Tramonto d’autunno

Scritto da Il Gatto e la Volpe il 03 Novembre, 2012
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foto di MV

Passando davanti alla finestra riguardò la panchina. Tante volte aveva fatto quel percorso per andare a far pranzo, con la sua andatura, sempre la stessa. Alcuni giorni erano stati più felici, altri più noiosi ma uno sguardo a quel giardino le aveva sempre regalato un istante di intensa emozione. Da lì osservava il susseguirsi delle stagioni e non poteva smettere di stupirsi della magia offerta dalla natura. Riflettè per un momento senza fermarsi ma non ricordava quanti anni fossero trascorsi da quando era passata da lì la prima volta. Eppure il giardino oggi le sembrava diverso. Non aveva mai notato quel cespuglio di lavanda che cresceva lì, vicino a dov’era appena stata seduta. Le venne un brivido, sicuramente era colpa dell’aria fresca che entrava dalla finestra.

Il menù oggi offriva il risotto con zucchine. Le piacevano le verdure di stagione e si accomodò al tavolo come ogni giorno. Ebbe un’esitazione e poi si girò. Sapeva che avrebbe incontrato il suo sguardo. Lui stava alzando il bicchiere nella sua direzione come per fare un brindisi. “Cin cin” rispose e ridendo tornò al suo pranzo.

Mangiò di gusto. La vita offriva ancora dei momenti di piacere e lei sapeva coglierli. Era una persona solare, con il sorriso e lo scherzo sempre pronto. Ma quella situazione non l’aveva proprio immaginata. Adorava stare al sole. Tutti le dicevano che doveva proteggersi ma il suo colorito rivelava le ore trascorse sul terrazzo negli ultimi tre mesi. Sapeva che quell’abbronzatura le donava e metteva in risalto la sua pettinatura. Ma non aveva più pensato che un uomo potesse essere interessato a lei.

Da parecchi anni era rimasta vedova. Sola nella sua casa aveva vissuto di ricordi e piccoli impegni quotidiani. Poi i familiari le avevano proposto quel soggiorno estivo. Sapeva che avrebbe dovuto decidere se la casa di riposo era il posto dove voleva trascorrere il tempo che ancora le rimaneva. Si era trovata bene. Era una persona socievole e la compagnia degli altri ospiti e le attenzioni degli operatori erano state gradite da subito. Le amiche più perfide il giorno della sua partenza l’avevano salutata con compassione. Ora avrebbe voluto mostrar loro il mazzo di rose e lavanda messo in bella mostra sul suo comodino.

“Ciao ciao” disse alla sua vicina di letto entrando nella stanza. Era il suo modo di salutare dei giorni felici. Sorrise. Quella mano appoggiata sulla sua le aveva dato una vera felicità. Sorrise ancora e dentro di sè ringraziò. Ora sapeva che il cuore funzionava ancora, anche se aveva superato gli ottanta.

Si coricò per il riposo pomeridiano e chiudendo gli occhi pensò che anche le cose belle stancano. Aveva vissuto tante esperienze ma la vita nasconde sempre delle sorprese. Il profumo dei fiori le allietava il riposo.

Quando si alzò si diresse allo specchio. I capelli bianchi erano lucenti e con la pinzetta aggiustò le sopraciglia. Ogni giorno le controllava. Sapeva che questi dettagli erano una coccola che regalava a sé stessa. Lui bussò alla porta lei lentamente e con gentilezza lo accompagnò alla poltrona. Questo era il bello dell’età matura. Poter fare entrare un uomo nella sua stanza con disinvoltura. Stavano per ore ad ascoltar musica e a chiacchierare. Era stato spontaneo e naturale. Per mesi non aveva notato che il tempo trascorso con lui era sempre maggiore. Le prime partite a carte, la festa dei compleanni seduti vicino, le gite all’agriturismo trascorse a ridere insieme. Aveva bisogno di aiuto per poter passeggiare in giardino e sempre più sovente era stato lui il suo accompagnatore. Giorno dopo giorno avevano allungato il tragitto fino a quando avevano preso l’abitudine di riposare su quella panchina per poi ripartire. Trascorrevano ore all’aperto. Lui non amava il sole ma la panchina era metà all’ombra. Non sempre parlavano, ma la compagnia l’uno dell’altro bastava. E poi erano iniziate dolcemente quelle piccole attenzioni. Non la facevano sentire più giovane. Non lo desiderava neanche. Ma davano sapore alle giornate; assaporava ognuno di quei gesti che le venivano offerti; erano un dono che non aspettava più.

Oggi lui era stanco perché quella notte non aveva riposato bene. Forse il caldo, forse aveva mangiato troppo la sera prima. Lei gli passò il succo di frutta che le avevano portato per distogliere l’attenzione dai suoi malanni. Avevano un’oretta di tempo prima della tombola tutti insieme. Non era il caso di uscire in giardino, lui avrebbe sofferto il caldo. Decisero di riposare un po’, lui con la visiera del berretto calata sugli occhi e lei accomodata dolcemente sul terrazzo. Il bello di questa relazione. Un rapporto senza diritti né doveri, senza gelosie o compromessi, in cui ognuno era libero di esprimere sé stesso nelle proprie fragilità dell’età avanzata con il piacere di sentirsi vivo.

Oggi erano particolarmente fortunati; la loro cartella aveva già vinto l’ambo e la tombola aveva regalato loro un pacco di biscotti cucinati dagli altri ospiti il giorno precedente. Lei era golosa, e bastò uno sguardo perché lui capisse che la panchina poteva accoglierli per la merenda.

Il sole d’agosto era ancora alto, ma l’aria era fresca e l’erba appena tagliata profumava il giardino.

Solo una volta lei aveva avuto timore. Per fortuna i suoi familiari avevano da subito capito che i sentimenti la mantenevano serena e che la compagnia di un uomo rassicurava e riempiva le giornate di una donna anziana ma ancora ricca di vitalità.

La cena fu frugale. Non le piaceva andare a letto dopo un pasto abbondante. Si mangiava piuttosto presto, ma durante l’estate apprezzava quest’orario: c’erano ancora alcune ore di luce che le permettevano di leggere e preparare i maglioncini che in inverno avrebbero riscaldato i suoi pronipoti. Si accomodo nel letto con la testiera alzata. Poi chiese gentilmente alla vicina di letto, che aveva meno difficoltà di deambulazione, di socchiuder le tende della finestra. Indossò gli occhiali scuri perché i raggi del sole non la infastidissero e lasciò libero lo sguardo. Con un po’ di fatica si sistemò i cuscini e si lasciò cullare dai pensieri che affioravano nella sua mente, affascinata dal tramonto che alleggeriva e addolciva l’autunno della sua vita. Per un attimo si voltò. Sì, la porta era socchiusa, sapeva che lui sarebbe ancora passato per augurarle la buonanotte e sorseggiare la tisana insieme.

Il Gatto e la Volpe

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La stanza di luce

Scritto da slowlyslowly il 24 Ottobre, 2012
poesie / Nessun Commento
foto di MV

foto di MV

C’è una stanza

che dà luce a tutte le altre-

la vedi da lontano

attrae e respinge

alcuni intimidisce-

c’è una soglia sottile da attraversare-

é il mare del dolore

da percorrere a nuoto

a lunghe bracciate lente-

la soglia è questo mare

va dal corridoio alla stanza di luce-

lì il tè non è tè,

i camici non sono camici,

i dolci splendono

perché non sono i dolci-

sono una mano che si sporge

verso un’altra mano

da persona a persona-

il braccio che s’allunga

anche quello è un mare da percorrere

a lunghe bracciate lente-

la vita è un soffio

va e viene,

va e viene-

la donna anziana,

gli occhi splendono con o senza dolore

un lembo di lenzuolo

così candido, così candido

che liscia con mano esperta

con cui copre le proprie gambe

come fossero quelle di una figlia

di un bambino, di un marito

di cui prendersi cura

slowlyslowly

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Cosa vuoi fare da grande?

Scritto da Marianna il 16 Ottobre, 2012
emozioni, testimonianze / 2 Commenti

foto di NC

A  cinque anni, quando mi chiedevano cosa volessi fare da grande rispondevo sicura: “l’astronauta!”. Trovavo meraviglioso che un uomo potesse “volare”, indossare tutoni metallizzati e camminare tra le stelle.

Poi sono cresciuta e finito il liceo, non avevo più le idee così chiare. Cosa avrei fatto da grande? Non riuscendo a trovare risposta tra il caos che avevo in testa, mi affidai a Internet e navigando senza rotta, trovai finalmente qualcosa che suscitò in me una qualche curiosità.

Per caso trovai il bando di concorso per le professioni sanitarie.

Per caso trovai la strada per arrivare a fare i test.

Per caso risultai vincitrice tra le centinaia di persone che avevano provato.

E mo’ che faccio? Io che svengo alla sola vista del sangue mi vado a chiudere in un ospedale? Io che tremo al solo pensiero di vedere un medico? No, no, lasciamo stare!

Alla fine però, non andò esattamente così.

Non so per quale motivo mi iscrissi. Inconsciamente forse, era la cosa che davvero desideravo fare o semplicemente era solo un dispetto che facevo a me stessa, per mettermi alla prova, per capire dove realmente arrivassero i miei limiti.

Mi ritrovai catapultata in un posto che pensavo non adatto a me.

Passino le giornate intere di corsi, passi la fisica, la statistica e le leggi da imparare, ma c’era sempre l’ostacolo più grande da superare: l’ospedale.

Da sempre l’avevo visto come un luogo dove le persone soffrono, combattono, e muoiono. Non immaginavo l’altro lato della medaglia, il lato buono, quel lato di cui nessuno parla, che si dà così tanto per scontato da essere ignorato.

“E ho visto in sala parto la potenza delle cose”, un’esplosione di luce fuoriuscire da grembi gonfi di donne sfinite che ti emoziona tanto da farti svenire.

E ho visto esserini di 500 grammi attaccarsi alla vita e non volerla abbandonare, lacrime di gioia dei neogenitori che portavano a casa dopo mesi i loro pargoletti che erano già abbastanza grandi per sorridere.

Ho visto anche la morte, quella aspettata, da alcuni sperata e quella che si presenta all’improvviso lasciandoti senza fiato. Ho visto gli sguardi complici, quelli cattivi, ho sentito caldi abbracci e parole di affetto.

Ho imparato a convivere con una divisa informe, una cuffietta che schiaccia i capelli, campanelli e allarmi nelle orecchie e mani screpolate da eccessivi lavaggi.

Ho quasi finito il mio corso di laurea.

Oggi quando mi chiedono cosa voglio fare da grande rispondo sicura: “l’infermiera pediatrica”.

Marianna

Il saluto

Scritto da Sugar il 12 Ottobre, 2012
emozioni / 2 Commenti

foto di EP

foto di EP

Ieri sono passata a salutarti.

Mi è mancato il tuo sorriso, volevo vederti, l’ultima volta. La sera prima ti ho detto “ci vediamo domani”, ma forse già sapevo non sarebbe stato così. Forse anche tu. Nelle ultime ore troppa fatica, anche solo per parlare. Ma quanto difficile per te il silenzio, un filo di voce “ho capito..” e io: “che cosa?” “ho capito quello che succede”.

Forse aspettavi da me una conferma, ma io temevo la tua consapevolezza. E poi ancora un tuo sorriso per rassicurare gli altri che tutto andava bene. Andava.

Ogni volta entrare nella tua stanza era un momento speciale, un momento solo per noi. Una chiacchierata, un sorriso, un cioccolatino e poi mi invitavi a continuare il mio lavoro perché non volevi farmi perdere tempo. Il mio tempo non era perso. Il mio lavoro è anche questo.

Grazie

Sugar

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Non c’è differenza

Scritto da Magamagò il 02 Ottobre, 2012
emozioni / 4 Commenti
foto di EP

foto di EP

Ti ho curato, ho cercato di curarti il corpo, e tu mi aiutavi a riscoprire la tua anima, la tua essenza; ho riscoperto chi mi stava intorno, filtrati attraverso te che avevi la saggezza di una vita vissuta a lungo e totalmente. E ho riscoperto me stessa, nelle parti simili a te e in quelle comunque derivanti da te. Mi sono arrabbiata con te … no, non con te ma con la malattia che mi impediva di assaporare i momenti belli vicino a te.

Quanta rabbia avevo all’inizio: mi sfuggivi dalle mani e non riuscivo a trattenerti, quanto tempo ho perso,quanto …

Poi ho capito, mi hai fatto capire che bastavi tu a lottare, e che io dovevo essere al tuo fianco e basta.

Sono anche scappata, quando l’angoscia era troppo forte, e tu lo sai, ma poi ritornavo perchè tanto eri comunque con me, dentro di me.

Chi era il malato e chi era il guaritore? Più io malata per non aver capito il ciclo naturale della vita, e che tu invece in questi mesi mi insegnavi ad accettare, come quando mi hai detto, quell’ultima mattina : “Non ce la faccio più “.

E’ questa la morte? Averti sempre di più vicino, nel cuore? Ben venga allora, ma che fatica dirlo !!

(dedicato ad un paziente coi capelli bianchi in Rianimazione che mi ricordava papà morto da poco )

MAGAMAGO’

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Il nostro caro Francesco

Scritto da folfox4 il 14 Settembre, 2012
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foto di H. Cartier-Bresson

foto di H. Cartier-Bresson

E’ l’ultima continuità. L’ultimo giorno.

Poi vado in pensione.

E’ il loro unico figlio. Impiegato in uno dei tanti ministeri romani. Da trent’anni per lo meno. Non si è mai sposato. Ha sempre vissuto con loro. Una casa piccola, sull’ardeatina.

Ora potrebbe anche morire. Precedendoli.

Prima di uscire a dirgli del “nostro caro Francesco”, li guardo dal vetro.

Stanno seduti, appoggiati al muro. Sono molto vecchi.

Lo sguardo lontano.

Frugo nella memoria. Dove li ho visti? Chi me li ha fatti già vedere?

Eppure li conosco già. Non perché ho parlato con loro tutta la settimana.

Perché erano già entrati dentro di me in un tempo precedente. Quando? Già, quando …

“Credo che siano in pantofole. Non con le scarpe, hanno messo le pantofole per venire tutti e due; lei e lui, sono venuti in pantofole, le stesse, di feltro grigio o marrone, chissà.

E per il fiume cui danno le spalle, come talvolta si danno le spalle quando non funziona niente, non può veramente funzionare, hanno un’aria triste e preoccupata, a meno che lui non sia solo stanco, si potrebbe dire amareggiato, non inventeremmo niente dicendo amareggiato. Vedendo tutto quel grigio, si direbbe che sia arrivato l’autunno, cioè tra un po’ inverno, tra un po’ è inverno, sull’albero resta ancora qualche foglia. Potrebbe anche essere la fine dell’inverno, quando l’aria si stempera, e si dice che sarebbe bello uscire e prendere un po’ d’aria dolce, sì, potrebbe essere la fine dell’inverno ed è rimasta qualche foglia sull’albero come talvolta resta nell’inverno. Non c’è nemmeno il sole e nessuna ombra da cercare, tepore, una dolce luce sotto le fronde, non è per la luce o l’ombra che ci troviamo qui. È per l’albero malgrado tutto, c’è l’albero accogliente e ci appoggiamo su di lui. Ci appoggiamo. Sì forse è quello che dicono, non fa tanto caldo, ecco perché hanno fatto bene a mettere il cappotto, forse è proprio quello che hanno detto, chissà, ora tacciono, non c’è né sole né ombra, non fa molto caldo, ma c’è l’albero, verticale, accogliente, con la corteccia grossa e rude.

Vengono a guardare e a prendere l’aria del fiume. Le sponde, i cantieri, i battelli che non sono distanti, si può supporre. E poi il ponte. Il ponte di ferro al posto dell’altro, distrutto forse non tanto tempo prima, forse hanno parlato dell’altro ponte, quello di prima di cui si ricordano, di tutte le cose di cui si ricordano, forse vengono qui dov’era il vecchio ponte, dove un tempo – quando venivano con le scarpe, quando non andavano così in pantofole – il ponte di pietra o un altro, chissà non si sa da quanto tempo si trova lì il ponte di ferro, non si sa da quanto tempo ora stanno zitti, guardano dall’altra parte, dall’altra parte c’è qualcosa che guardano, cosa non si sa, forse anche insieme non guardano nulla. Forse semplicemente si voltano, sì, forse si voltano, non si sa da quanto tempo, tutto quello che sappiamo è che sono qui nell’immagine, che possono trovarsi solo qui a guardare altrove.”

 

Folfox4

 

Passi perduti

Scritto da Giramondo il 01 Settembre, 2012
pensieri / 2 Commenti
foto di DB

foto di DB

L’arredamento e’ piuttosto spartano: uno o due tavolini, alcune sedie, il computer o il registro per scrivere gli interventi.

In ogni blocco operatorio c’e’ sempre un corridoio; in genere unisce i lavandini, dove strumentisti e chirurghi si lavano le mani prima degli interventi, con la camera operatoria vera e propria.

E poi piastrelle sul pavimento e le immancabili lampade al neon con la loro luce pallida e gelida.

Rumori di monitor e di strumenti chirurgici.

Anche in questo ospedale c’e’ un corridoio che unisce le sale operatorie.

L’ospedale dove lavoro in questi mesi si trova piantato in un paese nel mezzo dell’Asia, in una Nazione dove e’ stata esportata “la democrazia” senza che nessuno lo richiedesse e con un risultato penoso ( letteralmente, penoso…).

In questo corridoio si mischiano i passi di anestesisti e chirurghi provenienti da diverse parti del mondo con i passi degli infermieri locali.

Non sempre questi passi hanno una meta.

I passi dei chirurghi, per esempio ( ed io sono uno di quelli ).

Li vedi che camminano avanti e indietro, tra un intervento e l’altro, mani dietro la schiena.

Sguardo a volte assente, a volte attento a cogliere eventuali segnali anomali provenienti dalle sale operatorie.

Avanti e indietro, per sciogliere un po’ le gambe e la tensione dalle ore spese fermi in piedi al tavolo operatorio.

Passi senza meta, passi perduti.

Passi per pensare.

Pensare al Paziente che ho appena operato per una ferita da arma da fuoco toraco-addominale: ho fatto tutto secondo i sacri testi di chirurgia; adesso pero’ serve soprattutto un aiuto di Dio, che qui viene chiamato con un altro nome.

E in questo ospedale, a diecimila chilometri da dove sono nato e cresciuto, questi passi servono anche per pensare a casa.

Pensare ai miei Genitori che invece di avere il conforto di un figlio vicino hanno lo sconforto di avere una persona lontana che lavora in una zona non certo tranquilla.

Pensare a mio fratello ed alla sua stupenda famiglia con due bambini.

Pensare ai miei amici, da quanti anni li conosco ( alcuni da tutta la vita ), e a come mi piacerebbe prendere con loro una birra stasera, seduti ad uno dei tavolini all’aperto di uno dei locali della nostra citta’.

Pensare a lei, che vedo al monitor del computer alla sera ( se c’e’ elettricita’, e fuso orario permettendo ). Lei che vorrei avere vicino per parlare e condividere le gioie e gli sconforti di questo lavoro. Lei che ha capelli ed occhi nerissimi, pelle liscia e mulatta.

Lei che e’ piccola di statura ma e’ una grande donna.

Lei che mi capisce perche’ lavora in un reparto di terapia intensiva.

Ma il suo reparto, e la sua vita, sono in Italia…

” Doctor come please, next Patient is ready in room 2 “

” I’m coming…”

Mi dirigo verso i lavandini per il “rito” del lavaggio delle mani.

I miei gesti ed i miei pensieri adesso sono solo per lo sfortunato disteso sul lettino operatorio.

I miei passi si dirigono verso la sala operatoria numero 2.

Giramondo

Parenti

Scritto da zarianto il 09 Agosto, 2012
emozioni / 1 Commento
foto di EP

foto di EP

Nel tepore autunnale di una sera di Ottobre, quando la notte, avida di tempo, anticipa sensibilmente la sua immanenza e i lampioni tratteggiano profili urbani dai contorni assai familiari, mi avvio sul vecchio sentiero, cosparso di foglie secche, mentre una Luna curiosa e impaziente si affaccia tra i rami, quasi ormai spogli.  Mi dirigo verso l’ultima notte di guardia, in terapia
intensiva pediatrica, poiché da domani lavorerò altrove, più lontano, ben oltre il sentiero, in un luogo non raggiungibile a piedi: tornerò ad occuparmi di adulti.  Si tratta di una scelta professionale, del tutto priva di contenuti affettivi.
Così, incedo più lentamente del solito, nel tentativo di catturare ogni istante, ogni immagine, ogni profumo del cammino che tutti i giorni, per anni, attraverso la poesia del parco fluviale, mi aveva condotto dai miei piccoli e tanto amabili pazienti.  Assaporo quei momenti come fossero le ultime boccate del fumatore o l’ultimo bicchiere del bevitore e con quei gusti, che già sono ricordi, nel palato, mi ritrovo in reparto, dove le voci del personale e i suoni dei monitors mi catapultano nella realtà lavorativa, proprio al termine dell’orario di visita dei parenti, che coincide con il cambio di turno.
Indossata la divisa verde, raggiungo il collega pomeridiano che colloquia coi parenti: la piccola rianimazione che, in presenza dei soli pazienti assume dimensioni apparentemente normali, si ritrae decisamente, quando viene occupata anche dal personale e dai visitatori, tanto che, da un capo della stanza si percepiscono distintamente le parole pronunciate all’altro!
Vengo presentato a una coppia di genitori che ancora non conosco, ma che ricorderò a lungo, poiché mai nel corso di una vita, finora, mi sono sentito così piccino!  Come posso dimenticare la gioia e la felicità di quel padre, la luce emanata dallo sguardo che fende le lenti degli occhiali e mi travolge d’imbarazzo?  E il sorriso commosso di soddisfazione e speranza della madre?
Entrambi per l’ottenimento…dell’adozione!
Si tratta, in effetti, dei nuovi genitori di  un piccolo paziente, un infante portatore di sindrome di Down, ricoverato in terapia intensiva a seguito di un intervento correttivo di malformazione connatale, abbandonato appena dopo la,nascita.  Mi raccontano di un figlio più grande, anch’egli adottivo, paraplegico perché colpito da una neuropatia congenita, che brama di conoscere il nuovo fratellino e che pertanto verrà presto a fargli visita.  Mi congedo con una vigorosa e rispettosa stretta di mano e sorvolo sul mio trasferimento,
attonito per l’esistenza di un tale coraggio e per una capacità di amare così intensa, prorompente e incondizionata (sicuramente immaginabile, ma quanto realistica, invero?) e al cui cospetto…mi pare di svanire!
Terminato il giro-visite, consumati alcuni dolcetti d’addio col personale, raggiungo lo studio del medico di guardia, dove trascorrerò l’ultima notte, insonne, riflettendo poco sul futuro, ma molto… sul passato!

Zarianto

Impressioni da là dentro

Scritto da fantasia il 08 Luglio, 2012
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foto di HA

foto di HA

A volte mi domando dove sia e se esista un limite per l’animo umano. Si toccano punte di grande nobiltà e abissi di tremenda nefandezza. A volte si alternano l’uno e l’altro aspetto. Le notti di guardia trascorse all’interno del carcere sono un viaggio vertiginoso all’interno dell’animo umano. Ho attraversato quei corridoi bui e umidi come se stessi attraversando io stessa la privazione della libertà, della privacy, della sicurezza, degli affetti, il tempo è vuoto come l’ultima bottiglia che ha portato alcuni di loro a commettere il “fattaccio”. E di notte tutto è silenzio. Un silenzio assurdo, irreale, un silenzio pieno di ciò che accade dietro il blindo di ogni cella, e che lì rimarrà anche il giorno dopo, e quello dopo ancora, e ancora, e ancora, e per sempre. Un silenzio che si appiccica sulla pelle come sudore marcio e che non riesco mai a scrollarmi di dosso anche quando chiusa nella mia piccola infermeria mi concedo il lusso di un po’ di musica tenuta bassa.

Ma il silenzio non sempre dura tutta la notte.

A volte un telefono inizia a suonare insistentemente con quel trillo (ma chi l’ha scelto?) che sembra voler sottolineare con quel tono acuto e stridulo la necessità assoluta che qualcuno alzi la cornetta, e quel qualcuno posso essere soltanto io. Di notte ci sono soltanto io al maschile, a vegliare su 800 anime perdute. A sperare che non succeda più di una cosa alla volta, altrimenti sono fottuta! Poi certo, c’è il medico di guardia, ma lui interviene solo in casi di gravità assoluta. Sono sola, e il telefono sta squillando.

-Pronto?-

-Ciao infermiera, devi venire al reparto penale, un detenuto si è tagliato-

Click.. Conversazione finita, non ho altre informazioni. E la dicitura “si è tagliato” non è mai riferita ad un evento accidentale, ma piuttosto ad uno autoprocurato, che per quanto tale può rappresentare una sciocchezza come anche un problema molto serio, ma in questo momento non so cosa troverò.

Eccola lì, un’infermiera donna, alta 1.65, per un peso di nemmeno 50 kg, che mentre cerca di ritrovare la concentrazione si carica in spalla metà della sua infermeria e si appresta a percorrere circa 1 km a piedi, al buio, in posto che fa anche un po’ paura, senza sapere assolutamente a cosa sta andando incontro. Una mezza cartuccia che trasporta un’infermeria.

Passano i minuti, ma che gli hanno fatto al tempo? Qualcuno mi ruba i minuti, non arrivo mai!

Infine, giungo al posto di guardia degli agenti della sezione “incriminata”, che belli belli, se ne stanno tutti a sorseggiare un caffè, e ridere e scherzare. Bella forza, penso io, ma il mio detenuto dov’è?

Ovviamente è in cella, accudito da suoi coinquilini. Due agenti, un uomo e una donna, mi accompagnano presso la cella, mi aprono il blindo e la porta e mi spingono in quella minuscola stanzina puzzolente. Si accende una lucina, e vedo 4 facce tutte nere che mi guardano. O meglio, le facce nere le vedo dopo, la prima cosa che vedo sono 4 paia di occhi bianchi bianchi.

Uno di questi ragazzoni è seduto su una seggiola, si preme un pezzo di stoffa sul collo, e i suoi amici gli fanno scudo, non vogliono che io lo tocchi e lui non vuol parlare con me e nemmeno vuole farmi vedere il collo. Mi invitano ad andarmene, ci penseranno loro al compagno, non vogliono ingerenze esterne, il mio ferito è in realtà il loro amico e lo vogliono accudire da soli.

Insisto, provo ad usare il dialogo, provo a convincerli che voglio aiutarli, che non farò nulla di male a quel ragazzo di cui non conosco nulla, né il nome, né la sua storia, né il suo reato.

Ma non c’è nulla da fare. Passano molti minuti durante questa contrattazione, ma ne esco sconfitta completamente. E anche contrariata, devo essere sincera. Ed è così che con un certo senso di inutilità mi riprendo tutta la mia attrezzatura e con la coda tra le gambe torno da dove ero venuta.

 

Normalmente una persona ferita, per sbaglio per atto deliberato, si affida a noi per farsi assistere, per ricevere cure e tutto il resto.

Ma questo è un carcere, e la normalità, cioè il mondo di fuori, non esiste. Ed ogni notte non vedo l’ora che arrivi il giorno per tornare nel mondo di fuori, perché questo mondo qua dentro, assurdo, incomprensibile, crudele, mi succhia l’anima.

Fantasia

Il signor P.

Scritto da Nuur il 26 Giugno, 2012
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foto di DB

foto di DB

Un enorme mostro sibilante, simile a una nuvola nera, stava per ghermirla.
“Sofia, scappa!”, urlai con tutte le mie forze.
Sofia invece si girò, nel suo camice immacolato, brandendo uno stetoscopio dorato come una fionda. La nuvola di oscurità si avvicinava, con un rumore di unghie sulla lavagna. Sofia caricò le gambe e prese a roteare la sua unica arma. Iniziò ad alzarsi polvere da terra.
“Oggi vinco io”, si lasciò sfuggire, tra i denti digrignati.
Quand’ecco, la nuvola accelerò improvvisamente, si alzò turbinando, si aprì e si richiuse su di lei come la bocca di un lupo.
“No!”, urlai, e caddi dal letto.

Ore? 4:35 della mattina. Emicrania? Presente.

Ottimo.

Mi rannicchiai un po’ scossa cercando di riprendere sonno tra le lenzuola. Ovviamente mi riaddormentai tardi e mi svegliai quando avrei dovuto essere già lavata e vestita da un pezzo.
Arrivai catapultata in ospedale, con ancora su le scarpe normali, quattro chili di cose inutili nelle tasche del camice e una faccia da culo inenarrabile. Sofia stava già attraversando i corridoi, con il passo nervoso e balzellante di un capriolo. Faceva le scale a due a due. Rampe e rampe. Ogni giorno.
Inutile dire che noi tirocinanti arrancavamo dopo cinque minuti, supplicandola di rallentare, con ogni improbabile scusa: “Vado a prenderti le cartelle”, “Guardo se il 15 si è svegliato”, “Aspetta, mi metto l’amuchina che mi ero dimenticata”.
Lei era già trenta metri più in là, a spiegare gli esami e i farmaci alla caposala. Aveva fatto la notte di guardia, e non aveva chiuso occhio. Dolori, coliche, dializzati. Un signore aveva pure pensato bene di iniziare a sanguinare dal colon come se fosse stato il Gange, così diceva. Fuggì in sala cucina, ingoiò un cioccolatino (l’unico cibo che l’avessi mai vista ingerire) e si annegò nel caffè. Mi batté un dito sulla spalla e senza dire niente si lanciò giù nel reparto chirurgico.

“Dai, dottoressa. Esame obiettivo ”, fece a me.

Il signor P. era un pinco pallino. Il prototipo del pinco pallino. Un ometto piccoletto, spelacchiato, con un po’ di baffi, delle grandi orecchie e degli occhi terrorizzati. Non esattamente il paziente ideale. Bombardava Sofia di domande. Era riuscito a recuperare tutti i suoi dati clinici da quando aveva 15 anni a ora. Quarant’anni di fascicoli troneggiavano come una torre sul suo comodino. Sofia deglutì sonoramente, poi andò a cercare il chirurgo, con me al seguito.

Nessuno riusciva a capire quando sarebbe stato operato.
Il signor P. inizialmente era stato un paziente oncologico, ma nel corso delle analisi dell’anestesista pre-intervento, gli avevano trovato un vizio vascolare troppo serio per essere messo sotto i ferri. La presa di posizione era categorica: niente rimozione di tumore, se prima quel difetto non fosse stata sistemato. Venne allora sparato in chirurgia, sennonché gli venne trovato pure un altro problema ancora e lo appiopparono agli interni di medicina.
Il signor P. era parcheggiato nel limbo da quasi due settimane. La situazione non si sbloccava. Non saliva nelle liste chirurgiche perché c’era quell’organo che non andava, non veniva operato al tumore perché quel vizio vascolare non era apposto.
E quel povero pinco pallino, da quando era stato affidato ad Sofia, cioè circa tre giorni, si aggrappava al bordo del suo camice, le stringeva le mani, dicendo sempre le stesse parole: “Dottoressa, il mio cancro…”, e sgranava gli occhi neri pieni zeppi di paura.

Effettivamente il suo tumore non era una cosa serissima: era trattabile, poco metastatico, a crescita lenta. Ma vai a spiegarlo te a uno che rimane nella stessa stanza, senza informazioni, per due settimane.

Sofia uscì il terzo giorno da quella stanza sbattendo la porta malamente. Con un dito mi disse di seguirla in pausa cicca, dove il mio compito era per lo più vederla pensare in silenzio, mentre tirava grandi boccate nervose. Con i capelli raccolti alla meno peggio, due ricciolini da rabbino davanti alle orecchie e due occhi strizzati di stanchezza, ma acuti e furbi come quelli di un animale selvatico.
Infatti, mentre fumava, ebbe un lampo. Un lampo da faina o da lupo. Dilatò le narici, fissando sempre di più un punto, seguendo l’incalzare dei suoi pensieri, chiuse gli occhi, gettò la cicca e corremmo assieme di nuovo in reparto.

Attendemmo il pomeriggio, quando aveva dato appuntamento all’oncologo, dandogli a credere di un improvviso aggravamento della situazione, per scuoterlo del suo torpore. Vedendo il paziente in buona salute il medico rimase di sasso, mentre Sofia si limitava a sogghignare.
“Ma sta benissimo!”, esclamò lo smilzo dottore.
“Già. Per ora”, rispose lei. “Venga”.

In mezz’ora, parola mia, tra suppliche, critiche e problemi etici, lei riuscì a far vergare da quel dottore tali parole: “Ottima prognosi se operato, probabile repentino aggravarsi se non operato entro due mesi”. Non era vero. Pinco Pallino poteva resistere ancora sei mesi, forse più. Non capivo perché stesse aggravando così il quadro di un paziente che già a vederlo stava bene. Ma poi vidi l’occhiolino di Sofia e mi zittii.
Ci congedammo davanti a una panzona che preferiva la morte piuttosto che mangiare lo yogurt dell’ospedale, e mi disse stringendo la carta: “Adesso vedi come metto fuoco ai culi”.

L’indomani tutto il gran galà dei camici immacolati si era riunito in camera del Signor P., e tra salamelecchi vari, e supponenti domande verso la giovane dottoressa responsabile, venne portato trionfante su un’inutile, ma scenografica sedia a rotelle verso il reparto di anestesia. Nel pomeriggio venne operato in pompa magna, con chirurghi brizzolati e medici leccati che si vantavano con la caposala di averlo “salvato” da un’inesorabile sorte.

Sofia era rimasta nella stanza vuota del signor P., a compilare la grafica, nella penombra. Improvvisamente la pila d’inutili fascicoli medici franò giù dal comodino. Recuperandoli, presi molto coraggio e chiesi: “Sofia?”
“Mhm?”
“Perché hai truccato la consulenza, poteva farcela ancora un po’. Il suo tumore non è così grave”.
Lei mi guardò seria e nervosa, come sempre e poi mi disse: “Però la sua paura lo era. Hai visto che lo stava mangiando”, e tra le pratiche cadute a terra raccolse un piccolo coltellino svizzero, aperto, affilatissimo.

“Non ti eri accorta dei polsi al primo giorno?”, mi chiese senza guardarmi.

Io rimasi stupefatta, con una vaga voglia di piangere. Lei restò in silenzio, agganciò la grafica al letto e poi, guardando la finestra nera, disse: “Dai che è tardi, vai a casa. Hai tutta la vita davanti per stare qua dentro”.
Quella notte sognai di nuovo il mostro, ma stavolta lo stetoscopio diradava la polvere nera… e in mezzo c’era il Signor P., in pigiama, che tutto sorridente tornava a casa senza paura.

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