chiudere gli occhi e con questo vocabolario comunicava con i familiari e con il personale che la assisteva intensamente. Lo sguardo rimaneva ancora vivace.
Giaceva nel letto immobile. Ritmicamente, attraverso la tracheotomia il ventilatore forzava l’aria nei polmoni, la nutrizione enterale raggiungeva l’intestino attraverso la PEG, l’urina veniva raccolta nella sacca attraverso il catetere vescicale perché noi potessimo misurarla e calcolare il bilancio dei liquidi, mani pietose la pulivano quando andava di corpo, l’aspiratore rimuoveva le secrezioni bronchiali che lei non riusciva a espellere con la tosse e la saliva che non riusciva ad inghiottire, altri dovevano allontanare le mosche che d’estate si posavano sul suo viso e la grattavano quando forse aveva prurito.
Chi voleva parlare con lei o guardarla negli occhi doveva allungarsi sul letto e portare il viso sopra il suo perché non riusciva più a eseguire i movimenti di lateralità del capo.
Come si sentiva, cosa pensava, nessuno di noi poteva saperlo. Il marito ha continuato a leggerle il giornale tutti i santi giorni ma alla fine non sapeva più se lei gradiva, se ascoltava e se capiva.
Lo sguardo nel tempo si era spento, gli occhi erano diventati vitrei. Era un corpo sul quale ogni giorno si andavano a misurare la pressione arteriosa, la frequenza cardiaca, la temperatura, la diuresi, il bilancio dei liquidi, le calorie introdotte.
Tutti ardentemente avremmo voluto leggere, conoscere i suoi pensieri, ma la situazione non dava strumenti di lettura.
Si potrebbe pensare che la risposta era semplice se solo ci si fosse fermati a chiedersi:
– Ma io al posto suo cosa avrei desiderato?
– Ma siamo proprio sicuri che ciò che vale per una persona vale per tutti e che ciò che vale oggi vale anche per domani?
Ha ragione chi enfatizza il valore dell’unicità degli esseri umani. Il più grande valore di ogni uomo sta nell’essere unici ed irripetibili. Proprio per questo non si può affermare che ciò che va bene per una persona può e deve andare bene per tutte le altre.
Io so cosa vorrei per me nella condizione di Maria. Vorrei che la mia volontà venisse rispettata e penso debba essere rispettata la volontà delle persone che la pensano diversamente da me. Non esiste la ragione di uno che deve valere per tutti gli altri.
Ma c’è un grosso problema da risolvere.
Come capire la volontà delle persone che non sono in condizioni di esprimerla?
Spetta al medico decidere? Al magistrato? Ai parenti?
O piuttosto ognuno di noi deve poter decidere del suo destino quando è in condizioni di decidere, per quando non lo sarà più e se dovesse cambiare idea lo può sempre fare?.
Non è stato di grande aiuto il dibattito che in quel periodo si andava sviluppando sui temi cosi detti eticamente sensibili.
Ho cercato conforto nei documenti emanati dal comitato nazionale di bioetica, nella Costituzione nella convenzione di Oviedo ma soprattutto nel codice di deontologia medica. Ho letto anche l’Enciclica Evangelium Vitae cercando lumi, ma questa è utile per chi crede che la vita l’abbiamo avuta in dono e solo Dio ne può disporre. In quei giorni, ognuno ha detto la sua avendone o no titolo e cultura scientifica. Molta confusione sui termini e sul senso da dare alle parole. Cos’è l’accanimento terapeutico? La nutrizione artificiale è un atto medico o assistenza? L’astensione da terapie invasive, nel rispetto della volontà del paziente, quando questo non ha più speranza cos’è? Eutanasia nelle varie declinazioni, attiva, passiva, omicidio del consenziente, suicidio assistito. Qualcuno è persino arrivato a mettere in discussione il concetto di morte e di stato vegetativo permanente. In questa nostra povera Italia, si rischia di avere una morte di destra e una di sinistra così come uno stato vegetativo di coalizione.
Quello che manca un po’ a tutti è la compassione, intesa come partecipazione affettiva alla sofferenza del malato senza speranza. Manca ai politici e anche agli uomini di chiesa troppo vincolati ai codici delle caste di appartenenza. Manca anche a molti medici. E’ più facile fingere di non sentire quando è il tuo turno e sperare che qualche altro senta per tutti al turno successivo. Ma la notte, quando si rimane soli con la propria coscienza e ci si chiede – cosa avrei voluto io al posto di Maria – come si fa a dormire tranquilli se hai finto di non sentire?

Malanotteno

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Scritto da Morris il 09 Gennaio, 2010
racconti / 3 Commenti

Mio nonno Mario era un marinaio; o meglio, lo era stato negli anni della guerra. Faceva il macchinista sui sommergibili, e non parlava volentieri di quella esperienza.
Ma in quegli anni aveva maturato un amore per il mare che era durato per tutta la vita e una refrattarietà ai lunghi discorsi. Certi anni durante l’estate ospitava noi nipoti a un capanno da pesca che aveva in riva all’Adriatico, e anche noi bambini eravamo sottoposti alla disciplina marinaresca; non ci toccavano l’alzabandiera ed i comandi col fischietto, ma quasi. Era un uomo molto burbero ed incazzereccio, scettico a priori sul genere umano (l’aggettivo con cui più spesso lo sentivo definire una persona era “cl’imbazel”, quell’imbecille), ma talora capace di slanci sorprendenti.
Come quel giorno di fine estate in cui stavamo aiutandolo a portare le sue cose lontano da riva, perché si stava preparando una burrasca coi fiocchi.
Avevamo già tolto dalla barchetta con cui stendeva le reti “da imbrocco” i remi e tutte le parti rimovibili, portandole al capanno, e così alleggerita ci preparavamo a tirarla in secca quando notammo un assembrarsi di gente sulla riva che vociava e indicava al largo. Guardai nella direzione indicata e mi si drizzarono i capelli in testa; in lontananza, in mezzo a un mare teso dal vento di terra e ormai del colore del piombo, un uomo nuotava affannosamente rincorrendo un materassino rosso e blu, in volo sul pelo dell’acqua venti metri davanti a lui.
” E’ un tedesco, il vento gli ha portato al largo il materassino e quel patacca, anziché lasciarlo andare si è intestardito a riprenderlo”.
A quel tempo non c’erano, come adesso, bagnini tecnologici con l’acquascooter. Si poteva contare solo sul moscone rosso, e tornare indietro a forza di braccia con quel vento contrario sarebbe stato una bella rogna .
Mario non ci pensò su due volte. Avevamo smontato il fuoribordo dalla sua barchetta, ma non lo avevamo ancora portato al capanno. Lo rimise a posto avvitando i morsetti con due giri secchi e svitò il tappo del serbatoio, leggero in maniera inquietante. In fondo al contenitore sciacquettava un misero residuo di miscela.
“Nonno, devo andare al capanno a prenderti la tanica della benzina e i remi?”, chiesi.
” Si, così intanto cl’imbazel us’ anega” fu la risposta. Senza dire altro, Mario girò la barca, avviò il vecchio Mercury con uno strappo e si diresse verso il bagnante, ormai un puntino al largo. Raggiuntolo, lo fece salire a bordo e affrontò il ritorno con il povero 4 cavalli che ansimava per vincere il mare contrario.
Per fortuna la miscela bastò.
Giunsero a riva assieme con le prime gocce di pioggia. Il tedesco, stremato, fu abbracciato dalla moglie; nello scambio di parole con lei, mi parve però dall’intonazione di capire che fosse arrabbiato. Con un evidente imbarazzo il bagnino ci tradusse: ” E’ incavolato perché non è riuscito a recuperare il materassino….”.
Mio nonno alzò gli occhi al cielo e commentò lapidario: “A certa gente è più facile mettere qualcosa “int’e cul che non in testa”, e con questo chiuse la faccenda senza ulteriore superfluo uso di parole.
Una cosa che mi è sempre piaciuto del mestiere del medico è spiegare le cose; il chiarire le dinamiche del nostro corpo, il come “si guasta”, come dovrebbe funzionare una terapia è per me sempre un piacere, e nel farlo, soprattutto con i nostri anziani, mi giovo spesso del dialetto che grazie a tutor di madrelingua come Mario padroneggio bene.
Ciò nonostante talvolta ho la sensazione di parlare una lingua straniera, e quando dopo un bel discorso fatto evitando il più possibile tecnicismi, sigle e i termini anglosassoni tanto di moda mi sento rispondere “Eh?” da uno che mi guarda come un marziano appena sbarcato dal disco volante, mi prende lo sconforto.
Alcune notti fa mi capitò di essere chiamato in Reparto al capezzale di un’ anziana signora con una demenza vascolare, ricoverata per un focolaio broncopneumonico; la paziente, nonostante la terapia in corso, respirava con grande difficoltà, con uno spiccato broncospasmo. A rendere più difficoltoso il tutto, lì a fianco si trovava la figlia, agitatissima, che “esigeva” che si facesse subito qualcosa per la mamma. Scorrendo la cartella, alla voce allergie farmacologiche, trovai, orrore , un “allergica al cortisone”, che il collega redattore del documento aveva comunque cercato di mitigare con un punto interrogativo fra parentesi. Che lui per primo non fosse convinto dell’allergia lo testimoniava il fatto che la signora si stesse facendo da alcuni giorni uno steroide inalatorio. Interrogata su questa presunta intolleranza, la figlia fu categorica: “Ah, no, non lo può proprio fare, è allergica: una volta che lo ha fatto è diventata tutta rossa in faccia e le è salita la pressione!”
Indossando la mia miglior faccia tipo “maestro-elementare-che-spiega-le-divisioni-all’alunno-zuccone”, partii a spiegarle che quella non era un’allergia, erano effetti collaterali dipendenti dalla dose somministrata, dal tipo di cortisonico, perfettamente controllabili e comunque sicuramente quasi irrilevanti in una situazione grave come quella attuale. E poi , scusi , se la signora fosse veramente allergica, il cortisone non potrebbe farlo neanche per aerosol…
“Ah – mi sentii rispondere – ma quello lì non è mica cortisone sul serio!”
Sospirai, e con calma risposi che in ogni caso eravamo in un ospedale, che avremmo potuto gestire l’eventuale rialzo di pressione (in quel momento la paziente era anzi ipotesa), e che in definitiva mi prendevo io la responsabilità. La figlia brontolò qualcosa, ma finalmente diede il via libera; e così, dopo un oretta di attenzioni e cure fra le quali era compreso anche un bel boletto di idrocortisone, finalmente potei lasciare la signora con una obiettività e dei parametri decisamente migliorati.
Forse non saremmo andati molto in là, ma sicuramente avremmo passato la notte, che poi in fondo è l’inconfessato obiettivo di quasi tutti i medici di guardia.
La mattina, prima di smontare, mi andai a rivalutare la paziente: i parametri, riferitimi dall’infermiere erano soddisfacenti. Quando però entrai in stanza, dove la signora dormiva tranquilla con un respiro abbastanza regolare, ebbi un sobbalzo. La figlia, dopo aver passato la notte a fare assistenza, era tornata a casa a riposare. Non prima però di aver lasciato, a testimonianza che per quanto potessi aver detto o fatto non ero riuscito a convincerla, un post-it giallo attaccato alla testata del letto su cui era scritto, a lettere tutte maiuscole: “ALLERGICA AL CORTISONE! NON SOMMINISTRARE!!!”.
Oh, Mario, vecchio marinaio, quanto avevi ragione!

Morris

l’elisoccorso (seconda parte)

Scritto da Herbert Asch il 03 Gennaio, 2010
racconti / Nessun Commento

“l’uomo catarifrangente scese
dalla sua carrozza bianca illuminandola
di una luce azzurrissima, si avvicinò
gli disse ora cura di te mi
prenderò”

Max Pezzali – La volta buona

Ricordo però ancora adesso perfettamente come il giovine specialista che ero vent’anni fa non vedesse l’ora di mettere alla prova il suo ardimento.
Da agosto di quell’anno erano iniziati i turni del servizio di elisoccorso, ma riservati solo agli specializzati, e anche se lavoravi già da qualche anno (allora era possibile) l’accesso ai mitici turni non era possibile senza la specialità.
Ma alla sessione di ottobre di quell’anno, alè, eccomi specialista.

Finalmente potevo entrare anch’io nel Grande Circo dell’emergenza: ultima frontiera rimasta, terra dei gesti estremi e delle terapie eroiche, dove si Salvano le Vite Umane e non si guarda in faccia nessuno, dove si Intuba, si Incannula, si Defibrilla, friggendo e trafiggendo in tutti i modi e da tutti i buchi quel san Sebastiano di Paziente da Salvare. Dove si arriva in elicottero (vero Deus ex machina!) e si corre a Sirene Spiegate sulle Ambulanze.

Dove si lavora fianco a fianco con tutti gli altri Supereroi, Carabinieri, Vigili del Fuoco, Polizia, Protezione Civile, Guardaparco e Vigili Urbani, pardon, Polizia Municipale e poi l’arcobaleno delle croci Rosse, Verdi, Bianche, Gialle, Oro, Azzurre, e poi le Misericordie, i Samaritani ed i Cavalieri di Malta, tutti con le loro Superdivise ed i Superattrezzi, come nei fumetti giapponesi.

Superate alcune incombenze, tipo il matrimonio, il viaggio di nozze, l’allestimento della casa nuova, eccomi alla ricerca dell’aggancio per entrare nel giro.
Attivo radio flebo, il tam-tam sempre attivo tra gli specializzandi, chi gestiva la cosa di fatto pareva fossero gli anestesisti del Policlinico e quelli del Paride Campari, (un ospedale di zona), in particolare un tale Scèspir.
– Quello delle commedie? –
– Ma no, fa l’aiuto al Campari, però puoi provare a parlarne al Megaprofessore del Policlinico prima, se lui è d’accordo non c’è problema –
– già, ottima idea –
Peccato che parlare al megaprofessore non era così semplice.

Al Policlinico conoscevo un paio di Aiuti, che non sapevano come si scrivesse Scèspir, lo conoscevano appena, ma sapevano come potevo “casualmente ” incrociare il Megaprofessore. Vieni, mi dissero, alle 7.30 all’inizio seduta. Passa sempre a quell’ora poi… insh’allah.

In quelle sale un pochino mi conoscevano, avevo frequentato per tre mesi  non da molto. Quel mattino sono arrivato alle sette e un quarto, non troppo presto, per non aspettare fuori, il giusto per entrare con gli infermieri di seduta. Sapevo come entrare, dove cambiarmi, cerco la mia conoscenza in sala, mi affianco a lui e aspetto vigile.
Mentre aspetto gli chiedo se conosce Scèspir.
Ma, il mio contatto è troppo giovane, si è specializzato l’anno prima di me. No, non conosce. No non sa come si scrive, si scriverà così come si pronuncia, no?.. ci rinuncio.
Dopo poco arriva il Megaprof, faccio in modo di incrociarlo casualmente in sala, e, chiedo se fosse stato possibile parlare un attimo con lui.
– Certo caro, solo che oggi non riesco, passa in Istituto domani verso le 10.-

Il giorno successivo era già lì alle 9.30.
In istituto incontro un’altra conoscenza di qualche tempo prima, con cui avevo fatto un po’ di gavetta nelle sale del Pronto Soccorso. Ma neanche lui sa come si scrive Scèspir, si…lo conosce, ma…
Poi il Megaprof arriva e mi fa entrare nello studio. Una volta sentito il problema mi fece nell’ordine:
una testa così su tutte le cose che dovevo sapere,
un pistolotto sulla necessità, prima di intraprendere altre attività, di fare una salda gavetta di almeno due anni di sala operatoria
– sono quasi tre anni che lavoro, professore – esagero.
una manfrina tenace sulle abilità necessarie
– ma nel mio ospedale ho già visto parecchi traumi gravi, sa…-

quindi mi regala, togliendolo dal cassetto della scrivania come cosa preziosa, una copia di un suo libretto su come si fa l’Anestesia moderna.
– Grazie professore! lo cercavo da tempo, ma non ero mai riuscito a trovarlo!- mento.
E poi… mi rimanda comunque all’aiuto del Campari.
Era ora di andare, il colloquio era finito.
Mi alzo, ringrazio il professore.
– Solo una cosa, professore. –
rimaneva l’ultimo, pesante dubbio.
– Dimmi caro –
– Scèspir… come si scrive? –

Herbert Asch

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il riflesso di Lazzaro

Scritto da Rabuccia il 20 Dicembre, 2009
racconti / 5 Commenti

Vi sono delle cose di questo mondo che sfuggono nella loro completezza alla umana comprensione. Questo “incipit” tra il solenne ed il banale farà da introduzione per descrivere quelli che lo scrittore H.P. Lovecraft avrebbe probabilmente definito: “I terribili fatti che si svolsero la notte tra il 12 e 13 Agosto 2001 presso i locali della radiologia dell’ ospedale della tranquilla cittadina di ***”.
E non sia casuale il fatto di voler scomodare l’inquietante scrittore. Anche se il mio ospedale è piuttosto lontano dalle nere acque del Miskatonic River il paragone non è né irriverente né esagerato, per quello che, amici lettori, andrò testé a raccontare. 
Il turno di guardia in rianimazione quella notte era apparso fin dal mio arrivo uno di quelli tranquilli. Le consegne delle otto non avevano posto in essere situazioni potenzialmente evolutive e/o difficili da gestire. Il colpo d’occhio sull’emiciclo del reparto era rassicurante. I pazienti erano quattro su nove posti. Tutti e quattro intubati e ventilati. Il leggendario senso pratico del rianimatore, spruzzato di larvato cinismo, gli fa sempre pensare, nel profondo dell’anima che “quando i pazienti sono intubati e sedati si lavora meno”. Questo solo perché la loro condizione è di “stabilizzazione”; in realtà questo è un eufemismo per non dover dire che non c’è bisogno di sedazioni raffinate, e poi quando sono già intubati si può stare tranquilli. Gli infermieri ai monitor conversavano del più e del meno programmandosi il resto della serata e si apprestavano con serenità al cambio turno delle dieci.
I rumors ospedalieri, ovvero quella serie di informazioni non ufficiali che fornivano prove non documentali della esistenza di urgenze in fieri, indicavano una intensa attività del Pronto Soccorso.
Telefono! “Dottore c’è da andare in TAC ad assistere un paziente mal messo appena arrivato”. L’assistenza in TAC è una delle grandi incognite di ogni rianimatore ed è una attività particolarmente temuta. Esiste in effetti un grading pressoché infinito delle situazioni cliniche che ci potrà trovare a gestire. Si va dal trauma cranico lieve in stato di agitazione psicomotoria in cui la abilità rianimatoria è limitata alla capacità di mantenere farmacologicamente legate le membra irrequiete, fino ad arrivare alle grandi catastrofi politraumatologiche in cui si entra rapidamente in un girone dantesco fatto di tubi, monitor, farmaci, comandi imperiosi ecc… La TAC, come è noto agli addetti ai lavori, è luogo di grande pericolosità per il paziente e per chi lo assiste. La destabilizzazione è fortemente condizionata dagli spostamenti fisici, inoltre i compromessi richiesti dai radiologi e le difficoltà ambientali fanno si che molti peggioramenti si verifichino proprio qui, dove si lavora in piena golden hour.
Quella sera avevo trovato però una situazione abbastanza rassicurante: un paziente anziano sveglio già posizionato sul lettino. Il mio arrivo era stato, come sempre, motivo di grande sollievo per il collega del Pronto Soccorso che si affrettava a darmi le informazioni del caso: “E’ un paziente di 77 anni arrivato qui con l’ ambulanza dei volontari di ***. Lo hanno trovato in casa i famigliari. Lui vive da solo. Lamenta dolori addominali e ipotensione. Abbiamo fatto liquidi, messo la dopamina. L’ addome è teso. Potrebbe essere un aneurisma in rottura. Ti ho chiamato perché è instabile emodinamicamente”. Guardo il mio paziente. E’ un vecchiettino pallido, sudato ed ansimante che guarda inerte il soffitto con occhi spenti. Gli si legge in faccia solo la consapevolezza della morte imminente. Non guardo il monitor, faccio come gli antichi colleghi: sento con le mani il polso periferico debolissimo e percepisco la vasocostrizione della cute. Settanta di sistolica con la dopa, obnubilamento sensoriale, dispnea crescente. Intubo senza difficoltà il paziente che con 50 mg di ketamina chiude gli occhi stanchi e vitrei.
Eseguiamo la TAC col paziente intubato, sedato e ventilato. Il radiologo lavora sereno e rapido. Il chirurgo appena arrivato attende il responso sullo schermo con la stessa ansia del giocatore di poker che apre le carte. Su quello schermo si disegnerà presto il destino del paziente. 
“Niente di chirurgico”. Una voce sicura alle mie spalle suggella definitivamente la questione. “Sarà probabilmente una ischemia intestinale. Mi pare fosse tabagista han detto i famigliari. Tabagista e vasculopatico”.
Mentre si discute della diagnosi, il paziente dopo un balletto elettrocardiografico di extrasistoli ventricolari comincia a salutare il mondo disegnando sul monitor una larga sinusoide che di fisiologico non ha proprio più nulla: fibrilla! E via con la sequenza rianimatoria tante volte eseguita: 200 joules col defibrillatore, massaggio cardiaco sul piano della TAC. Vado avanti per un quarto d’ora con tutto il possibile, e con la certezza della inutilità di tutto. Mi fermo. Venti minuti senza ripresa di circolo. Il paziente è esanime ancora in TAC. Il prezioso strumento diagnostico di fronte alla grandezza ed assolutezza della morte, più forte di ogni tecnologia, disegna sopra di lui una sorta di spaventoso catafalco.
Inizio la noiosa procedura della compilazione del foglio di consulenza. Il personale della radiologia si aggira attorno alla salma. E a quel punto accade. Il braccio sinistro del paziente si alza a quarantacinque gradi e dalla sua gola da cui ho tolto da qualche minuto l’ormai inutile tubo si leva un suono dell’oltretomba che risuona strozzato nella stanza. Un grido estremo che nulla ha di umano. I tecnici della radiologia mi gridano contro: ma è deceduto o no il paziente? La mia mente per un attimo vacilla. “Non può essere. Non è mai successo. Abbiamo sospeso la RCP da dieci minuti. Guardo il paziente: è immobile. Il braccio è ricaduto lungo il fianco. Ma il grido l’abbiamo sentito tutti. Sono certo, si sono certo. Son scappati via tutti. Sono solo col paziente che dovrebbe esser morto. Non è possibile! Prendo l’Ambu e per dieci secondi ventilo un paziente a cui sto facendo l’accertamento di morte. Io? Ma cosa sto facendo!Lavoro da quindici anni. Ne ho visti di decessi. Sono un rianimatore. Sono il più profondo conoscitore del confine tra la vita e la morte. Cosa sto vivendo? Un incubo? L’ imperscrutabile? Cosa?
Il paziente resta in asistolia ed in midriasi. Mi fermo definitivamente. Compilo la consulenza. Torno in rianimazione con addosso un senso di gelo e di ignoto, di inconcepibile. Racconto tutto al mio collega di guardia anestesiologica. Mi ascolta e sorride. Poi mi dà una pacca sulla spalla e mi spiega: era il “Riflesso di Lazzaro”. Sono clonie e riflessi spinali post mortem. Il grido altro non era che l’ aria intrappolata nei polmoni che è uscita facendo vibrare le corde vocali, quando si son contratti gli intercostali”.
“Ah si, ho capito. Mi sono un po’ spaventato”. Ma sarà così, penso. Anzi è così.
Solo a ripensare a quel suono dell’oltretomba, un brivido freddo mi percorre ancora la schiena però. Ancora adesso.

Rabuccia

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mani

Scritto da Giramondo il 14 Dicembre, 2009
emozioni / 2 Commenti

Mani, in Afghanistan.

Mani portate al cuore per augurare “Salam aleikum”, che la pace sia con te, in segno di saluto.
Mani di uomini anziani indurite dal lavoro dei campi.
Mani di donne dipinte a disegni floreali con Hennea nero sui palmi, per i giorni di festa e per i matrimoni.
Mani grasse e ricolme di anelli delle popolazioni dei nomadi Kuci.
Mani che si stringono per dimostrare amicizia e rispetto.
Mani che scrivono segni per me incomprensibili, e al contrario, cioè da destra verso sinistra; (ma i numeri sono uguali!)
Mani ad indicare aerei ed elicotteri militari in volo.
Mani di bambini alzate in cielo a far girare gli aquiloni.
Mani tese con il bicchiere di “Chai” (tea) verde, con tanto zucchero, nei momenti di pausa, seduti a chiacchierare, ad informarsi delle rispettive famiglie, a chiedere come si vive nelle loro case ed a riferire come si vive a casa mia.
Mani di macellai che sgozzano capre secondo il dettato islamico.
Mani rosse di freddo che trasportano secchi d’acqua.
Mani che spezzano e portano alla bocca il “naan” caldo (il pane afghano non fermentato, piatto e rotondo o a forma di rombo)
Mani di soldati e poliziotti che imbracciano Kalashnikov.
Mani di madri che sorreggono figli.
Mani di ragazzine che afferrano la corda al collo della mucca o dell’asino portati al pascolo.
Mani di scolari piene di libri (zaini e cartelle non ci sono o costano troppo…)
Mani portate al volto e poi appoggiate a terra, durante la preghiera ad Allah.

Mani che visitano Pazienti.
Mani di partorienti aggrappate al lettino accompagnate dal dolore della nuova vita che arriva in questa terra.
Mani minuscole di neonati che si muovono nell’aria, cercando istintivamente un appiglio, alla ricerca del seno che li nutrirà.
Mani in urgenza che afferrano laringoscopio, bisturi, fonendo, agocannule, garze.
Le mie mani magre tagliate dai fili chirurgici tirati per stringere i nodi di sutura.

Mani di bambini e di bambine che non ci sono piu’, portate via per sempre da una mina.

Giramondo

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prime notti

Scritto da Drkrishna il 05 Dicembre, 2009
racconti / Nessun Commento

Era una delle mie prime notti di guardia. Fresca assunta, dopo la specializzazione in radiologia avevo lavorato più o meno in qualche centro privato, in qualche tranquillo ambulatorio di città ma mai, prima d’ora mi era capitato di lavorare in un ospedale di frontiera.
Dal PS sale un politrauma, uno di quelli che poi ho imparato a riconoscere come finti politraumi, nel senso che è uno di quelli per i quali non è stato facile inquadrare la dinamica dell’incidente per cui viene spedito in radiologia a fare un po’ di tutto: l’rx del rachide in toto, il torace per coste e parenchima, l’eco addome, la TC del cranio e se ha male da qualche parte in particolare, pure l’rx del segmento che ne so, un ginocchio o un gomito. Ma per la mia prima esperienza il “politrauma” era quello del libro, dove trovi le fratture cervicali, l’ESA, la rottura di milza etc… per cui sudavo freddo mentre il tecnico (TSRM) mi sfornava delle proieizioni tra l’altro da schifo (ed in seguito avrei imparato pure ad urlare per delle proiezioni come quelle).  Stavo per adagiare il paziente sul lettino TAC mentre dalla diagnostica affianco, dove uno dei TSRM stava nel frattempo facendo qualche esame ad un altro paziente, grida: “chist’ ten’ a botta ncuorpo!”. Gli altri tecnici saltano ed io come una marziana scesa sulla terra continuavo a non capire. Finalmente riprendo i contatti col pianeta terra, faccio un attimo mente locale su dove mi trovo, e cosa sta succedendo in questo periodo in questa città, guardo in faccia il paziente e capisco… è uno che hanno appena sparato, la botta è il proiettile.  Di lì a poco vengo a sapere che si tratta di un pezzo importante, che il 118 ha portato qui perché nell’altro ospedale, quello dove vanno tutti quelli come lui, non c’erano più posti. C’era una guerra in atto allora (parlo di pochi anni fa) e ci si sparava come a Kabul. E noi li dovevamo pure curare, e spendere soldi delle nostre tasse per loro…
Sbrigo il povero “politrauma” che alla fine non aveva un bel niente se non qualche piccola contusione, e mettiamo sulla TC lo sparato… non riuscivo a guardarlo in faccia: continuava a piangere come un bambino, gridava “mammina, mammina dove sei?” . Eppure piangeva, lui che chissà quante persone aveva fatto piangere, lui che aveva ucciso, lui che aveva picchiato a sangue un poliziotto…
Alla fine ne viene fuori che il proiettile gli aveva lacerato parte del fegato e si era fermato sotto il diaframma: si salverà.
Ancora non riesco a tradurre in parole il misto di sentimenti che provai in quel momento, tra l’ansia di tirar fuori una diagnosi, un’indicazione per il chirurgo che l’avrebbe dovuto operare, e la consapevolezza della persona che era… mi ripetevo solo “meno male che ho fatto il giuramento d’Ippocrate”

Drkrishna

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Marco C.

Scritto da il Jolly il 27 Novembre, 2009
racconti / 2 Commenti

Era stata una splendida giornata estiva. Lo ricordo con esattezza, anche se sono passati alcuni anni. Dopo un pomeriggio passato al mare, avevo percorso il breve tratto di autostrada da Senigallia a Fano per prendere servizio alle 20.00 nel turno di guardia notturna di anestesia all’Ospedale Santa Croce. Anestesista – Rianimatore… in quel momento avevo 36 anni. Neanche il tempo di ricevere le consegne che dal cercapersone arriva una chiamata dal PS: un politrauma, codice rosso! Scendo velocemente le scale e attraverso il corridoio di ingresso al Pronto Soccorso. Mi sento carico, pronto, efficiente. Già in specialità avevo preso parte alla gestione di gravi traumi, così pure a Fano, città di mare, con un estate sempre critica per le urgenze. L’impatto visivo dell’ingresso di un traumatizzato al PS è sempre drammatico, concitato, di forte impatto emotivo, soprattutto se è giovane, soprattutto se ha la tua età, soprattutto se è terrorizzato, immobilizzato su una tavola spinale con uno stiff-neck ben posizionato. E’ vigile e ben orientato, prima di essere impacchettato è riuscito a telefonare alla moglie per avvisarla di quello stupido incidente in scooter, dopo un bagno al mare di ritorno dal lavoro, inconsueto per lui prima di cena, ma il mare era talmente invitante! Lamenta dolore all’addome, mi sembra tranquillo. Monitoraggio pressione arteriosa e saturazione O2 nei limiti, leggermente tachicardico all’ECG. Mentre l’infermiera fa un prelievo di sangue per emocromo, chiedo un Eco-addome urgente. In effetti l’addome è teso e dolente, mentre per altri distretti l’esame clinico sembra negativo. Arriva anche un Chirurgo. Marco ha un buon 16 Ga in un avambraccio, ma ne posiziono un secondo nell’altro, sto piu’ tranquillo. ECO-FAST, così si chiama l’esame che il Radiologo conduce. C’è del versamento libero in addome, più abbondante a livello dell’ipocondrio destro. Chiedo al Chirurgo di allertare l’equipe di sala. Telefona al suo Primario per avvisarlo. Ok andiamo in sala, ma prima ci vuole una TAC addome per valutare meglio l’entità delle lesioni. La pressione tiene bene, saturazione ok, sempre tachicardico. Il dolore è intenso. Gli somministro 5 mg di morfina ev. Andiamo alla TC, veloci però… cazzo!! TC addome con mezzo di contrasto: rottura del fegato, emoperitoneo massivo. Marco è sempre più agitato, la pressione è in picchiata. Mi portano l’emocromo fatto all’ingresso: Hb 12. Gli faccio un EGA: Hb 8… dopo neanche tre quarti d’ora! Marco mi chiama, è terrorizzato, non respira, non riesce a respirare. Mi guarda e mi dice: aiutami! Mi guarda fisso negli occhi: aiutami! Gli rispondo di sì… sì!. Sta desaturando… l’addome è tesissimo, respira veramente male. Ho con me lo zaino d’emergenza ed è arrivato anche l’infermiere di anestesia. Lo intubo, lo ventilo, la saturazione risale. Guardo il collega chirurgo, non dico nulla, poi chiamo l’ascensore e vado in SO, ci vado e basta. Chiamo Davide, il collega di turno in Terapia Intensiva. E’ un amico, e gli chiedo aiuto. Chiedo aiuto a tutti. Posiziono sul letto operatorio Marco, lo connetto al ventilatore di anestesia in O2 e protossido d’azoto. Niente altro. La pressione non è più rilevabile. Inizio ad infondere sangue zero negativo: due sacche, mentre Davide mi porta dal PS altre quattro unità crociate di emazie concentrate. Infondiamo come disperati ognuno su di un lato tutto quello che abbiamo. Ci portano una pompa di Noradrenalina, non serve, ma va bene! L’intervento inizia e la situazione appare subito disperata. Il fegato è una poltiglia in mezzo ad un mare di sangue, la vena porta, la cava inferiore lacerate. Ci vorrebbe il padreterno della chirurgia vascolare. Ci vorrebbe il Padreterno. Dopo circa quarantacinque minuti di inutili tentativi di emostasi chirurgica, parecchie sacche di sangue, parecchi liquidi, parecchie imprecazioni, Marco inizia a bradicardizzare. Avviso il Primario di chirurgia della imminenza dell’arresto cardiaco. C’è anche un tentativo di massaggio dal sacco pericardico… poi nulla. Letizia, graziosa infermiera della terapia intensiva, capelli rossi, simpatica, si affaccia e mi guarda. Ha gli occhi lucidi. Esco per ultimo dalla sala. Devo parlare con la moglie, mi dicono che hanno due bambine. E’ nello studio del mio primario, distesa in poltrona, in lacrime. Gli dico che ho cercato… ho tentato tutto, ma mi esce una voce ridicola che non sento mia, vorrei stendermi ai suoi piedi e chiedere perdono, ma rimango in piedi inebetito, non riesco neanche a piangere. Le stringo le mani, le mie sono fredde, poi esco. Quel giorno la Morte mi ha preso a schiaffi, ne sono seguiti altri, ma quello è stato il giorno di Marco C. e della mia inutilità. Me lo tengo stretto.

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sulla strada

Scritto da Riverrun il 15 Novembre, 2009
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Notte come tante altre, fino a questo momento.

Suona il telefono, un sobbalzo, il sonno viene automaticamente ricacciato indietro all’estremo limite della percezione. Resta una leggera nausea ma di notte ci sono abituato.

Un codice rosso, mi viene riferito.

Fuori è freddo e mi vesto pesante.

Quasi una cerimonia, la vestizione, come prima di una tauromachia, solo più rapida.

Salgo sull’auto medica.

Si tratta di un incidente.

La tensione che si accumula silenziosa fra l’autista e me durante il tragitto. Rimaniamo in silenzio. La luce blu del lampeggiante che rotea intorno a noi, le nostre immagini debolmente illuminate riflesse dal vetro delle finestre.

Capiamo che stiamo per arrivare, vediamo automobili ferme e fanali in lontananza, gente in piedi sull’asfalto che ci fa segno. Ci facciamo strada. Apprensione ormai palpabile, diventa angoscia, gli occhi cercano, esco dall’auto.

Due persone coinvolte sedute sul ciglio, appoggiate ai platani, apparentemente in discrete condizioni.

Dentro l’ambulanza, mi dicono, c’è un’altra persona. Dalla voce concitata del soccorritore, dal linguaggio non verbale capisco che è grave.

Salgo sul predellino ed entro.

Mi chiudo la porta scorrevole alle spalle.

Sulla barella un uomo sulla trentina, robusto, agitato. Parla concitatamente sempre la stessa frase “Aiutatemi non riesco a respirare”. Non rimane fermo, gli arti brandeggiano come pale impazzite. Io, un assurdo Don Chisciotte contro i mulini a vento. In due non riusciamo a tenerlo fermo. Posizionare un accesso venoso è oltre l’orizzonte del possibile. Il sibilo continuo dell’ossigeno a tratti si affaccia alla coscienza. Ripartiamo subito. Mi chino su di lui per visitarlo, una mano mi afferra un avambraccio, faccio fatica a divincolarmi. Agli emitoraci solo movimenti preternaturali e paradossi, la mia mano quasi sprofonda fra il crepitio delle costole. La sirena sul tetto urla, la velocità è elevata, ci dobbiamo attaccare ad ogni appiglio utile nell’abitacolo, ma il tragitto sembra infinito. Lui continua ad agitarsi, le parole sempre più sconnesse. Manca poco ormai. Siamo sul viale. In fondo si vede l’insegna del Pronto Soccorso. Improvvisamente, smette di respirare, le membra si rilasciano e si accasciano senza più volontà propria, preda della forza di gravità e dei bruschi movimenti del mezzo. In una frazione temporale, da essere umano a cadavere. Mi rendo conto di avere il laringoscopio in mano, lo infilo fra gli strattoni e i sobbalzi nel laringe inerte.

Immagini mentali in successione rapida, intrusive, parallele a quanto accade nella realtà e destinate a non entrare mai in contatto con essa: flash delle ultime vacanze, una musica da camera in stile baroccheggiante mai udita prima, fulmini globulari di luci variegate.

In sala emergenza sarà tutto inutile. Il medico anziano, prossimo alla pensione, ne ha viste tante ormai, compila i vari moduli, la constatazione e il resto.

In sala d’attesa arrivano la moglie e la figlia adolescente. Resta da comunicare loro la notizia. Solo in quel momento mi viene voglia di piangere.

Qualche notte dopo, a casa, un sogno: mi manca l’aria. Mi sveglio sudato e boccheggiante. Una specie di contrappasso, sbiadita ricostruzione autogena di quanto doveva avere provato lui.

Riverrun

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elisoccorso (prima parte)

Scritto da Herbert Asch il 08 Novembre, 2009
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Uno solo. E’ solo uno il ferito per fortuna, ma dall’alto non l’avresti detto.
L’incidente si vede bene arrivandogli da sopra: le due macchine accavallate e la moto un poco fuori nel prato, raccontano una dinamica severa.
Poi, con l’arrivo sulla scena, le cose prendono i loro giusti contorni, cominci a vedere quanti sono coinvolti, cosa si sono fatti, fai un rapido triage per vedere le priorità.
Sulle macchine ci sono solo gli autisti ben legati, ormai i veicoli sono più sicuri di un tempo quando il blocco del motore giustiziava i passeggeri anteriori. Adesso le macchine si aprono come le banane che mangia King Kong, ma all’interno ci sono sempre più spesso molti meno danni.
Il motociclista è invece finito in un prato, la moto da una parte e lui dall’altra ma il prato è molle, lui ha una tuta con la tartaruga, il casco non si è slacciato e la caduta si è stemperata in una serie di rotoloni senza incontrare ostacoli. Totale, forse ha un gomito rotto, una gamba acciaccata, ma poteva andargli ben peggio. Lo sistemo sulla Base, l’ambulanza dei volontari che ci affianca sempre, compilo i fogli e lo spedisco. Non abbiamo toccato niente dei nostri zaini siamo operativi da subito, ci ritiriamo con l’Infermiere, con un gesto indico al pilota che possiamo andare. Lui guarda l’ora, sono passati i minuti necessari a far scendere la temperatura del motore, si può riavviare, fa un cenno di assenso.
Con gli equipaggi, ci capiamo ormai con uno sguardo, un gesto.
Quando arriviamo sul target tocca a me valutare se dobbiamo fermarci per più di dieci minuti, nel qual caso vale la pena spegnere il motore, oppure se le cose possono essere veloci ed allora il pilota mi aspetta a motori accesi. Appena ho la sensazione, mi giro e lo segnalo, la mano aperta in segno di attesa per non spegnere, il pollice passato sotto il collo come a sgozzare il motore, per spegnere.
Alla partenza giro inverso: il tecnico fa allontanare i curiosi, e si va a mettere a distanza di sicurezza davanti all’eli per controllare il settore posteriore, noi buttiamo su gli zaini, li assicuriamo, ci sediamo, ci leghiamo, ci mettiamo le cuffie, ci controlliamo a vicenda. I piloti avviano, quando l’eli ha raggiunto la potenza, il tecnico sale, chiude, si lega, mette la cuffia, comunica che tutto è chiuso e a posto e via si parte.
Gesti automatici, ormai.

Non lo sapevo, ma quella sarebbe stata la mia ultima missione in elicottero, forse per questo che me la ricordo così ancora fresca nella mia mente.
Quel giorno non ci sono più state chiamate e in seguito, ormai quasi otto anni fa, non sono più salito su un elicottero, i casi della vita mi hanno tenuto fuori e così i dodici anni di servizi in elisoccorso sono passati nel quaderno dei ricordi…

Herbert Asch

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una sera all’improvviso

Scritto da Rachele il 30 Ottobre, 2009
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Sono le 19 quando una fortissima esplosione vicina a casa mi ricorda che non siamo in un paese “normale”, il primo pensiero che mi assale è “speriamo che non abbiano ammazzato nessuno…”, l’ora è cruciale, dopo la preghiera si riuniscono le famiglie, si mangia tutti insieme, dopo un giorno intero di digiuno.
Le ambulanze partono e tornano con il loro carico di sofferenza, morte e speranza.
Un quarto d’ora dopo siamo in ospedale… i pazienti arrivano insanguinati, coperti di calce sono portati a braccia, a spalle dai parenti, dagli amici, da chi è sopravvissuto…
Più di 30 arrivano già morti e sono quasi 60 i feriti che arrivano in un’ora, con lacerazioni, fratture, traumi cranici senza speranza ma ancora vivi, altri con la faccia che sanguina, non riescono a respirare e non gridano, altri con addome duro come una pietra, ci sono anche dei bambini.
Non ci sono quasi donne tra i feriti. Probabilmente sono rimaste schiacciate sotto le macerie con i loro figli mentre si affannavano a preparare tutto per la festa, la cena tutti insieme, la gioia di ritrovarsi, madri, mogli, mariti, dopo un giorno di digiuno, per assaporare insieme il gusto di ciò che si è tanto atteso. Improvvisa è arrivata la morte che si è portata via vite, speranze, gioie che non ha guardato in faccia nessuno. Mi chiedo come si può fare questo ai propri fratelli, come si può arrivare a tanto, come può l’uomo essere così crudele.
Passo da una stanza all’altra dell’emergenza, dove regna il caos più pazzesco… vedo i chirurghi sporchi di sangue dalla testa ai piedi, si affannano a soccorrere i pazienti, cercano di capire chi è grave, gravissimo, chi è quasi perso, gli infermieri che incannulano, medicano, bendano gambe braccia, tanti pazienti, tanti parenti anche loro sporchi, pieni di sangue, hanno scavato con le mani per tirarli fuori.
C’è chi si lamenta, chi non ha più fiato in gola per lamentarsi, chi si sta soffocando nel vomito e nel sangue, chi non riesce a respirare.
In emergenza c’è un paziente che sta soffocando per la polvere e i calcinacci che lo ricoprivano, ha la testa aperta da una profonda ferita da cui esce materiale cerebrale. Sarebbe uno di quelli persi, ma non sta a me decidere.
Partono le barelle verso quel posto che pare risolva tutti i problemi… la sala operatoria dove non c’è Dio ma solo poveracci come noi che cercano di fare anche nel disastro più totale del loro meglio.
In sala c’è solo un infermiere anestesista, uno giovane entusiasta della vita e sempre pronto a scherzare. Cominciano a intubarne uno, poi un altro che pare già morto sul tavolo e lo diventa subito dopo. Mi rendo conto che in due possiamo fare ben poco perché non abbiamo ventilatori, e non possiamo rimanere attaccati ai pazienti per ventilarli altri richiedono il nostro supporto o valutazione. Arriva un bimbo con addome acuto, laparotomia. Intanto esco per vedere la situazione, mi viene incontro una barella con uno che urla come un matto con la faccia insanguinata che dice di avere mal di pancia. Finalmente arriva il mio collega medico anestesista, va a vedere in pronto soccorso, la situazione giù pare sottocontrollo, anche perché li hanno mandati tutti nel reparto di terapia sub intensiva, moribondi insieme a quelli che devono essere operati, i gravi con quelli meno. Insanguinati vanno e vengono dalla radiologia, i parenti sono i portantini. Arriva un sacco di gente, perché quando capitano queste disgrazie tutta la comunità si mobilita, c’è chi ha un camice ma magari è solo un portantino, ci sono più parenti di pazienti, tutti vogliono aiutare, tengono su le flebo, spostano i malati, portano le barelle. “E’ pazzesco – penso – questa gente è veramente incredibile: mezza città è qui, dopo tre ore dall’esplosione tutti i chirurghi e gli anestesisti sono arrivati, senza bisogno di essere chiamati”.
Il mio collega anestesista va in terapia subintensiva. Dopo un quarto d’ora lo vedo tornare in sala affranto, mi dice di andare di là che è un disastro non si capisce niente, tutti che muoiono, il chirurgo sta rifacendo il triage, sono tutti urgenti!! Pennarello indelebile scrivo le categorie e la diagnosi sulla pelle di ciascuno, pensando che dalla velocità in cui andranno in sala potrebbero essere vivi o morti.
Mi chiamano i parenti di una giovane donna che abbiamo operato 10 giorni prima per una craniotomia, una scheggia le ha perforato il cervello mentre era in casa a fare i lavori. Li conosco questi parenti sono dieci giorni che ci parliamo a gesti e sorrisi, sono delle brave persone, mi chiamano perché nel letto vicino a quello della sorella hanno messo uno che mi fanno capire non sta tanto bene, infatti è morto.
Un altro è nel letto in un bagno di sangue. E’ in coma, continua a vomitare e si sta soffocando, gli infermieri, i parenti mi guardano, come se potessi fare qualcosa. Ma cosa vuoi fare?? È uno di quelli con shock inarrestabile, magari non lo opereranno neanche. Ma si può lasciare un uomo morire soffocato? No non si può. Lo sedo lo intubo, lì al letto con tutti i parenti che mi guardano e gli do un ambu, lo ventilano loro, morirà forse ma almeno non se ne renderà conto.
Ci sono tante altre cose che potremmo aiutare a fare ancora, ma noi dobbiamo andare via, le regole di sicurezza non ci permettono di stare tutta la notte in ospedale.
Non riesco ad addormentarmi, mi assale un profondo disprezzo per il genere umano che riesce a compiere certe azioni, ma anche una ammirazione per tutti quelli che si sono mobilitati, i parenti, la gente comune, penso ai miei colleghi di questo sfortunato ma incredibile paese. Sì, penso a loro che staranno tutta la notte a farsi in quattro per salvare vite umane e non per il denaro, né per la gloria ma semplicemente perché sentono che è il loro dovere di uomini, di medici.

Rachele

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