Ottobre – Novembre 2014 Sierra Leone
Scendendo in una strada sterrata che porta al mare si arriva al centro di Emergency di Lakka dove dal 18 settembre è stato aperto il nostro presidio per il trattamento dei pazienti affetti da Ebola. Al momento abbiamo la disponibilità di 20 posti letto suddivisi in 3 tende una di isolamento per i casi sospetti, una di trattamento per i casi accertati e una tenda per i convalescenti. L’attività nel centro di Lakka è frenetica, quasi ogni giorno abbiamo pazienti all’ingresso che aspettano di entrare nel centro, sono portati da parenti o vicini di casa e spesso sono in condizioni molto gravi per lo stato di debolezza generale dovuto alla febbre e alla disidratazione. Altri pazienti ci vengono trasferiti direttamente in ambulanza dal centro di coordinamento nazionale che sceglie i più gravi nei quartieri già sottoposti a cintura sanitaria e li trasferisce dove ci sono posti letto per il trattamento. Capita che alcuni pazienti ci arrivino già morti o in agonia e per loro non ci rimane che l’umana pietà, la comunicazione ai parenti e la custodia del corpo finché le squadre addette non si portino via i cadaveri per la tumulazione secondo le regole sanitarie che devono essere rispettate durante l’epidemia.
La protezione che tutti noi indossiamo per entrare nelle tende, oltre a rendere estremamente difficile la permanenza per il caldo, ci rende impossibile la visita e il contatto fisico con i malati. Dopo i primi giorni in cui il pensiero di ognuno di noi è più focalizzato sulla protezione personale e sulla paura di essere contagiati, ci si comincia a fare l’abitudine, le tute non sembrano più così soffocanti e il malato e la sua cura tornano ad essere il vero motivo per cui siamo qui. La certezza di essere protetti e di rispettare tutte le regole di sicurezza dentro le tende ci rende più tranquilli e la soddisfazione di poter aiutare a bere e mangiare un malato di Ebola diventa una grande emozione. Cominciamo a capire che la cura intensiva per questi malati è la chiave per poter aiutare a sopravvivere il maggior numero di pazienti. L’idratazione endovenosa e il monitoraggio dei parametri vitali sono essenziali per capire cosa succede aldilà di quella rete che ci separa dai malati. Ogni ora in tenda c’è qualcuno: dal personale dedicato all’igiene del malato e alla pulizia della tenda, agli infermieri che prendono i parametri vitali e somministrano la terapia, ai medici che controllano i malati critici. I nostri pazienti non sono lasciati soli in un letto a sperare di sopravvivere ma sono curati e aiutati a vincere la battaglia per la vita. Perché quella contro l’Ebola è una guerra, si combatte contro una malattia che ha varcato già i confini di tre paesi, si è diffusa nelle città con un numero impressionante di 100 nuovi casi al giorno. Dall’inizio della epidemia sono più di 5000 i casi confermati e nella sola Freetown e dintorni le cifre ufficiali parlano di 1500 casi confermati con una mortalità senza trattamento almeno del 70%.
Noi lavoriamo insieme allo staff locale che è la risorsa umana più preziosa e la nostra prima battaglia è stata vincere la loro paura del contatto anche se protetto con il malato. Abbiamo visto crescere in loro l’entusiasmo e la speranza, ora tutti entrano ad orari nelle tende ed è finalmente passato il messaggio che qui si dà ai malati la stessa qualità di cura che daremmo nei paesi occidentali.
Lionel e Christian sono due fratellini di 8 e 10 anni, la madre è morta di Ebola e loro sono stati ricoverati da noi con il padre. Li vediamo migliorare giorno dopo giorno, riacquistare l’appetito, il sorriso e persino la voglia di disegnare. Dopo due settimane prima la sorellina e poi il fratellino escono guariti dal centro e ci chiedono del loro papà che purtroppo non ce l’ha fatta.
Momoh è un bambino di 10 anni, viene portato dall’ambulanza del centro di coordinamento, è accompagnato dalla madre che versa in gravissime condizioni, non facciamo neppure in tempo a metterla in un letto che muore nell’area di triage. Momoh è disidratato, ha la diarrea, il vomito e la febbre alta, piange e chiama la madre di continuo, è uno strazio sentirlo da fuori e non poter fare entrare nessuno della sua famiglia per stargli vicino. Dopo una settimana di flebo, antibiotici, antipiretici il suo fisico comincia a reagire e da allora è una lotta per farlo mangiare, rifiuta qualsiasi cosa e piange, finché con un panino dolce, qualche banana, e i succhi ricomincia con fatica a rialimentarsi. Dopo 10 giorni lo trasferiamo nella tenda dei convalescenti dove lo viziamo anche noi imboccandolo quando potrebbe mangiare da solo. Non chiama più la mamma, è ancora molto debole e si regge a malapena in piedi ma ce l’ha fatta, ha sconfitto la malattia e esce tra gli applausi di tutti ad abbracciare lo zio e la sua nuova famiglia.
Edna è una bellissima bimba di 6 anni che viene portata da noi da una zona già in quarantena, non sembra così grave all’inizio ma gli esami del suo sangue smorzano le nostre speranze, ha una alta carica virale e le sue condizioni precipitano nel giro di 2 giorni, dobbiamo sedarla per poterla reidratare e somministrare la terapia di supporto ma non c’è nulla da fare la malattia ha vinto.
Abdul ha 10 anni ha perso la madre uccisa dall’Ebola e vive con il nonno in un area rurale, il padre non è con lui perché è stato messo in quarantena in un altro centro. Abdul giace disteso e debolissimo davanti al cancello del nostro centro. Viene trattato in maniera intensiva, con idratazione e antipiretici, sembra rispondere bene ma la mattina dopo il suo letto è già vuoto. La rapidità con cui il virus uccide i pazienti ci lascia sgomenti e anche scoraggiati. Ci sono altri bambini che non ce l’hanno fatta nonostante giorni di trattamenti intensivi e li abbiamo visti spegnersi più lentamente come se la malattia consumasse tutte le loro risorse e lasciasse un bozzolo vuoto al posto del corpo.
Aminata è una donna in condizioni critiche, portata da qualcuno davanti al nostro cancello. I parenti e i vicini di casa hanno infatti molto paura di essere messi anche loro in quarantena, per cui appena depositati i malati se ne vanno, verranno poi avvisati in caso si confermi il sospetto di Ebola, anche se spesso il contagio fra loro è già avvenuto. La paziente è molto agitata, si strappa più volte le cannule che le mettiamo in vena per idratarla e cerca più volte di alzarsi dal letto finendo per cadere a terra e riempirsi di sangue, con pazienza gli infermieri la lavano, la rimettono a letto e le somministriamo dei sedativi ma anche lei non ce la fa.
Un giorno ricoveriamo 3 persone che vivono nella stessa casa, la sorella di un paziente morto nel nostro centro e la sua amica con la quale vende il pesce al mercato. Questa ultima viene accompagnata dalla figlia, Fatmata una ragazza di 18 anni che ci dice di avere anche lei i sintomi della malattia. Sono tutte e tre positive per l’Ebola. Dopo i primi giorni di incertezza prendono tutte e le tre la via della guarigione, si fa fatica a tenere la giovane Fatmata nel letto perché appena sta bene, ben cosciente della sua bellezza posa come una modella al di là della grata!
Johnny è un ragazzone di 28 anni alto almeno un metro e ottanta, fa il pescatore, ha tutti i sintomi della malattia e uno stato di severa astenia e disidratazione. Nonostante le cure le sue condizioni rimangono molto gravi, non è in grado né di bere né di mangiare, è debolissimo, non riesce neppure a cambiare di posizione nel letto. Vediamo qualche piccolo miglioramento seguito da segni preoccupanti di sanguinamento gastrointestinale, lo trasfondiamo e lo seguiamo molto preoccupati. Anche per lui però c’è un punto di svolta e finalmente migliora lentamente ma costantemente, comincia a sedersi sul letto e mangiare da solo, l’Ebola è stata vinta.
Iye Kagbo è la nostra eroina, una donna di 74 anni, santona e guaritrice del suo villaggio, dopo aver partecipato a un funerale accusa i sintomi della malattia e viene ricoverata da noi. Le mettiamo le cannule venose e il catetere vescicale e lei si toglie tutto non tanto perché è agitata ma perché non le sopporta. Per ben due volte la troviamo ai piedi del letto, ci dice che è troppo alto per lei e che fa fatica a salirci sopra e poi vuole andare in bagno e che non la secchiamo troppo con le nostre attenzioni, piuttosto, ci ha già detto di avere la congiuntivite se gentilmente le diamo delle goccine per gli occhi tante grazie… Insomma se ce la deve fare ce la farà da sola! E Iye ha ragione, migliora la febbre e la diarrea, la dieta semiliquida che le diamo le piace molto e non le serve che qualcuno la imbocchi: se la mangia da sola la pappa! Dopo 15 giorni esce dal centro guarita con rispetto e onore da parte di tutti noi, non sarà l’Ebola a portarsela via!
Abu Bangura è un giovane ragazzo di 21 anni, di professione giocatore di pallone, viene da noi da solo, dice che non si sente tanto bene e vuole sapere se ha l’Ebola. Ce l’ha e fin da subito ci appare molto grave per i sintomi neurologici e lo stato di agitazione che ci obbligano a sedarlo per poterlo curare. Dopo alcuni giorni sembra migliorare, lo troviamo la mattina seduto sul letto con la bocca piena di dentifricio, ci chiede se possiamo aiutarlo a lavarsi i denti. Va bene, sta migliorando siamo contenti, ha ricominciato anche a bere fin troppo, 10 litri al giorno… e fare le flessioni e le corsette la mattina presto, gli diciamo che non è proprio il caso perché è malato e deve stare a letto soprattutto non deve continuare a rimuoversi tutte le cannule per fare le flessioni. Il suo umore è alle stelle ci batte il cinque quando entriamo in tenda e ci chiama in continuazione per attirare la nostra attenzione. Poi un nuovo peggioramento con deterioramento della funzione renale e insufficienza respiratoria, somministriamo diuretici in alta dose e l’ossigeno, sembra riprendersi ma poi di nuovo febbre altissima, la respirazione sempre più affannosa e nessun miglioramento con l’ossigeno, Abu è in coma, siamo convinti che non passerà la notte. La mattina successiva l’infermiera di guardia ci dice sorridente: Abu ha chiesto la colazione e respira molto meglio! Non ci sembra vero, ma ogni giorno è un passo in più verso la guarigione definitiva e il nostro Abu non è solo un survivor ma un highlander!
In poco più di due mesi nel centro di Emergency a Lakka abbiamo trattato più di 100 pazienti malati di Ebola, queste sono alcune delle loro storie che raccontiamo perché ognuno di loro non sia solo un numero sul libro delle ammissioni ma un volto e una persona che ha il diritto di essere curato con la dignità e la professionalità che ogni paziente merita.
Rachele