diversamente felice

Scritto da Morris il 20 Ottobre, 2009
cronache / 1 Commento

Ci sono giornate in cui ti senti in guerra col mondo intero, e in cui purtroppo il mondo sembra a un passo dalla vittoria finale.
Le nuove linee guida dell’ASL, la governance, la prossima settimana abbiamo la verifica per la qualità, oddio, saranno a posto tutti i documenti. “Dottore, ci sarebbe da adeguare il massimale dell’assicurazione professionale, perché sa, al giorno d’oggi…” “Dottore, sono la Benedetta, sto facendo i turni delle guardie per il prossimo mese e ho un bel po’ di fine settimana scoperti, mi dà una mano?”
Poi, lavorando in un ospedale, ti capita occasione di scoprire che in fondo molte cose di cui ti preoccupi sono futili, e che l’essere perennemente incazzato come il Dottor House non è un obbligo, ma una scelta, probabilmente la più facile e anche la meno coraggiosa.
Ieri l’ altro ci è arrivata in reparto, inviata dal Pronto Soccorso una paziente di quelle che contraddicono l’Harrison. Se si va a leggere l’illustre tomo alla voce “Sindrome di Down” si scopre che difficilmente i portatori di questa condizione raggiungono età avanzate, per il più rapido instaurarsi di patologie cardiovascolari e per l’accresciuta incidenza di malattie tumorali. La nostra paziente però, Down, sessantaseienne, non ha mai letto quel capitolo, e probabilmente nessun altro capitolo in vita sua, e, come il calabrone del famoso aforisma, a cui nessuno ha detto che con quelle alucce e quel corpaccione è impossibile che possa volare, ha svolazzato più o meno bene fino a questa età.
Fino all’incontro con una malaugurata “polmonite acquisita in comunità”, e adesso giace in un letto di ospedale, con un respiro superficiale e rantolante, e l’abbandono di una marionetta a cui qualcuno ha tagliato i fili. La visito scettico, guardo la parsimonia con cui il numero sale sul display del saturimetro e mi viene da pensare che questa paziente probabilmente non la ritroverò al giro di domani pomeriggio. Imposto ossigeno in maschera, antibioticoterapia ad ampio spettro, broncodilatatore, un po’ di cortisone che non fa mai male.
Fuori dalla stanza trovo un paio di signore non più giovani neanche loro. Mi dicono che sono le cugine “della mongolina”, e curiosamente in quell’appellativo non colgo scherno o disprezzo, ma solo affetto. Sono le uniche parenti ancora in vita, le uniche persone che si preoccupano di lei e la vanno a trovare nella RSA dove è ospitata. Spiego loro che la situazione è grave, che le prime ventiquattr’ore dopo il ricovero sono le più critiche, che purtroppo questi sono pazienti fragili, con risorse più deboli. Le solite menate, insomma. Capiscono, mi ringraziano, sono addolorate e preoccupate, ma fiduciose in noi e in qualche modo anche preparate al peggio. Trovarne, di parenti così.
Il giorno dopo quando entro in turno alle 14 noto qualcosa di strano in Reparto. Lì per lì non riesco a capire che cosa sia: sembrerebbe quasi…
No, è impossibile. Sembra proprio buonumore.
La caposala, che è sempre sull’orlo della crisi di nervi, ha un sorriso sulle labbra. Persino l’aiuto anziano, che da quando c’è il nuovo primario ha sempre l’aria di uno che viene a fare il giro con le scarpe di due numeri più piccole, sta canticchiando qualcosa a mezza bocca.
Già comincio a fare ipotesi sul possibile malfunzionamento dell’impianto di condizionamento che probabilmente mette in circolo un qualche anestetico, quando un infermiere mi fa: “Ehi, Doc, vuol farsi due risate? Perchè non va a dare un occhiata alla 320?”
La 320? Ma è la stanza della mia “mongolina”! Entro e non riesco a credere ai miei occhi.
La moribonda di ieri è sveglia e vispa come un grillo, e, abbracciata ad un enorme coniglio rosa di peluche, ride, ride di una risata limpida e contagiosa, puntandomi contro una sguardo pieno di gioia, della felicità di essere qui, di esserci adesso, più forte dell’Harrison, dei dottori presuntuosi e pessimisti, delle nostre idee preconcette.
E, diamine, è più forte di me, ma scoppio a ridere anch’io.

Morris

Tags:

Michel

Scritto da il Cinque il 11 Ottobre, 2009
cronache / 2 Commenti

Il Pronto Soccorso pediatrico è pieno, come tutte le domeniche. E se dall’altra parte della porta giunge il vociare dei genitori innervositi per l’attesa e dei bambini divertiti per i pochi giochi della sala d’aspetto, da questa parte della porta il caldo torrido del pomeriggio estivo, il camice pesante di attrezzi e sudore, il cercapersone continuamente in funzione e lo stomaco ancora vuoto preannunciano altre 6 lunghissime ore di guardia. Per fortuna non sono sola. Oggi siamo in tre. Io e due colleghe, tutte tre alle prime armi e tutte e tre desiderose di imparare e di aiutare il prossimo.
Dall’entrata in servizio ci è passata davanti una sfilata di occhioni di tutti i colori e di tutte le fogge, tutti ad osservarci, chi con curiosità, chi con terrore, e tutti con un’incredibile dolcezza. Ed ecco comparire un altro paio di occhioni blu. E’ appena entrato Michel, un ragazzino francese di 14 anni.
Il volto è smunto e solcato da una discromia orbitopalpebrale di lunga durata, messa in risalto dalla guancia sinistra gonfia. I capelli sono biondissimi. Porta una giacchina jeans consunta, del tutto fuori luogo col caldo di oggi. Ma quello che ci colpisce è l’espressione dei suoi occhioni azzurri, che ci guardano tristissimi. Michel entra nella stanza senza dire una parola. La sua accompagnatrice è una educatrice di un campo solare, anche lei francese, che ci spiega che il bambino ha un forte mal di denti e che non mangia nulla da almeno due giorni. Gli facciamo chiedere perché non mangia e dopo una certa insistenza, superato un imbarazzo che percepisco essere profondo, il ragazzino sussurra di non riuscire a masticare più nulla. Scherzo con lui con le poche parole in francese che conosco, ma lui non risponde. E quindi lo visitiamo, io e le mie due compagne di avventura. L’ispezione del cavo orale mette i brividi: i suoi denti mostrano lesioni cariose spaventose, presenti praticamente ovunque. Sorridiamo a Michel, continuiamo a scherzare con lui durante la visita, come facciamo sempre perché il gioco ha un linguaggio universale, ma lui non intende partecipare. Non parla. Non sorride. Continua a guardarci con i suoi occhioni tristi.
Chiediamo spiegazioni all’educatrice, che in un inglese stentato ci spiega che il bambino è arrivato in Italia da poche ore, spedito in vacanza da una qualche associazione o da un assistente sociale. E’ riuscita a parlare con la madre la sera prima, venendo a sapere che il bambino soffre come un cane da giorni per il suo mal di denti. Cominciamo a capire. E già ci immaginiamo in quale situazione di disagio stia crescendo questo ragazzino triste e magro. Probabilmente anche malnutrito.
Impotenti, sappiamo che essendo domenica non riusciremo neppure a farlo visitare da un dentista. Gli prescriviamo un antibiotico e un antinfiammatorio, raccomandandoci di farlo vedere subito da uno specialista una volta tornato a casa. La donna dice che lo segnalerà alla madre e all’assistente sociale, ma ci rendiamo conto del fatto che Michel tornerà a casa e non verrà visitato da nessuno fino a che i farmaci maschereranno il dolore. Francia. Un paese occidentale. Non sapremo mai che fine farà Michel. Siamo abbacchiate. Tristi. Il nostro pronto soccorso, di domenica, offre solo questo a Michel: un paio di farmaci e tante raccomandazioni. Ma il prossimo paio di occhioni sta per entrare e dobbiamo salutarlo, dopo esserci accertate che gli vengano somministrati almeno i farmaci che abbiamo prescritto. La donna esce. Michel la segue, silenziosamente. Poi torna indietro. Ci guarda. E senza dire una parola dà un bacio sulla guancia a tutte e tre.

il Cinque

Tags:

vuoto a rendere

Scritto da Rantolo il 04 Ottobre, 2009
pensieri / 6 Commenti

Di nuovo in pronto soccorso, ma stanotte non ho voglia. Capita sempre più spesso. Succede quando la vita non ti regala più soddisfazioni, nessuna novità e pochi barlumi di felicità ingannevoli. Con i pensieri immobili, ti chiedi se il tempo stia andando avanti o stia finendo. Guardo il telefono del 118, annunciatore di fatica, sperando che non squilli perché stanotte non sono in grado di essere un professionista, non sono e basta. Ho solo desiderio di tornare a casa e addormentarmi per avere l’illusione di non esserci. Tutta la città sembra volermi accontentare, addirittura capirmi; ormai sono le 4 di un giovedì qualsiasi, poche ore e potrò prendere congedo dal mondo esterno.

Non squillare, non squillare, e se squillerai risponderò, ma non perché credo in quello che faccio, non perché c’è bisogno di salvare un’altra inutile vita. Ma perché devo.

Il mutismo, fortuna mia, continua implacabile. Gli occhi cedono, la testa pesa. Un ultimo sguardo al box d’accettazione però tradisce la mai quasi assenza. Un cono di luce proveniente dalla scialitica illumina tanto il box quanto i miei ricordi. Sangue, guanti, drenaggi, cateteri, siringhe, camici, tutto nel silenzio più assordante. Sento il cuore accelerare, lo sento nel collo, sudo, ho freddo. Voglio sparire.

Mi alzo ed esco di corsa, prendo una sigaretta e la guardo arrossire mentre l’aspiro, apprezzando come un regalo di Natale il crepitio che emette consumandosi. Ho avuto paura, ma è passata, mi ha solamente voluto accarezzare per non farsi dimenticare.

E’ ora di andare a casa; la notte, beata lei, è già andata a riposare. Passo attraverso i colleghi come un fantasma, con qualcuno parlo, forse rido e scherzo, ma non me lo ricordo. La porta del pronto delinea a meraviglia i miei due mondi, troppo simili tra loro. Esco, sono distrutto come quando sono entrato.
Ora puoi squillare.

Rantolo

Tags:

ricordi di fine estate

Scritto da Giro Batol il 25 Settembre, 2009
pensieri / 1 Commento

06.00 del mattino, dell’ultima notte prima delle vacanze: la tracheotomia di una paziente sanguina un po’ e sarà da rivedere, l’ACT del suo vicino di letto è un po’ basso e bisogna aumentargli la velocità d’infusione dell’eparina, ma tutto sommato la notte sta scivolando via tranquilla ed allora steso sulla branda dello studiolo si può pensare ad un anno di Notti di Guardia.
Non è una cosa che si fa spesso, generalmente i ritmi di lavoro non concedono tanto spazio a tali riflessioni e quando lo si fa sono quasi sempre i momenti drammatici che ti attraversano la mente per affacciarsi alla soglia dei ricordi con una tale violenza da travolgere tutto ciò che incontrano: come il padre di quel ragazzo abbattuto per strada da un emopericardio per rottura di cuore che mi guarda con gli occhi stravolti quando gli dico in Pronto Soccorso che per suo figlio non c’è stato niente da fare, che è morto: “Dottore, non è giusto! Un padre non dovrebbe mai sopravvivere a suo figlio, non è giusto!”, sono le uniche parole che ha trovato la forza di dirmi.
Già, parole che porterò sempre con me e che rivivo tutte le volte che sto per arrendermi durante una rianimazione cardio-polmonare conscio che di lì a poco riincrocerò occhi stravolti, riascolterò parole dilanianti.
Ma ecco che in questa occasione ci sono anche altri ricordi che affiorano con tonalità completamente diverse ed un lieve sorriso increspa i lineamenti: e sì, per esempio la notte con Francesca, 15 anni e occhi blu profondo, ma con la pelle che progressivamente si stava ricoprendo di macchie purpuree lievemente rilevate, sempre più estese sempre più confluenti: “Sepsi meningoccica” era stata l’inesorabile consegna di qualche minuto prima, “sta andando molto male adesso le ho dovuto mettere su le amine; i genitori le sono lì accanto nell’isolamento, sono distrutti”.
“E no, ragazza mia, non mi fare uno scherzo del genere perché io stanotte non vado a dire ai tuoi genitori che non ce l’hai fatta” è stato il primo pensiero.
Parlarle e spiegarle, insieme a Carlotta, l’infermiera del Pronto Soccorso, tutte le varie manovre invasive che una dopo l’altra abbiamo eseguito su di lei era stato meno difficile del previsto con l’eccezione dell’intubazione oro-tracheale: “Tranquilla Francesca, adesso ti addormenti e quando ti sveglierai starai meglio” già peccato che non ne fossi affatto sicuro e il pensiero che tante altre volte quelle erano state le ultime parole udite dai miei pazienti mi torturava.
Poi la ricerca su Internet, la possibilità di usare un farmaco da poco in commercio gravata però dal rischio di un sanguinamento cerebrale, il consulto alle 02.00 con il primario, il colloquio con i genitori, la corsa del taxi dall’ospedale pediatrico per recuperare la Proteina C zimogeno ed infine una piccola inversione di tendenza divenuta poi una marea montante fino alla definitiva dimissione dopo più di un mese di interminabili trattamenti medici e di chirurgia plastica in Rianimazione e Medicina d’Urgenza superati con una incredibile forza d’animo e volontà di lottare.
E il signor G3 chi se lo dimentica? 48 anni, Rumeno, lavorava in Italia con le sue due figlie, mentre la moglie era rimasta in patria: 2000 di glicemia, polmonite evoluta in shock settico, infarto miocardio acuto in corso e linfoma non Hodgkin con localizzazioni sovra e sottodiaframmatiche istologicamente tipizzato come G3, insomma quasi morto, quasi senza indicazioni rianimatorie, ma quasi… e allora quasi quasi ci proviamo e tra l’incredulità generale giorno dopo giorno, notte dopo notte ecco che Costel si tira fuori di qui e va a casa pronto a lottare di nuovo contro il suo linfoma: ma ormai ci contiamo, i G3 rispondono bene alla terapia.
E così tra un ricordo e l’altro si son fatte le otto, tempo di consegne per chi arriva e tempo di ferie per chi smonta: diceva Oscar Wilde che “il ricordo di un dolore è sempre un dolore, mentre il ricordo di una gioia non è più una gioia”. Beh, caro Oscar, ti vorrei presentare Francesca e Chelmus: credo che cambieresti idea! Non solo è ancora una gioia, ma è una gioia contagiosa e stimolante che ci aiuta tutti a non mollare anche quando fatica, stress e malinconia si fanno sentire durante le notti di guardia.

Giro Batol

donne

Scritto da jumba il 16 Settembre, 2009
racconti / 2 Commenti

“Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio
non già perché con quattrocchi forse si vede di più.
Con te le ho scese perché sapevo che di noi due
Le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate, erano le tue”

Eugenio Montale, Satura (Xenia II), 1962-1970.

Stare dall’altra parte è diverso.
Ti trasformi, cambi specie nel tempo di una mitosi, passi dallo stato di medico a quello di paziente. E non un paziente qualunque, ma il peggiore. Quello che nessuno, ma proprio nessuno di noi vorrebbe trovarsi davanti non dico in sala ma nemmeno in ambulatorio. Già, perché solo il fatto di essere “dottoressa” puzza di complicanza inevitabile, di fattore di rischio maggiore per qualche casino tipo shock anafilattico, infezione, etc
Già il collega radiologo, venuto a conoscenza della mia allergia al nickel (tradotto: eczema ai lobi auricolari da orecchini di bigiotteria), si è astenuto dall’iniettarmi il mezzo di contrasto durante la RMN, per cui la mia massa addominale di ndd continuava a rimanere di ndd.
Poi c’è la Paura. Fino al giorno prima ridi e scherzi, minimizzando l’intervento, dicendo che al massimo in una settimana sarai già in pista, facendo finta che la pancia gonfia come un pallone sia la conseguenza del colon irritabile (con tutte quelle guardie micidiali altro che stress!!!), e che quel dolore sordo ed insistente alla gamba sia dovuto ad uno strappo durante quella partita a tennis (risalente ormai a 2 mesi fa).
Poi c’è la Paura. Arriva all’improvviso, come entrare in una cella frigorifera nel mese di agosto. Arriva precisamente quando ti siedi davanti all’anestesista per la visita, dopo tutta la mattina che giri digiuna per i padiglioni dell’ospedale (non il tuo, qui nessuno ti conosce, nessuno ti chiama dottoressa, ora sei una signora) con in mano una manciata di codici a barre e la provetta delle urine.
La collega, gentile, giovane, carina, per niente stressata e pure abbronzata (sarà l’aria di quest’ospedale, chissà se cercano cardiologi da queste parti) mi bombarda di domande seguendo una check list, mi spiega il tipo di anestesia, mi “rassicura” dicendo che quasi sicuramente l’intubazione non sarà difficoltosa, quasi sicuramente non si dovrà prendere una via centrale e che quasi sicuramente non sarà necessaria una degenza postoperatoria in rianimazione… CAVOLO (ad essere precisi l’imprecazione muta che mi è esplosa dentro è stata un’altra). Sorrido, annuisco, ma ho le mani sudate e non vedo l’ora di alzarmi ed uscire a respirare un po’ d’aria inquinata e a strafogarmi di bomboloni alla crema al bar dell’angolo.
E pensare che io, tutti i giorni, devo dare ai pazienti notizie nefaste, comunicare diagnosi definitive di patologie croniche ingravescenti ed invalidanti, proporre interventi cardiochirurgici, impianti di devices, inserimento in lista trapianto….Il tutto mentre ti chiamano al telefono dal pronto soccorso, entra l’infermiera con un ECG urgente da refertare e la signora con il numero 93 verde bussa con insistenza alla porta per reclamare il proprio turno. Io non sono come la collega che mi ha appena visitata. Io non sono più tanto giovane e tantomeno abbronzata, mi sforzo di essere gentile ma i miei gesti intrisi di caffeina tradiscono il fatto che tutto mi sta arpeggiando sui nervi.
Chissà che percezione hanno di me i pazienti? Chissà qual è il loro stato d’animo quando escono dalla mia stanza?
E comunque adesso tocca a me, porca miseria. Fra 4 giorni è fissato l’intervento. Meno male che da ora a quel momento c’è il weekend di guardia! Magari riesco a non pensare.
E così infatti è stato. In terapia intensiva fila via tutto liscio, c’è solo un paziente critico ancora ventilato la cui criticità maggiore sembra essere la sua situazione familiare (la compagna è una mia amica…). Ce ne fossero di guardie così tranquille! Potrei anche cercare di dormire, ma non ce la faccio a stare da sola nella mia stanza. Vago per l’ospedale con il dect in tasca. Possibile che non ci sia in Pronto qualche dolore toracico, qualche curva enzimatica da chiudere, qualche FA parossistica in chirurgia? Niente. Arriva finalmente mattina. Raccolgo le mie cose, mi porto via dall’infermeria una confezione di X-prep e l’occorrente per le medicazioni e mi tuffo nel mondo esterno. Alla bollatrice, come dice un collega, avviene il “passaggio di stato”. Questa volta però le mie gambe non sono come al solito leggere, ma assumono una consistenza gelatinosa, che insieme con lo stomaco galleggiante e l’intensa peristalsi intestinale caratterizzano una sola nota condizione: la paura.
La mattina successiva mi presento sulle mie gambe instabili nel reparto per il ricovero, dotata di valigia 24 ore e di marito. Sono le 7, c’è il cambio di guardia, per cui vengo parcheggiata in sala d’attesa con altre donne per un’oretta. E’ interessante vedere come tutte, ma proprio tutte, proviamo la stessa paura, abbiamo le stesse mani sudate ed irrequiete; immediatamente la rivalità che normalmente serpeggia tra donne si trasforma subito in solidarietà: ci si dà del tu, ci si racconta senza veli, sicure che la nostra interlocutrice sia in uno stato di totale empatia, ci si aiuta allacciarci il camice monouso…
Gli uomini si defilano con le solite scuse banali: le sigarette, la macchina parcheggiata male, la telefonata…Poco importa, chi ha già partorito sa che certi momenti della vita non sono fatti per i cromosomi Y.
Sono la seconda della lista operatoria, quindi ho giusto quella mezzoretta di tempo per struggermi ancora un po’. Nel bel mezzo di tale struggimento arriva un angelo: Mariella, l’anestesista che da qualche mese si è trasferita dal mio ospedale. Sono felice di vederla. E’ come ritrovare una vecchia compagna d’armi…In effetti abbiamo combattuto insieme diverse battaglie, alcune vinte, moltissime perse. Anche se non è di turno in sala rimane accanto alla mia barella e mi distrae mentre l’antibiotico mi scorre in vena. Con voce di velluto mi rassicura, mi sistema i capelli nella cuffietta e sorride. Io sono figlia unica, ma in quel momento penso che se avessi una sorella mi piacerebbe che fosse esattamente come lei. Senza la sua presenza non avrei sopportato l’entrata del chirurgo (nervoso, sfuggente, quasi incazzato).
Nel frattempo si è materializzata anche Maria, la mia ginecologa, che è in pensione da qualche mese ma non riesce a stare lontana dall’ospedale. Si sta vestendo per entrare in sala, mentre con parole sapienti mi tranquillizza. La paura finalmente si scioglie e lascia il posto alla commozione. Non mi aspettavo tanta partecipazione…
Finalmente entro in sala. Maledetti allarmi, quanto li odio! L’anestesista, con accento straniero e gentile, mi annuncia che sta per farmi la preanestesia. In un attimo la scialitica sopra di me si fa più brillante ed inizia ad ondeggiare, il campo visivo si contrae, poi il nulla.
Dài atleta, dai un colpo di tosse! Riemergo con l’allarme insistente della frequenza cardiaca nelle orecchie. Apri gli occhi, tira fuori la lingua!
Capisco che è tutto finito e che sto stranamente benissimo. Solo il giorno dopo, in preda all’astinenza, capisco che è la morfina a regalarmi questo stato di soffice galleggiamento…
Qualcuno mi dice che, all’esame estemporaneo, la massa asportata sarebbe un fibroma ovarico. Diosialodato!!!!
Il pensiero va subito ai miei bimbi, vorrei stringerli forte…
Grazie a tutti “di cuore”, ma soprattutto a due dottoresse che prima di tutto sono due donne (e con questo ho detto tutto!!!).

Jumba

Tags:

le solite cronache di una notte di guardia

Scritto da Gaddo il 09 Settembre, 2009
cronache / 3 Commenti

Il mio webmaster è contento quando faccio le notti di guardia. Dice che la qualità dei post è migliore (e forse ha ragione, perchè quando non si hanno storie da raccontare si finisce nell’invettiva sterile di sempre).

Ma ci sono volte in cui no, non ha ragione. Ieri sera, intorno alle ventuno, è arrivato in pronto soccorso un signore anziano, ma non tanto, con il bacino letteralmente in pezzi.

Abbiamo fatto davvero di tutto, e in tanti. Si è cominciato con le sacche di sangue da trasfondere durante la tac, con gli infermieri tesi e indaffarati; l’anestesista che cercava di tenere in qua il signore con tutti i mezzi a sua disposizione (aveva una faccia così stanca, poverina, che mi è venuto voglia di abbracciarla, farla sedere su una sedia e lasciare che mi raccontasse tutto; anche se non la conosco così bene da permettermi simili confidenze); il mio collega radiologo in reperibilità vascolare, che è arrivato dopo dieci minuti (era uscito dall’ospedale da meno di un’ora) per un tentativo disperato di bloccare l’emorragia interna con un’embolizzazione dei vasi che perdevano sangue; gli ortopedici, che alla fine lo hanno portato in sala operatoria per rimettere a posto il bacino e la spalla fracassati.

Ho riletto il mio referto tac: un festival di fratture. Ricordo di aver pensato che, porca miseria, come fai a tirar fuori dalle pesti un paziente con così tante fratture al bacino: troppe esperienze negative sul groppone, anche se in medicina, come sempre, non si sa mai. Nel bene e nel male.

La serata continua, diventa una nottata che si prolunga ininterrotta fino alle tre e mezzo del mattino: e per fortuna che i colleghi del pronto soccorso sono stati fantastici. Con l’internista abbiamo discusso di casi clinici come sempre si dovrebbe fare, in queste circostanze. La chirurga addirittura ha portato il gelato e ha sorriso tanto, con il suo bel sorriso di sempre. Lusso allo stato puro.

Poi, intorno alle quattro, mentre cerco di guadagnare il letto, incoccio l’ortopedico lungo il corridoio. Ha una faccia distrutta dalla stanchezza mentre mi dice: Non c’è stato niente da fare, il signore non ce l’ha fatta.

Ragioniamo qualche minuto sulla faccenda e non ci sembra di aver sbagliato nulla nelle varie procedure: è solo che rompersi così tanto il bacino è una cattivissima idea, poi si rischia grosso davvero. Lui ha detto, amaramente: Speriamo che lo capiscano anche i familiari.

E a quel punto l’ho guardato, appoggiato con la schiena al muro, gli occhi cerchiati di nero, con ancora in tesa la cuffietta da sala operatoria: sembrava rimpicciolito, raggrinzito, come se le due fatiche associate, quella fisica e quella mentale, lo avessero davvero ridotto ai minimi termini. Poi anche lui mi ha guardato, e ha aggiunto: E’ in momenti come questi che mi chiedo chi cazzo me l’ha fatto fare a scegliere questo mestiere.

Avrei voluto aggiungere qualcosa, ma non c’era molto da aggiungere. Sono talmente tante le volte in cui ci diamo dentro per ore intere, e poi perdiamo i pazienti, che ormai non ci penso neanche più a chi me l’ha fatto fare. Sono rientato nella stanza, alla fine, e mi sono buttato sul letto. Avevo un groppo in gola che non andava giù: forse perchè questa volta ci avevo davvero creduto, al lieto fine della storia. Due o tre ore prima il signore era disteso sul lettino della tac, respirava, rispondeva all’anestesista che cercava di tenerlo sveglio: due o tre ore dopo più nulla, solo un corpo freddo senza più nessun abitante dentro.

Non so come spiegarlo: non è questione di aver fatto bene o male le cose, di essere stati tempestivi ed efficaci, professionali o emotivi. E’ che prima sul quel lettino c’era qualcuno, poi solo un gran vuoto. E il vuoto, a volte, fa male.

Gaddo

Tags:

una notte in terapia intensiva neonatale

Scritto da the intensivist il 28 Agosto, 2009
cronache / 16 Commenti

Sono le 2.30 di notte di venerdì sera… mi aspetta davanti tutto un week-end impegnato in ospedale, tra notte, reperibilità e 12 ore di domenica. Che palle!! Ho appena finito di controllare i dati di ventilazione dei sei neonati ricoverati in terapia intensiva. Ce ne sono altri 15 fuori in post-TIN e nei box esterni. Il suono del cicalino… Che palle!! “E’ il neonatologo di guardia?” “Si sono io dica”. “Tra 5 minuti portiamo la 303, la donna gestosica con iposviluppo alla 24 settimana, in sala cesarei, perché ha avuto una crisi ipertensiva” “Va bene, mi organizzo con le ragazze per portare la culla e arrivo”. Ma porca miseria… ma proprio a quest’ora devono fare un cesareo? E poi dove lo metto… chi lo dice a quelle rompi… delle infermiere? Ho un posto solo libero in TIN e domani mi nasce la gemellare alla 33 settimana, cavoli loro, di quelli che ci sono domani, io stasera questo lo devo ricoverare. “Ragazze, è la sala parto: nasce l’iposviluppo alla 24ma il solito catorcio chi viene giù con me e porta la termoculla?” “Dottore non abbiamo 4 mani. Dà lei da mangiare alle altre jene? Cominci a scendere giù e arriviamo”. “OK, io mi porto giù la culla e anche il surfattante”.(Sì, ma che palle!!)
Il solito ascensore che non arriva mai, scendo a piedi, faccio prima.
Con gesto veloce digito 1-2-3-4 e poi cancelletto, si apre la porta della zona parto, passo davanti all’isola neonatale, controllo velocemente che tutto sia in ordine: Neo-Puff, ventilatore, laringoscopio, cateteri,etc.
Indosso, camminando, mascherina, cappello, guanti sterili e con il gomito premo sul tasto rosso della porta scorrevole della sala cesarei. “Buonasera… tirato giù dal letto dottore ?” “NO, no, stavo ancora controllando i catorcetti che ci date sempre e che sono in TIN”. Il ginecologo di guardia, freme con in mano la pinza che ogni tanto usa, pizzicando la pancia della gravida, per verificare se ha preso o meno la spinale. “Sente la pizzicata, signora?” “Si, dottore”. L’anestesista interviene “Ancora un attimo Andrea, la spinale l’ho fatta da meno di 5 minuti”. “Signora, sente il pizzicotto?” “No”. “OK si parte , bisturi…” Passano 3 minuti e Andrea è già sull’utero, divarica i retti addominali, batuffolo, con la forbice rompe il sacco, liquido limpido (meno male); eccolo. E’ podalico, ha il pisello (che sfiga prematuro e anche maschio!), peserà 6-7etti; a testa in giù aspirazione delle prime vie aeree, poi tra le braccia avvolte dal lenzuolino blu sterile della puericultrice e poi giù sull’infant warmer.
“Asciugalo, passami la mascherina”. Gli faccio fare una sustained inflation, come vuole quel rompi… del primario (si incav… se poi non lo faccio); oh però funziona! E si perché dal saturimetro annoto che la frequenza è 120/bpm anche se la saturazione è solo 65-70%. Ma chi se ne frega, Colin Morley, (dice il direttore), ha visto che ci vogliono almeno 5 o 10 (non ricordo bene) minuti per raggiungere la saturazione ottimale (oltre 90 o 95% che ne so, qui continuano a cambiare i valori in letteratura). L’importante è che la frequenza sia buona: “Ce lo hanno insegnato gli anestesisti”, continua a predicare il direttore. Va bene così. E dai respira, rompino di un bambino, prova a piangere, ma è un gemito. “Lo intubi ?” il solito rompiballe dell’anestesista con il fiato sul collo che gli ficcherebbe giù il tubo tracheale sempre. “Si, adesso, se non si riprende con la seconda sustained”. “Che cos’è la sustained?”, mi dice l’anestesista tirocinante che non sa un cav… ma che si deve impicciare di tutto. Non gli rispondo neanche, prendo il laringoscopio “Aspirate che non si vede un cavolo ha la glottide alta (ma è sempre così alta la glottide davvero o sono io che non sono capace a incubare? ma non potevo intubarlo in TIN con le mie ragazze?). Oh finalmente arriva dalla patologia, la mia infermiera, anche perché finalmente l’ho intubato, ma mi stavano dando un cerotto per fare il baffo sul labbro che sembrava una cintura per pantaloni. “Va bene, dottore la mandata del NeoPuff passa sia a destra che a sinistra, e satura bene 86% con la frequenza a 130/bpm” “Come sta?” Mi chiede Giorgio il ginecologo; “Ce la fa?” “Ma come cav… posso saperlo ADESSO? Chi sono il Padre Eterno?” “Per ora è discreto, adesso gli faccio il surfattante, poi lo incannulo su in TIN, e tra un’ora ci risentiamo”. Mi giro dalla parte della porta a vetri che dà nell’anticamera della sala cesarei: faccio un segno di OK con il pollice e indice al padre; quindi con l’indice che rulla nell’aria, gli faccio capire che ci sentiamo dopo, su al 5° piano.
Sospingiamo la culla da trasporto verso l’ascensore, sempre ventilando a mano il 24 settimane che adesso è un po’ più bellino di prima e che si muove come una rana.
Arriviamo in TIN sono le 3.15, lo mettiamo in culla, lo pesiamo: 650 gr, un altro ranocchio, lo attacchiamo al ventilatore: 60 atti, in SIPPV+VG (come vuole il direttore, che con la sua voce mi risuona nelle orecchie: ah sì, il Vt a 7 ml/Kg, “per lo spazio morto”. Che palle anche lui. “Mi raccomando fate il reclutamento, al limite se potete mettetevi in due, chiamando il reperibile, tanto ve ne capitano solo due o tre nell’anno di notte di neonati veramente prematuri: uno incannula i vasi ombelicali, l’altro recluta il polmone”. Ma a casa, si calmerà almeno un po’, o fa così anche con moglie e figli? capisco perché poi è sempre nervoso. Provo ad incannulare anche l’arteria: ma io non sono capace, ci rinuncio gli prendo solo la vena ombelicale: “Misurate la distanza spalla ombelico”, dice il primario, me lo sento fischiare nelle orecchie; oh mer… l’ho dimenticato, ma va bene vado su con il catetere, 3 F, finchè con la siringa non verifico che va bene sia in aspirazione che in infusione. Ore 3.55: prima emogas: ph 7.23, PCO2 35 PO2 85 (ma è arteria o vena, o sono troppo alto con il catetere? La famosa misurazione spalla-ombelico forse serviva! Vabbè, dopo la lastra del torace lo tiro giù il catetere. “Dottore, Laura è in bradicardia, è la terza apnea cha ha in due ore. Rimette finalmente le N-CPAP?” “Aspetta, dalle un attimo, fammi controllare quanto fa di caffeina? Non è che per caso ha rigurgitato prima?” “Dottore, Marco ha perso la vena periferica. E’ la terza che perde oggi. E’ massacrato nelle braccia e gambe; ma gli mette una vena centrale vero?” “Se aspettate un attimo. E poi non c’è Laura che prova magari a mettergli una periferica nella safena, lei è brava no? Se non ci riesce lei allora provo io a mettergli un centrale” Ore 4.10 chiamo il reperibile della radiologia per la lastra del torace e posizionamento CVO. Naturalmente è reperibile e mi ha detto che prima di 45 muniti non arriva, perché c’è traffico oggi e abita fuori Milano. Ma che cavolo di reperibilità è? Mando le provette dei prelievi giù in laboratorio con il bussolotto della posta pneumatica per gli esami; l’ho portati io perché le ragazze sono impegnate. Già che ci sono vado anche a ritirare il plasma che per telefono han detto che è pronto per Silvia; ma allora potevo anche portarle a mano le provette. Amen!! Le provette son già partite.
Ore 4.55: arriva il tecnico di radiologia “T’ho chiamato da più di mezz’ora!!” “Lo sai che abito fuori Milano e non ci posso fare niente”. “Dottore, s’è stubato Filippo. Piange!” Merda secca. Lo reintubo senza grosse difficoltà. E’ chiaro qui in reparto è più facile. Lo rimetto in SIPPV+VG e torno sull’ultimo arrivato. Fatta la lastra, guardo l’immagine al computer: un polmone di m… 6-7 spazi, RDS di 3°-4° stadio, e il surfattante l’ho già fatto, ma dove cav… è finito? Il primario dice però che se satura bene e ha bisogno solo del 25%, l’FRC è fatta e quindi non devo guardare la lastra, e posso fare anche il gradiente arterioso/alveolare per verificarlo, bla, bla, bla.
Ore 5.20, il cicalino: “Dottore in sala parto, nella margherita, una ventosa”. Che palle, giù di corsa sempre per le scale: mi ha detto nella margherita o girasole? beh, chiedo quando arrivo giù. 1-2-3-4 cancelletto, entro.
Entro nella margherita era giusta l’indicazione, il rompino è già nato, urla, sta benissimo. “S’è fermato allo scavo pelvico, ma sta bene” dice la ginecologa di guardia. E allora perché hai fatto la ventosa mi viene da pensare?
Torno in reparto sono le 5.30, comincia a spuntare un pò di luce fuori dalla finestra, la notte è un po’ meno ovattata e dall’alto del 5° piano vedo l’alba dietro il campanile e sullo sfondo, tra le nuvole, un aereo decolla da Linate. Qualche taxi sulla strada e i camion della nettezza urbana. Cominciano a circolare anche i primi lavoratori, quello del primo turno… a proposito, anche il mio cambio prima o poi arriverà, verso le 8 o poco dopo. Poco dopo, speriamo, sono proprio stanco. “Dottore, Federica, ha 2 cc di RG biliare, che faccio? Ha anche un panciotto con tutte le anse disegnate”. “OK sospenda il pasto e poi vediamo cosa fare tra tre ore”. “Dottore, Mario, ha avuto due apnee mentre lei era giù per la ventosa, ho messo due litri di ossigeno, se no non saturava più di 90%”. Ma non hanno ancora capito che non serve a niente l’ossigeno per le apnee? “Va bene, lo lasci in ossigeno, però lo concentri e non lasci il bocchettone, altrimenti ce lo troviamo al 100% di saturazione e gli viene la ROP”. “E sì e noi invece a forza di farlo desaturare, lo facciamo diventare scemo. O sta qui lei dottore a controllarlo che non desaturi, mentre noi ci preoccupiamo degli altri 20 o gli lascio il bocchettone, fisso”. Mah, c’hanno anche ragione loro. Arriva il papà della 24ma: è agitato, la moglie lo ha chiamato di corsa da casa, è il primo figlio, tanto atteso, ha le lacrime agli occhi; entrando in TIN, si sbaglia e si ferma prima davanti alla culla di un altro in ventilazione meccanica: sono tutti uguali, eppure così diversi tra di loro. “Come stà? Tutto bene? Ha tutto?” Ma come posso, spiegargli tutto stanotte? Lo invito a toccare il figlio con le mani, ma lui ha paura e dopo 5 minuti, e dopo la firma dei 350 consensi richiesti sulla cartella clinica (“La cartella è tutta a posto?” Il solito direttore),scende dalla moglie, a rassicurala. Di che, non si sa, siamo solo all’inizio, di un’avventura che durerà almeno 3-5 mesi. Se vivrà poi…
Ore 6.30, provo ad andare in camera e mi sbatto sulla sdraio; il direttore mi aveva detto che lui quando faceva le notti, lavorava al computer in TIN e tra una visita e l’altra scriveva gli articoli. Mah! Ma si rende conto di notte il casino che c’è qua? Ventose, flebo, cesarei. “Dottore la 24 settimane, desatura, e l’allarme del VG suona, Vt basso. O controlla il respiratore o si mette lei qui davanti a struccar il buttun”. “E’ sceso un po’ il tubo, ecco perché desatura: fissatelo meglio con il cerotto, di 0.5 cm più in su; era anche girata la testa, ora passa meglio e satura meglio”. Sono le 7.30, vado stancamente a darmi una sciacquata alla faccia: sembra che mi abbiano dato due cazzotti in faccia, ho due occhi con delle borse sotto che. Faccio pipì, me ne ero dimenticato e la vescica cominciava a dare i segni di irrequietezza. Sono le 8.07 arriva Luigi, a darmi il cambio “Ciao, come andata?” “Non ho chiuso occhio, neanche un minuto”. Suona il cicalino. “Dallo a me, dai”. Non vedevo l’ora. E’ finita, ma domani per 12 ore si ricomincia. Sono stanco, ma… E’ la vita.

the intensivist

Tags:

ombre

Scritto da il forestiero il 19 Agosto, 2009
cronache / Nessun Commento

Sono le 3.45 di un freddo autunno, il più freddo che io ricordi ma non è solo una questione atmosferica.

Un lampeggiatore blu si ferma davanti alle porte scorrevoli del pronto soccorso, due ambulanzieri entrano stancamente e sbarellano un corpo davanti al triage. “Dove lo mettiamo?” – chiede il più anziano dei due – “chi è?” – risponde una voce altrettanto assonnata dall’altra parte del vetro – “Boh, era addormentato su una panchina nel parco vicino ad una bottiglia vuota ed un carrello della spesa stracolmo di cianfrusaglie, credo sia la sua casa; noi, sulla nostra scheda, lo abbiamo segnato come Sconosciuto”. “Mettetelo li” – continua l’assonnata voce – “smaltirà la sbronza, poi domani… vedremo”.

 Sconosciuto? Il solo fatto che noi ignoriamo l’identità di una persona, la sua storia, il suo passato, non ci autorizza a cancellarne l’identità ed a crearne una temporanea dal nome “Sconosciuto” e che domani servirà per qualcun’altro. Non sarebbe meglio chiamarlo “Panchina Parco”? almeno avrebbe un nome e un cognome che ne racconta la storia, perlomeno quella più recente.

Quel corpo adagiato goffamente davanti al triage c’e l’ ha un’identità, l’ha solo dimenticata o, forse, non la vuole più rivelare. Si chiama Antonio, ha 60 anni, una casa, una famiglia, o per lo meno li aveva, una moglie, una figlia, un lavoro. 12 anni fa ha perso il lavoro, e da li a poco la moglie e la casa, la figlia chissà; al loro posto ha preso una bottiglia per compagna e un parco per casa con una panchina per letto. Da allora Antonio si aggira tra il parco nei periodi più caldi e la stazione in quelli più freddi. Da allora Antonio, con tutta la sua storia, è stato avvolto da un’ombra scura, resa ancora più fredda ed impenetrabile dall’indifferenza della gente. Da allora Antonio ha smesso di essere Antonio e per tutti è diventato una delle tante ombre che all’imbrunire popolano le nostre città e, con il sorgere del sole tendono ad accorciarsi senza mai svanire totalmente ma che, ogni sera, riprendono a sopravvivere in fredde città popolate da gente come noi che, al calar del sole, si ritira negli affetti dei propri cari e di giorno può far finta di non accorgersi di quelle tenui ombre come se non esistessero. Da allora Antonio, come tutte le altre ombre, lotta – o forse non lotta neanche più – contro la fame, il freddo, le malattie, l’ignoranza e la fredda indifferenza della gente.

Ore 5.30. Il pronto soccorso è ormai quasi deserto, le persone, quelle con un nome e un cognome, che hanno cercato aiuto in questo rifugio sono state tutte schedate, visitate e, in qualche modo, sistemate.

“Dottore, ce ne sarebbe ancora uno” – dice la voce sorseggiando un caffè ristoratore e, ormai, non più tanto assonnata.

Antonio non si sveglia, respira affannosamente ed ha la febbre alta quando viene accompagnato in radiologia dove una radiografia del torace non può che confermare una polmonite estesa a tutti e due i polmoni – del resto è difficile combattere contro la polmonite quando non si mangia per giorni e si dorme in luoghi freddi ed umidi (anche perché una stupida ordinanza ha chiuso le stazioni durante le lunghe e fredde notti invernali in nome di un presunto decoro e discutibili norme igieniche).

Da li a poco Antonio smette di respirare e silenziosamente, come entrato, senza disturbare nessuno, se ne va.

 “E’ morto?” – chiede l’ormai non più assonnata voce – “Si” – risponde il medico – “ma come si chiamava? – continua – “Non aveva un nome…” – risponde la voce cominciando però a capire che non poteva essere così – “allora metterò Sconosciuto!” – conclude il medico – “No!” – tuona la voce – “Lui era Antonio, o Franco, o Giovanni,  o semplicemente Ombra … lui era tutti noi ma non era Sconosciuto!”

Buonanotte Antonio, ora riposa tranquillo lassù, a te auguro che la scura e fredda ombra con cui ti abbiamo avvolto svanisca e si illumini di mille colori che ti guidino nella tua nuova vita.

Buonanotte Franco, o Giovanni, od Ombre a voi auguro che, se proprio dovrete incontrarci, sia solo per essere avvolti di mille luci colorate che possano riscaldarvi e sfamarvi nel freddo mondo che vi circonda. Buona notte amici miei, a tutti noi auguro che la nostra fredda indifferenza non finisca per avvolgerci e trasformarci in fredde e scure ombre.

il forestiero

Tags:

il miracolo della vita

Scritto da sognatore il 10 Agosto, 2009
testimonianze / 2 Commenti

Per me, studente infermiere al terzo anno e ormai prossimo alla laurea, era il primo giorno in un reparto di ostreticia. Un mondo nuovo, carico della gioia di teneri pianti felici, di genitori emozionati e cuccioli d’uomo che vedevano la luce per la prima volta. Era strano. Per me abituato al dolore e alla morte dei miei pazienti, ritrovarmi in quel posto.
“Andiamo” mi disse l’infermiera di quel giorno “c’è un parto”. E così la seguii come un cucciolo impaurito.
Era la prima volta che assistevo al miracolo della vita, che vedevo nascere una bellissima e sanissima bambina, che sentivo i suoi pianti e vedevo le lacrime di gioia dei neogenitori.
“Sognatore” disse l’infermiera mentre mi porgeva la bimba “tocca a te farle il bagnetto”. E così feci, con quel prezioso fagotto che mi sembrava più prezioso del tesoro dei setti mari, delicato come un calice di cristallo.
Lavo la piccola, le medico il cordone e faccio la profilassi con vitamina K e collirio, faccio gli auguri ai genitori ed esco dalla sala parto. Tremo, non riesco a smettere, sono emozionato. Eppure ormai avevo sviluppato un bel sangue freddo… avevo visto persone aperte come polli nelle sale operatorie, politraumatizzati, ustionati e morti nel pronto soccorso, ma era la prima volta che assistevo di persona a quel miracolo.
Mi metto nella mia stanza, parlo con l’infermiera per un pò. Lei esce un attimo e torna con la piccola nata poco prima
“Sognatore, la mamma è a fare la visita dal ginecologo, guarda la piccola per un’pò io vado dalla capo sala”
Un attimo di panico, io e lei da soli. La guardo nella sua culla, si sveglia e comincia a piangere.
La prendo in braccio, comincio a canticchiare un paio di vecchie canzoni d’amore. La piccola si calma mi sembra quasi di vedere un sorriso abbozzato sulle sue piccole labbra. Sento gli occhi lucidi, a stento riesco a trattenere una lacrima di commozione.
La mamma entra mi vede, mi immagino la scena: un ragazzone di un metro e ottantacinque, taglia 56 di spalle con quell’esserino di due chili e mezzo in braccio. Lei ride
“Sognatore, sei stupendo” mi dice.
Io non rispondo, abbasso lo sguardo e sorrido imbarazzato mentre rimetto la piccola nella culla e la riaffido alla cure della madre.
Sono le otto e mezzo, il mio turno è finito.
La strada è deserta ed il cielo terso e pieno di stelle, mi fermo un attimo a guardarle e le prego di sorridere sempre alla mia piccola assistita.
“Ciao principessa” sussuro “benvenuta in questo mondo”
Mi sento felice, bene come non mi sentivo da tempo ormai. Salgo in macchina e vado a casa, con la consapevolezza che, dentro di me, qualcosa era cambiato e quel perenne senso di solitudine mi aveva, per adesso, abbandonato.

sognatore

Tags:

la maschera

Scritto da Cajus il 01 Agosto, 2009
pensieri / 1 Commento

Quanti anni sono che metto la maschera!
La metto spesso quando cerco nella mia borsa da medico la salute degli altri.
Si, la stessa borsa di vent’anni fa, con lo stesso stetoscopio, lo stesso sfingomanometro dalla pompetta sfiatata, le stesse scatole miracolose, che se non hanno mai ammazzato nessuno, nemmeno l’hanno guarito. Mi hanno svegliato di notte, una persona anziana: venga dottore, mia moglie sta male. Come dire di no ad un vecchio! Venga dottore abito qua vicino, di fronte. Perché chiedere di cosa soffre la moglie? La soluzione al suo malessere non è nella borsa, sta nel fatto che è vicina e non si può dire di no: serve la maschera!

Mi hanno chiamato di giorno. Corra dottore mio padre sta morendo. Corri e mantieni la calma. Ansimi, perché non sei più giovane. Arrivi e le facce sconvolte dei parenti non penetrano i tuoi occhi sfuggenti. Sta morendo di emorragia cerebrale; pace all’anima sua. La borsa non serve, serve la maschera!

Nella casa di Paolo è nato un bimbo. E’ stato cinque giorni in neonatologia e ha fatto tutti gli screening possibili. Devo andare, non posso esimermi dall’andare, ma la borsa la devo portare? Ci penso un attimo: la porto, altrimenti non sono più io. E’ un neonato prepotente, dalla fame incoercibile e dagli occhi che sprizzano salute.
Mi raccontano l’interminabile parto, l’orribile ospedale, le prime notti insonni, mi fanno vedere il colore della cacca, il sederino arrossato, la culla… La loro vita è cambiata. La mia no. A che serve la borsa? Ho la maschera ed è quanto basta.

La strada di campagna dove mi hanno chiamato. Un riccio sbudellato nel mezzo. Ancora una volta ha commesso l’errore di appallottolarsi di fronte ad un nemico che non si ferma davanti ai piccoli aculei. Il povero riccio fa quello che sa fare, che fa da millenni. Non sa, non può sapere, non può fare diversamente.

Continuo ad arricciarmi e continuo a morire. Serve la borsa? No…! La maschera!

Cajus

Tags: