Manifesta amicizia

Scritto da manuele il 11 Novembre, 2013
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Sai… in Congo in missione, una notte avevamo finito un intervento. E sono uscito fuori, sudato, ma neanche tanto stanco. Ho guardato in alto, le stelle… Erano grandissime, lucentissime, bellissime.

bellissime è forse un termine scontato ma non saprei dire altro ora. Erano grandi come massi e… lì, davanti a quest’immensità, e al calore di quella notte, ventilata, così piacevole da sentire sul viso, così fresco quel vento; io ho pensato a tutti, dico tutti, i miei veri amici…e come se una immensa forza e una grande luce e spirito provenienti da ciò che stavo ammirando, mi si manifestasse da fuori verso il mio dentro. E che in ogni secondo che piu’ guardavo e ammiravo quel luccioleto infinito tra il nero e il blu lucente, mi stava aprendo qualcosa nella mente….

Si, era la scoperta del vero senso d’Amicizia. L’Amicizia è una cosa potente. Sprigiona un’Energia enorme, potresti morire per essa anche davanti a uno stormo di mille cavalieri inferociti, ma non avresti mai paura, anzi, dentro te per quell’Amicizia diventeresti sorridente nonostante tante fatiche , tanti sforzi, tanto dolore, tanto sudore, tante lacrime, tanti sospiri…

l’Amicizia …una ineguagliabile forma d’Amore… il vero “senza avere nulla in cambio, senza aspettarsi nulla in cambio” .

Quella notte mi mancavano le risate dei miei amici, le loro prese in giro nei miei confronti, i nostri dolori condivisi, i nostri litigi con infiniti abbracci finali. Le nostre bevute e ubriacature di sonno, di divertimenti, di confidenze, di allegria, di tante albe e tramonti, e di giri in moto, di vento tra le braccia, di ricordi di scuola, di pagine di libri, di occhiaie,  di una sorta di stato dell’Anima che fisicamente si può forse paragonare a un piacevole ronzio nel petto che sale verso la gola, che irrora i tuoi occhi… ecco:  avevo scoperto o meglio mi era stata manifestata dal cielo di una notte stellata da non so quale Forza esteriore a me, nella mia Anima, quanto grande significato  e vigore avesse e desse l’Amicizia …. ecco cosa provavo quella notte… quella Notte di Guardia in Africa.

manuele

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Condicio sine qua non

Scritto da diprivan il 24 Ottobre, 2013
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Foto di HA

Foto di HA

Ok…stasera parlo solo di loro. Siamo in tanti, ma stasera ho voglia di parlare solo di loro. Sono la categoria più importante. Voglio dire siamo tutti importanti…ma loro…loro sono davvero speciali. Senza di loro non funzionerebbe nulla e se non ci fossero loro non ci saremmo neanche noi. Sono il nostro biglietto da visita. Sono il tramite, con loro possiamo avvicinarci al dolore…sono loro che toccano, infondono, aspirano, parlano,  lavano, pungono, esplorano l’inesplorabile.

Ogni volta lo ripeto: se fossi stata brava avrei fatto l’infermiera.

Ricordo ancora la prima notte di guardia in rianimazione nelle vesti di specializzanda alle prime armi.

Arrivai con molto anticipo…sufficiente a trovare ancora il turno del giorno. Una di loro, appena varcai la soglia sul retro della terapia intensiva, mi picchiò in mano 5 sacchetti molli di color rosso rubino e urlò “Controlla questo!” Non sapevo neanche di cosa stesse parlando…l’unica cosa che capii era che in mano avevo circa 3litri di sangue e che dovevo fare qualcosa che c’entrava con corrispondenze di numeri e lettere. In quel momento la odiai. Pensai che gli infermieri sono davvero brutte persone e che possono renderti la vita un inferno.

Con gli anni ebbi una smentita ed una conferma: non sono brutte persone ma possono renderti la vita un inferno. Eppure non lo fanno…non tutti almeno.

Subito dopo aver controllato il sangue, il monitor di un letto cominciò a suonare e una donna di 50anni,un po’ in sovrappeso, aveva deciso di morire di embolia polmonare massiva proprio quella notte. Mi ritrovai a guardare negli occhi l’infermiere che massaggiava la donnona e che con un sorriso mi disse “la tua prima notte?…che cu** che hai!”

Pensai che forse non erano tutti stronzi gli infermieri.

Un pomeriggio di qualche mese dopo, con umiltà e senza vergogna, chiesi ad un’infermiera di insegnarmi a fare iniezioni intramuscolo…volevo che i pazienti non sentissero dolore mentre pungevo, anche se raramente i malati della terapia intensiva sentono dolore…appoggiò un cuscino sul davanzale della finestra e prese una siringa e con estrema delicatezza mi chiese di pungere quelle piume e di farlo e rifarlo ancora. La ringrazio ancora.

Pensai che non erano tutti stronzi gli infermieri.

Qualche anno dopo mi ritrovai vestita di arancione in un campo di grano appena tagliato…a pochi metri c’era una macchina ribaltata e al mio fianco una sfortunata signora che credo stesse andando a fare la spesa. Questa volta era un tubo quello che dovevo infilare e il ricordo dell’intramuscolo era poco utile. Presi il laringo in una mano e il tubo nell’altra. La sua voce era ferma: “Stai tranquilla… va tutto bene… ci sono qua io… ora prendi la lama… ecco brava… così…”. Lo ringrazio ancora.

Pensai che gli infermieri non erano stronzi.

Col tempo continuai a parlare con loro e a volte mi sembrava di non capire nulla della loro professione, non capivo quale fosse il limite… dove arrivavo io e dove loro, un limite doveva esserci… ma quale?

Una notte di guardia in centrale provai anche a chiederlo ma fu difficile comprendere la risposta… o almeno non la capii del tutto ma sapevo che avevo accanto tre persone speciali sedute su comode (?) poltrone, pronte a lavorare al mio fianco per un unico scopo e ne ero orgogliosa…ed ogni notte…ed ogni giorno le poltrone rimanevano lì e le facce cambiavano ma la sensazione era la stessa.

Pensai che gli infemieri sono buone persone.

E così arriviamo a qualche giorno fa e mi ritrovo a fare la mia prima guardia in pronto soccorso da sola ma soprattutto con un reperibile lontano… urgenza vascolare… il mio reperibile al telefono che detta ogni singola cosa con precisione… le sacche di sangue… questa volta sono 10 e so controllarle e tutto è difficile e tutto dev’essere veloce e preciso… e come per magia compaiono tre angeli vestiti da infermieri e mi accorgo che ogni mio ordine viene eseguito un istante prima che esca dalla mia bocca.

Ho pensato che gli infermieri sono una meraviglia.

Alcuni li ho odiati. La maggior parte di loro li ho amati. Alcuni li amo ancora.

Riesco a bermi una birra solo con loro. Ed ogni volta mi chiedo perché.

I più bei ricordi con loro? Le risate così forti da coprire le sirene.

I ricordi che non mi lasceranno mai? Le risate che coprono i silenzi, quando le sirene non suonano più.

diprivan

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Se rinasco un’altra volta faccio il rianimatore

Scritto da diprivan il 14 Ottobre, 2013
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foto di EP

foto di EP

Il mio lavoro è il lavoro più bello del mondo.

No. Non è vero.

Il lavoro più bello del mondo è quello che ti fa vivere sereno facendo la cosa che più ti piace e facendoti pagare per farla e lasciandoti tanto libero per fare ciò che ti piace in egual modo.

Forse sì. Il mio lavoro è il lavoro più bello del mondo…se non fosse per quel piccolo dettaglio del farti vivere sereno.

Ci lamentiamo sempre di essere sottopagati…di meritare più di quanto spendiamo in energie mentali e fisiche e in responsabilità.

Ormai non faccio più il rianimatore “da strada” e mi manca l’ossigeno. Mi manca non potermi sporcare le mani. Mi manca il suono delle sirene. Mi manca non poter più condividere con chi sale con me in macchina di essere lì sul posto e di sentire che puoi fare la differenza. Quando sei per strada ci sei tu…e solo tu…e se non fai tu devi fare per forza tu.

Ormai faccio il rianimatore “di centrale” e sto risparmiando un sacco di soldi in benzina che investo puntualmente in pantoprazolo. Devi fare la magia e trasformare il tuo orecchio in un occhio e guardare attraverso la cuffia del telefono cercando, per quanto possibile, di non litigare, di fidarti, di organizzare, di far finta di essere lì anche tu e l’unica cosa che pensi è che vorresti con tutto il cuore sporcarti le mani.

Ormai faccio il rianimatore che porta notizie dal “fronte” pronto soccorso e quando sei lì ci sei tu, il collega più esperto (Dio sia lodato sempre sia lodato), il consulente, l’altro consulente, il tecnico, lo specializzando, l’internista, il medico accettante, ….vado avanti?

Ho capito perché lo faccio…non è vero che siamo sottopagati…sono tutte fregnacce…non c’è prezzo per un lavoro così.

L’unico motivo che mi spinge a farlo è perché lo amo alla follia. Non potrebbe essere altrimenti.

diprivan

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La solitudine del pediatra

Scritto da massimolegnani il 06 Ottobre, 2013
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foto di HA

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L’ospedale è arroccato su uno sperone roccioso che lo innalza sopra la città vecchia, come fosse un castello. Forse per questo, quando faccio il turno di notte, non mi sento diverso da una sentinella di guardia al forte. Stanotte poi, fuori è notte di baldoria. Il carnevale, la musica e le grida salgono fin quassù, a farmi sentire estraneo. Non che se fossi libero andrei in giro in maschera. No, non fa per me travestirmi una volta all’anno, non so ridere a comando e fare il pagliaccio tra la gente. Io mi maschero ogni giorno al chiuso, magliette sciocche e un pupazzo appeso al collo, che poi ai bambini non importa molto, loro il dottore lo fiutano a distanza, anche se fossi nudo con le pinne ai piedi non si farebbero fregare. Mica scemi i bambini, i genitori invece sì, nel senso che loro abboccano alla messa in scena, si sentono tranquilli con uno un po’ coglione che smitizza il ruolo.

Ruolo, collega, senso del dovere, che parole inguardabili! Puzzano di falso ed anche di carogna. Da qualche parte devo averla conservata la lettera del Direttore Sanitario che mi rammenta con un’educazione infastidita che l’unico abbigliamento ammesso in ospedale è costituito da casacca, pantaloni verdi e sopra questi il camice bianco. Bella lettera, in due righe le usa e le ripete tutte, quelle tre parole lì.
E intanto stasera ho già assistito a due parti. Ho finto di essere indispensabile, ma quelli sarebbero nati lo stesso e bene, la mia è una presenza che non aggiunge niente. Come la sentinella al nulla.
E aumentano le grida dalle strade, la città impazza e tra un po’ sarà l’ora degli ubriachi. Arriverà fin qua qualche ragazzetto ancora in età pediatrica alla prima sbronza. Vomiterà anche l’anima mandandoci a fanculo, io ripenserò a mia figlia che c’è passata e mi verrà da ridere a questo loro mostrar muscoli deboli.
Nessuno e niente che mi sappia distrarre dall’attesa, il reparto è in stallo nelle sue piccole sofferenze e ancora non arrivano gli ubriachi.

Io, un caffè, la musica ossessiva, qualche lavoro, aspetto, come la sentinella, che venga giorno.

massimolegnani

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Hänsel & Gretel

Scritto da Labile il 29 Settembre, 2013
cronache / 2 Commenti
Foto di  GN

Foto di GN

Compaiono e scompaiono come figure che escono dai sogni.

Arrivano a sorpresa nelle ore più impensate, non guidano e prendono solo autobus a orari impossibili, quelli da trasporto notturno o quelli della pausa pranzo infinita dei pomeriggi d’estate.

Arrivano sempre accompagnati dai loro abituali problemi, inconfondibili e ormai conosciutissimi.

Di quelli che non capisci mai bene se riguardano la salute del corpo fisico, o di quello mentale o unicamente di quello sociale.

Come Hänsel e Gretel, li immagino così, mano nella mano affiancati nella vita da una fratellanza necessaria e indivisibile, che li porta in Pronto Soccorso con i loro problemi.

Bella allegoria dell’esistenza, povera economicamente ma dignitosa di quella cultura ormai scomparsa, contadini incrollabili di un mondo trascorso che non sopravvive ormai più nemmeno nei film.

Fibrillanti, diabetici e ipertesi, si barcamenano nelle loro giornate piegati alla raccolta di frutti della terra con cui si sostentano, magramente integrati da due misere pensioni sociali.

Di quelle che servono per comprare lampadine da pochi watt, niente frigorifero (“a che serve?”), un solo paio di scarpe, qualche maglietta e pantaloni solo per cambiarsi quando si fa il bucato, casa con poca acqua corrente di quella che basta a lavarsi la faccia.

Il viso che mostrano è quello che confondi spesso, sembrano due gemelli siamesi separati solo nel sesso e da un magro anno di attesa. Oggi quasi identici quando si scambiano i vestiti, o quando li incontro nei pressi della loro casa sul ponte, mentre vado al lavoro e li vedo spingere una  carriola  carica di improbabili cose raccolte qua e la.

Eppure gentili come sanno essere gentili solamente loro,  persone semplici e perfette,  di una condizione mentale ormai rara, la tranquilla pazienza del vivere con quello che si è, immersi nel sole, nell’aria e nella pioggia quando arriva.

Senza lamentazioni da inviare e nessun dio da invocare o da maledire.

Solo a chiedere, quando qualcosa vacilla, un aiuto, “Magari piccolo  per farci passare questo cuore pazzo e questo  rumore nelle orecchie che non ci da pace”.

E poi vanno via, desiderando di andar via, di fuggire quasi furtivi così come sono arrivati.

Svignarsela da questo Pronto Soccorso, per dimenticare di aver bisogno di noi, ringraziando a piene mani, salutandoci come vecchi parenti o almeno sinceri amici e di nuovo avviarsi mano nella mano come i due leggendari fratellini dei Grimm.

“Ah,

cara anatrina,

prendici

sul tuo dorso.”

Udite queste parole, l’anatrina si avvicinò nuotando e trasportò prima Gretel e poi Hänsel dall’altra parte del fiume.

Labile

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Il ragazzo di vent’anni

Scritto da slowlyslowly il 24 Settembre, 2013
poesie / 3 Commenti
Foto di GN

Foto di GN

Il ragazzo

vent’anni

così bianco

mi avevano detto

-guarda oggi c’è un ragazzo di vent’anni-

e così entro nella sua stanza

-lui è così bianco in viso-

è un bellissimo ragazzo,

respira regolarmente

dorme

è sedato

-mi dicono-

ci sono due amici

e la nonna –

lui è così bello

e respira regolarmente

sulla maglietta

come portiamo tutti d’estate

su e giù va il suo respiro

come me ora, in questo momento

che ho anch’io questa maglietta simile

e il mio respiro va su e giù

come il suo ora

-sono entrata

e ho guardato-

mi avevano preparato-

guarda che oggi c’è un ragazzo

giovane di vent’anni-

mi avevano preparato

ma non si è mai preparati

a quello che davvero succede

-è il bello della vita-

è successo

che da lui steso nel letto

che dormiva

con il viso però del dolore

che fortuna sua non provava-

è successo

che da lui

mi è arrivato un gran calore

mi è arrivato al cuore

lo chiamo compassione

ma ne ho avuto paura

abbiamo paura di ciò che ci fa bene-

ho avuto paura d’esserne travolta

forse cambiata

cambiata in meglio

questo è certo-

che l’ho subito frenata,

arrestata

e ho preferito averne paura

e l’ho trasformata in semplice guardare

e chiedere agli amici

volete un pò di thè?

Slowlyslowly

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I tuoi vent’anni

Scritto da slowlyslowly il 22 Settembre, 2013
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Foto di GN

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Se penso a te, ai tuoi vent’anni, alle lacrime dell’infermiera -Ha l’età dei nostri figli- e al non saper che dirle, perdo quel briciolo di fede che ho raccolto come fresca acqua piovana con tanta fatica e così tanto tempo; e tremo all’idea della paura, della tua ragazzo di vent’anni, e della mia.

-Eppure- dice l’infermiera -senza la paura la nostra specie non sarebbe sopravvisuta. Allora perché il buddismo insegna ad eliminarla? Essere inermi di fronte alla nostra morte o, come si usa dire, accettarla o addirittura viverla come il momento supremo di tutta la vita, è essere saggi?

Ci vuole la fede incrollabile, ci vuole un’intera società che pratichi da millenni la fede in un paradiso o in una rinascita, e non questa nostra società che crede solo nella materia e rifiuta lo spirito. Ma poi dopo tanto pensare  a quel ragazzo di vent’anni si è così stanchi, più che altro così stanchi. Stanchi…sì stanchi, che anche la paura o il dubbio o la delusione si sciolgono, almeno per un po’.

Slowlyslowly

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Il silenzio, nuova dimora

Scritto da lunasioux il 22 Settembre, 2013
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foto di MV

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Ricordo ancora come quella parola rimbomba, simile a un’ombra scura nella mente, quando non ti aspetti di sentirla. Il mondo si ferma in un istante. Ancora un altro. Ricordo come sia impossibile dare una forma a quella parola. Allora la ripeto. Ma non cambia nulla. Non ha alcun senso. Ricordo il dolore associato ad essa di tanti piccoli spilli che penetrano ogni parte del corpo e lì si fermano, andando sempre più a fondo ad ogni respiro, e ad ogni pensiero nostalgico.

Ricordo quella parola madida di ferite, vuoti assordanti, logiche incomprensibili, urli soffocati, deliri di dolore, lacrime pungenti, brandelli di cuore. La ripeto, perché fino a un momento fa stavo lavorando, stavo portando a spasso il cane, stavo in viaggio, stavo studiando, leggendo, cantando … e poi tutto si è fermato.

La voragine, il buio, il silenzio eterno.

Dovrò imparare a chiamarla con il suo nome. La ripeto ancora quella parola, eppure non riesco mai a darle una forma. La morte.

Ricordo come sia inevitabile ricordare.

Ripensare ai momenti straordinari passati insieme, scintille di un passato che ora bruciano sulla pelle, perché ogni minuto, ogni giorno, ogni anno la ferita di quella perdita continua ad aprirsi, e la voragine si allarga.

Ricordo le parole di circostanza in quel momento di dolore. Le parole di odio contro u

n dio così ingiusto. Le parole d’amore verso un dio buono che si prenderà cura del nostro angelo. Le parole di chi non sa che dire. E i silenzi di chi perde la voce ed entra in una dimensione di sofferenza lancinante.

Ricordo lo strazio della madre che non si dà pace. Per la seconda volta subisce il taglio del cordone ombelicale che la lega al figlio. Una chiara manifestazione di come la natura cambia il suo corso, inverte i ruoli, fa crollare ogni certezza. Ricordo il silenzio del padre, di un uomo che piange, l’ossimoro struggente della sua fragilità in un corpo forte e muscoloso.

Ricordo come il tempo non aiuta, come ognuno cerca disperatamente una strada per poter andare avanti, come certi giorni siano più difficili di altri, come un semplice profumo possa a volte far risplendere la presenza di un’assenza.

Ricordo la gioia di chi cerca di guarire quella ferita con una cosa sola: l’amore. Di chi accoglie quel dolore e lo trasforma in un vortice di energia, creando, danzando con la vita, cantando, suonando, scrivendo. Un inno d’amore che squarcia le pareti della solitudine, dl vuoto, del rancore, dell’odio.

Ricordo che è come perdere una parte di se stessi. Non muore solo un volto, un sorriso, un corpo. Muoiono anche l’abbraccio, il giro in moto, la passeggiata al mare, i baci, le litigate, i pomeriggi di studio, le sciate in montagna, i consigli, le ramanzine, le serate al pub, i viaggi.

Muore un mondo che piano implode nel ricordo.

Rimane tutto lì, in un pensiero, quando si guarda una vecchia foto e si ride nel pianto.

Lunasioux

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Volevo scendere…

Scritto da Ultiva il 15 Settembre, 2013
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Foto di GN

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Ciao M, ciao L,

in voi rivedo me appena approdato all’emergenza-urgenza.

Prima della laurea, come voi due, facevo il volontario in ambulanza. Come voi.

Vedevo il 118 come il premio dei miei sforzi, come la destinazione finale, la sublimazione di un desiderio. Ai miei tempi, 10 anni fa, c’era Siro che drenava toraci, si destreggiava tra il betabloccante ed il calcioantagonista. C’era Giorgio, che intubava a testa in giù e senza laringoscopio. C’era Johnny (non mi ricordo mai come si scrive), che dietro al sorriso a 42 denti nascondeva l’Harrison. C’erano Maurizio, Carlo, Lorenza…. che trattavano i Pazienti per quello che avevano bisogno: non avevano paura di accedere chirurgicamente alla via aerea, non avevano paura di un alti flussi e quando si usciva in automedica o in elicottero si era sicuri del risultato. Sembrava un’orchestra, magistralmente condotta.

Quando è arrivato il mio momento, la mia possibilità di salire sull’elicottero e di fare territorio non stavo più nella pelle: si avverava un sogno.

Poi, il tempo.

I protocolli, la standardizzazione (sarebbe meglio dire la spianata verso il basso). La rabbia di non poter fare. Lo zaino che si svuota (sempre meno farmaci, sempre meno presidi: quando si vola bisogna stare leggeri), le uscite sempre meno meritevoli di una medicalizzazione. Le manovre che si riducono (il 20 di frequenza è meglio che lo veda il cardiologo, se l’emodinamica è stabile…).

La medicina non può essere ridotta ad un libro di ricette di Nonna Papera. La medicina non è matematica, è variabile, è fiuto, è conoscenza, è interpretazione.

Gli infermieri che prima intubavano, adesso usano per forza la maschera laringea. Non è quello che serve al Paziente ma è quello che passa il sistema (sia chiaro, intubando 20 volte in sala ORL impara chiunque).

E adesso, voi, poco più che girata la boa dei 27, volete andare sul territorio, ancora convinti che sia stimolante, che sia formativo, che serva a qualcosa.

Ed io che vi guardo, non parlo, non voglio tarpare le vostre ali e il vostro desiderio, dovete essere liberi di scegliere…. Ma no, non ce la faccio, non posso stare zitto. Almeno qualcosa, almeno su un blog lo devo dire.

Rimanete dove siete, continuate a fare quello che fate. Siete speciali, siete mitici. Sapete essere duri come l’acciaio e teneri come nessun altro. Siete due ottimi professionisti.

VI ho allevati entrambi da quando vi siete laureati, non standardizzatevi, non appiattitevi. Sul territorio non c’è più spazio, non si impara più, non si può più dare tutto. Non si può tornare a casa la sera con la consapevolezza di avere fatto tutto ciò che si poteva e che era necessario.

Non voglio, non vorrei, che questo tarlo divorasse anche voi. Vorrei proteggervi, ma non so da che parte iniziare.

Quando sono salito sull’elicottero la prima volta mi sembrava un sogno, una cosa meravigliosa, quanto di meglio mi sarei potuto aspettare dalla vita professionale. Ed era così. Ma era dieci anni fa.

Ieri, volevo scendere.

Vi auguro tutta la felicità e di trovare la vostra strada.

Con affetto

Ultiva

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Ma tu non hai le ali?

Scritto da Ungiovanequasiinfermiere il 05 Settembre, 2013
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foto di RR

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Nevicava quel giorno. Anzi aveva già nevicato tutta la notte prima. I campi erano coperti, così come i tetti, i rami, i lampioni, le macchine pargheggiate. Quel giorno la sveglia suonò alla solita ora. 6.05. Con una forza di volontà mai usata prima si alzò da quel letto che ormai vedeva sempre più come un miraggio lontano. Avrebbe voluto andare in letargo. Per un mese non preoccuparsi più di nulla, ne di esami nè di ospedale, nè di lezioni, nè di amore nè di morte. Di nulla voleva solo dormire. Si accorse della neve e sbuffò consapevole che sarebbe arrivata tardi perchè quando nevica la gente in strada diventa ancora più stupida e goffa. Buttarsi sotto il getto caldo della doccia, prendere una tuta dall’ armadio, riempire la borsa, fare colazione, erano diventate ormai gesti abitudinari in questo mese.
Anche la macchina era più stanca del solito. Metterla in moto fu un’impresa. E sbuffò ancora. Era il 21 dicembre. Stava per finire questo mese nel reparto più brutto a suo parere dell’ Ospedale. Dopo aver parcheggiato, senza trovare strani intoppi per la strada (anche lei si meravigliò) , salì al nono piano per cambiarsi. Stranamente era sola. Non c’era nessuno in spogliatoio. Le altre ragazze forse avevano avuto notte ed erano ancora in reparto. Indossò la divisa bianca, gli zoccoli bianchi e legò la sua chioma bionda con un nastrino bianco. Guardò fuori dalla finestra e continuava a nevicare. Salutò un suo compagno di corso, il quale non le andava molto a genio, ma in mancanza di contatti umani in quella mattina bianca, troppo bianca per lei, sembrava quasi simpatico. Fece un piano di scale e pensò che finalmente domani avrebbe potuto dormire. L’albero di Natale nell’atrio del reparto emanava piccole luci soffuse; neanche quello poteva farla un po’ gioire in quella giornata bianca. Si era forse anche dimenticata del Natale. Entrando in centralina la sua assistente le ricordò che oggi avrebbe dovuto avere la valutazione finale. Ma a lei non importava molto, si era rassegnata, faceva le cose in modo perfetto, parlava con i pazienti, rispettava tutti gli orari, ma dentro era come se stesse pian piano distruggendo la sua consapevolezza di voler diventare infermiera. C’erano stati nuovi ingressi il pomeriggio precedente, un signore sulla sessantina e una bambina di 4 anni. Andavano fatti dei prelievi subito, per mandarli con le analisi del mattino. Prese con sè il materiale e si avviò verso la camera della bambina. Appena entrata, notò le tende spalancate che mostravano una città bianca, completamente bianca. Sbuffò ancora poichè si era dimenticata di prendere il laccio emostatico. Una volta preso, rientrando nella stanza, notò che la madre della bambina si era svegliata. Stava lì accanto al letto con delle occhiaie gigantesche, ma le sorrise. Malgrado tutto. Quella bambina non era grave ma doveva subire un operazione delicata alle orecchie. La madre la svegliò con fatica. La piccola con i suoi occhi di quel nero profondo come il cielo, dopo esserseli stropicciati per bene si svegliò. Lei dava le spalle alla finestra e con in mano l’arcella e gli aghi rimase lì in attesa del risveglio di quella bambina. Provava tenerezza per quella scena. La prima bella e vera del suo tirocinio. Ma la stanchezza ammazzava anche quei sentimenti. Quando all’improvviso la bambina alzò il capo e la vide non si trattenne dall’esclamare: “Ma tu non hai le ali?”. Rimase di sasso. Le ali? cosa c’entravano le ali? Ok sei una bambina appena svegliata ma perchè mi devi chiedere se ho le ali? “Tu le ali le devi avere. Sei tutta bianca e sei scesa insieme alla neve. Tu sei un Angelo” Le venne la pelle d’oca, la gola si seccò, si sentì un forte peso a livello dello stomaco. Nessuno le aveva mai detto una cosa del genere. O almeno non così. Qualche anziana nel suo delirio da farmaci le aveva detto che assomigliava ad un angelo ma lei aveva sorriso e basta. Questa volta era diverso. Questa volta era stato mosso il cuore. Il suo cuore congelato dalla tristezza e dalla insoddisfazione. Il suo cuore si era sciolto mentre la neve scendeva. Si era sciolto grazie a quella neve che lei non capiva e non desiderava. Si era sciolto grazie a quella bambina. Sbuffò. Ma non come le prime tre volte in questa giornata. In quel momento tirò fuori tutta la sua stanchezza, la tristezza, i problemi, le preoccupazioni. Uscì dal letargo prima ancora di entrarci. Si sentiva viva e forse più di prima. Prese la farfallina e incominciò a preparasi per il prelievo. Ormai era un Angelo. E si sentiva le ali. Bianche. Come la neve.

Ungiovanequasiinfermiere

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