Sono seduto su una poltrona simile a quelle che usavano negli anni ’60 nelle barberie.
Insieme ad altri 10 come me, uomini e donne.
Sono un medico e potrei dirne, ma sono anche l’ultimo arrivato in questa comunità e sento di dovere rispetto.
Stanno con le spalle girate al mondo a bisbigliare, mentre dalla finestra scrutano con un filo d’ansia lo skyline di Roma – Portuense.
Taccio e ascolto.
Ciascuno racconta del cancro e della propria strada.
Con pudore, senza sbavature, senza personalismi; i fatti, la storia così come è andata per ognuno.
Un racconto al neon come la luce che c’è qui.
Avevo pensato di farla in casa di cura la chemioterapia, per star da solo e non mischiarmi alla gente; questione di stile.
E se vomito? Meglio da soli.
Qui capisco invece che c’è sempre spazio per la dignità.
Perché è vero: la malattia incattivisce ma l’idea della morte seduta sul bracciolo della tua poltrona nobilita.
Insomma: la morte a suo modo è regale e bisogna essere all’altezza.
Il veleno scorre nella cava superiore; protocollo FOLFOX 4, dosaggio controllato, pompa peristaltica, infermiere professionale ma con l’aria di chi si chiede: ” chissà se sai davvero cosa ti (a)spetta, chissà quanto durerai con quella stupida faccia tosta, ne ho visti di ottimismi … chissà se l’anno prossimo sarai ancora vivo”.
Comunque – secondo linguaggio – non perde cortesia, sollecitudine.
E’ Giovanni; sta lì da 10 anni, altri 10 passati in medicina generale.
E’ rasato a zero; forse – allo stesso modo di un nobile ospite – per non mettere in imbarazzo me e gli altri, penso sorridendo.
Intanto il veleno lavora le cellule e mi sento cambiare come in una sorta di Dr. Jeckyll & Mr. Hide girato al rallentatore.
Comincia il respiro ampio, oceanico, lento, ritmico della nausea.
Sulla cresta dell’onda viene il panico.
Da là sotto, da quella montagna d’acqua corporea che sale e si gonfia, può uscire qualsiasi mostro marino; bisogna reggersi o si rischia di volare fuori bordo.
E’ l’annuncio: sono in mare aperto.
I potenziali d’azione lungo i nervi periferici si animano ed è come se su ogni nodo di Ranvier si accendesse un fuoco di Sant’Elmo; il fuoco che i marinai dicono appaia sull’alberatura prima che la barca affondi; un segno di Dio.
Il fuoco si trasmette fino alle unghie e brucia tutto, anche la gola e la lingua.
Alla fine del trattamento, dopo 72 ore di viaggio, si rientra in porto.
Le braccia dolgono; col mare grosso il timone è duro da reggere sulla rotta.
Le gambe pure fanno male a forza di andare su e giù per reggersi in equilibrio e smaltire il terrore del non ritorno.
In bocca il sapore del metallo succhiato per vena e del sale.
Ma è soltanto il primo viaggio; il contratto con la Compagnia è per 12 uscite.
Non conta se c’è tempesta o no, se fa freddo o piove.
Portare il carico come da contratto, questa è la consegna.
“E … ricordi capitano: ha firmato … 53 anni fa … si è impegnato sul suo onore”.
Questo per un uomo di mare è un vincolo forte.
Poi si deciderà; se la Compagnia mi dovesse proporre un altro contratto potrei anche farmi bastare quanto guadagnato fino ad oggi … d’altronde, a ben vedere, non è poco.
Se riesci ti piace arrivare un po’ prima sul cambio. Intanto perché trovi parcheggio più facilmente.
E poi perché chi è dentro da dodici ore ne ha già abbastanza e l’unica certezza che ha, è che qualcuno, dopo un tot di tempo, verrà a dargli il cambio.
E non è poco.
Già lungo il percorso di ingresso raccogli una serie di informazioni: davanti al chiosco qualche infermiere che ha appena smontato dal turno di notte anticipa qualche novità, passando dal Pronto Soccorso basta uno sguardo per dirti se è tutto tranquillo (per ora, ma non diciamolo, per scaramanzia!) o già sovraffollato.
L’ascensore ti deposita proprio davanti alla rianimazione.
Qualche volta davanti alla porta campeggiano parenti tristi, assonnati e preoccupati, che trasalgono ogni volta che la porta si apre. E dagli sguardi, dall’età, dal comportamento già intuisci una parte della storia. Genitori o figli? Amici o parenti? Giovani o vecchi? Spesso non è difficile decodificare.
Poi entri: quanti zaini di trasporto ci sono? Tanti ne mancano, tanti sono i pazienti in giro. Tutti gli zaini a posto: buon segno!
Insomma già prima di entrare uno un’idea se la può fare.
Un saluto a chi c’è, togli dalla tua borsa qualche cosa per il pasto che depositi in cucina.
Ti avvii verso lo spogliatoio nel corridoio, trovi le chiavi in una delle sedici tasche dove potresti averle messe ieri sera, ed entri.
Quanti anni sono che vieni a cambiarti in questo spogliatorio? E quante stanze-spogliatoio hai cambiato in venticinque anni?
La fila degli armadietti fronteggia un doppio schieramento di scarpe, anzi una parete bifilare di zoccole dove alcuni paia di scarpe, o qualche stivale d’inverno, si inseriscono come le molecole della pompa del sodio nella membrana della parete cellulare.
E il gioco sta nell’indovinare chi c’è di là a partire dalle scarpe che ha lasciato di qua.
Le scarpe sempre leziose della collega che ne ha una intera collezione e che non ti ricordi la volta che ha messo lo stesso paio due giorni di seguito. E poi i dr.Martin della tosta elisoccorsista, le lumberjack del collega giramondo, le scarpe seriose di buona fattura del collega anziano, le paperine allegre della collega creativa, le scarpe un po’ petulanti della collega precisina, e quelle un po’ scalcagnate del collega sfigato, a cui accosti le tue barche oversize, che ormai trovi solo più in Germania.
Ti piace fare con calma i gesti preparatori, moderna vestizione del cavaliere, che invece dell’armatura indossa un comodo pigiama.
Mentre ti cambi non potrai fare a meno di pensare come sarai questa sera, quando ti ritroverai di nuovo qui, davanti a questo specchio. Stanco ma ancora presente o assolutamente tritato? Contento di quello che hai fatto, o pensieroso su dilemmi insoluti? Sarà stato un giorno utile o inutile?
E poi sei pronto.
Spegni la luce, chiudi la porta alle tue spalle e via. Lì ci ritornerai solo dopo dodici ore, al momento del cambio.
Ora sentirai le consegne, con un rituale che si ripeterà identico dopo dodici ore
…E dopo dodici ore, come in un confessionale laico, in una cronaca che ha del religioso, lascerai memoria di quel ch’è stato al tuo collega, e di quel che ancora c’è da fare, di quello che hai pensato ed imbastito, infilandoci se del caso anche qualche fatto curioso avvenuto, qualche prodezza compiuta, o qualche svista occorsa.
E l’ironia con cui saprai condire il racconto sarà il sale di quella giornata o nottata, che nel solo racconto, nudo, dei fatti, potrebbe semplicemente risultare tecnico, arido, squallido o terrificante, o tutte queste cose insieme.
Intanto, elencando le tue prodezze o le tue viltà lentamente smetterai di risuonare di tutti gli echi che ti rimandano le cose che hai fatto, i pazienti che hai visto, le decisioni che hai dovuto prendere. Con calma ti potrai avviare, lasciando cadere pezzo per pezzo gli episodi mentre ti avvicini all’uscita.
Quasi prepari uno stato di vuoto mentale, hai il bisogno fisico di segnare il cambiamento avvenuto.
E ti vengono in mente le parole di Roy Batty in Blade Runner: “…e tutti quei momenti andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia…”
Herbert Asch
Dunque, mi chiamo, diciamo, Priscilla, e vi scrivo tramite quell’individuo inaffidabile di Morris perché è lui quello che ha fatto il classico, e in qualche modo dovrà rendersi utile, visto che l’ho sposato.
Sono anch’io medico (si, è un classico, i medici si sposano fra di loro perchè la loro è una vita di sacrifici, di turni impossibili ecc, ecc e chi meglio di un collega può capire ed esserti vicina, tanto per andare alla sagra dei luoghi comuni) e ormai da una vita faccio “provvisoriamente” la guardia medica sul territorio (o, come si dice adesso, “Continuità assistenziale”, che fa più figo).
Quando cominciai a fare guardie, tanto tempo fa, mi trovai una sera in turno con un collega non più di primo pelo e quando gli chiesi perché era ancora lì mi rispose: “Mah, vedi, questo può sembrare un lavoro da schifo, però quando al mattino smonto e mi incrocio con gli schiavi che entrano in ospedale con il capo chino e il pensiero del Primario, del Direttore sanitario, del Direttore amministrativo ecc. ecc. che gli alitano sul collo, mentre io sono libero di andare a pescare, ti dirò, mi sento quasi felice”. Allora mi sembrò un’eresia, ma con il tempo ho cominciato a capire un po’ di più il suo punto di vista.
Il fare prevalentemente turni notturni ti dà effettivamente la possibilità di avere tempo per la famiglia durante il giorno che gli altri lavori non ti danno. Lo svantaggio, intuitivo, è che se la notte stai sveglia e di giorno fai la mamma (e per di più una mamma di oggi, di quelle con l’horror vacui, che se non riescono ad occupare ogni istante libero loro e dei figli con qualche impegno le prende l’angoscia) prima o poi ti capita di stramazzare al suolo.
Ho trovato la quadratura del cerchio ottenendo, grazie all’anzianità acquisita, l’ambito posto presso una sede periferica con un tasso di chiamate decisamente più accettabile di quello dell’ area urbana. Si, possono capitare notti di tregenda con chiamate da poderi dispersi mentre fuori c’è un tempo da lupi, ma di tanto in tanto c’è un bel turno in cui il telefono sembra essersi dimenticato di te.
L’altra faccia della medaglia è che qui sei sola, completamente sola; sola con i tuoi dubbi, con la paura di sbagliare; non hai dietro di te laboratorio, radiologia, consulenti; nemmeno un collega di guardia con cui scambiarti un parere. La decisione è solo tua, e tutte le notti devi tirare la tua monetina mentale per decidere se quel dolore addominale giustifica un Buscopan o un invio in ospedale, e speri sempre che cada dal lato giusto, la monetina.
Ma oggi non ci sono monetine da lanciare, non ci sono alternative possibili. “Ci sarebbe da constatare un decesso”. Quante volte ho sentito questa frase. Solo che stavolta al telefono c’è il maresciallo dei carabinieri, e come indirizzo a cui recarmi ho solo un chilometro della strada statale. “Tanto quando arriva lì ci vede, ci siamo noi, i vigili, l’ambulanza….”
Lì è un punto in cui la statale costeggia il fiume che scorre diversi metri più in basso, c’è un parapetto, da cui si vede un sentiero lungo l’argine, asfaltato per fungere da passeggiata turistica. Solo che non sono turisti a percorrerlo oggi, ma solo figure in divisa. E in mezzo a loro, stesa sotto un lenzuolo macchiato di rosso, una sagoma.
C’è una scalinata che dalla strada porta al lungofiume, e la scendo con una sensazione di straniamento: guardo la scena come dall’ esterno, come se quello fosse CSI e io stessi guardando un episodio alla TV.
Il maresciallo mi deve vedere un po’ bianchina, e mi prende da parte. “E’ solo una formalità, dottoressa. Si è buttato da lassù, vede? E’ senz’altro morto sul colpo. Quelli del 118 gli hanno già fatto il tracciato e hanno preparato il certificato di morte, c’è solo da firmarlo, così possiamo spostare la salma.”
Mi faccio forza e mi avvicino alla salma. L’infermiere catafratto nelle sua bella tuta tattica arancione mi porge una risma di fogli e un ECG rigato da una serie di linee piatte parallele. Guardo i certificati e ,quando vedo il nome del morto posto in intestazione, ho un flash back.
Sono tornata ad una chiamata di circa quindici giorni fa: “Venga , dottoressa, faccia in fretta perché abbiamo un nonno un po’ fuori controllo.”
Fuori controllo, direi, era un eufemismo. Il nonno in questione, ospite di una delle tante case di riposo della vallata, era addossato spalle al muro e biascicava frasi scommesse con uno sguardo che non prometteva niente di buono. Soprattutto perché impugnava un paio di forbicioni lunghi una ventina di centimetri.
Va bene, voce calma, mantenere la distanza, non perderlo di vista. Per prima cosa bisogna avvisare i familiari (“Mah, dottoressa, che vuole, coi figli non va d’accordo, non si fanno vedere praticamente mai”).
OK, allora chiamate i vigili urbani e il 118, che cerchiamo di fare un ASO (per fare il TSO mi servirebbe un secondo medico in controfirma, e dove lo vado a trovare di domenica?). Chiamo il centralino dell’Ospedale provinciale, e chiedo di cercarmi lo psichiatra in turno in “Diagnosi & cura” per avvisarlo del bel personaggino che sto per inviargli. Mi risponde una collega che, alle mie spiegazioni, fatte sempre controllando con la coda dell’occhio che il potenziale accoltellatore non si sposti dal suo angolo, risponde, con tono scettico: “Mah, non potete dargli qualcosa per calmarlo un poco? Se non c’è urgenza, io giovedì sono in ambulatorio in consultorio lì da voi e così lo vedo e gli aggiusto la terapia….”
Come no, mi viene da dirle, gli procuriamo anche un cartamodello e una bella pezza di tessuto frescolana, così di qui a giovedì con i suoi forbicioni ti prepara un bel tailleurino pronto da indossare.
No guarda cara, sono arrivati il 118 ed i vigili, se ce la facciamo lo carichiamo e te lo spediamo. Adesso chiudo, ciao.
Ci vuole un po’ molta pazienza, poi il vigile del paese, che lo conosce, lo convince a posare le forbici. Con molta cautela, riusciamo a fargli un Serenase, e a convincerlo a salire sull’ambulanza. Quando è tutto finito sono stremata, e non so cosa darei per allungare le gambe sul mio divano sorseggiando un bel the. Invece mi aspettano ancora quindici ore di turno.
Tutto questo mi è tornato in mente perché quel povero mucchietto di ossa rotte sotto il lenzuolo è il mio vecchietto coi forbicioni. Quando lo ho inviato all’ ospedale, lo hanno visitato, lo hanno tenuto in osservazione per qualche ora, “visto che il paziente si mostrava tranquillo e collaborante”, lo hanno rispedito alla struttura di invio con una terapia neurolettica più forte che, con tutta probabilità, si è guardato bene dall’assumere. E per fortuna prima di buttarsi giù dal cavalcavia non ha avuto l’idea di impugnare di nuovo le forbici e di portarsi dietro compagnia nel suo ultimo viaggio.
Ecco, in quest’anno in cui cade il trentennale della morte di Basaglia si è fatta tanta retorica. Ci si dimentica purtroppo spesso che la pazzia e la demenza sono spesso una prigione peggiore di un ospedale psichiatrico, che finisce per rinchiudere non solo i malati ma anche chi deve vivere a loro vicino, e che le strutture che devono seguire questi malati sono terribilmente sottodimensionate e insufficienti.
Mah, cerchiamo di non pensarci. Finalmente sono sul mio divano; e questo bel the dolce e ben zuccherato penso proprio di essermelo meritato.
Morris
Amo il mio mestiere. Desideravo già da bambino diventare medico. Dentro di me desideravo sempre stare dalla parte del più debole, forse perché debole e timido sono sempre stato anch’io. Finché un bel giorno eccomi Medico Rianimatore-Anestesista. Questo mestiere mi ha plasmato, ha modificato il mio carattere, ha infuso pian piano, giorno per giorno, in me il modo di controllare la timidezza, di prendere sicurezza, di tenere a bada la tensione, di riuscire nel panico generale ad essere calmo, prendere secondi preziosi di riflessione per me stesso e successivamente agire rapidamente per il bene del paziente con la mente sgombra dalla paura di commettere errori, di non essere all’altezza, di arrecare danno e non beneficio. Insomma, ora, dopo quasi 15 anni che faccio il medico, posso dire di convivere con essa, di aver accolto i “demoni” che continuano a bisbigliare al mio orecchio e ascoltare sempre più la mia “vocina buona e ottimista”.
Fine Novembre, domenica. Turno lungo. Un freddo cane. Il mio turno in elicottero 118 quel giorno non passava mai, non eravamo ancora usciti ed erano solo le 16.00. In base le ore passavano, tra chiacchiere, battute, caffè e qualche sigaretta con gli altri componenti dell’eli, con Marco il comandante pilota, con gli infermieri simpaticissimi e veramente in gamba.
“Beh io mi butto 5 minuti sul divano ok raga?”
“Tranquillo doc, guarda che c’è Valentino oggi…”
“Azz! E’ vero! Oggi c’è il motogp!” Mi getto sul divano, faccio appena in tempo a metter la testa tra le mani e: “BIRIBIRI-BI / BIRIBIRI-BI / BANNONE, TRAUMATICO, PEDONE INVESTITO DA AUTO… RIPETO…” Le solite piccole imprecazioni, un attimo di batticuore e in 30 secondi siamo sull’elicottero. Marco ha già acceso i motori. “Allora abbiamo tutto?” Sì. Metti le cuffie, il marsupio coi farmaci ce l’ho, con me ho Paolo e Luca, sono a posto, sono bravissimi. Poi c’è Marco. Beh dai almeno tre apostoli ci sono! Ahah! Due feriti, forse, ci sarà da intubare, credo. Beh dai, vediamo sul posto. Decolliamo e poi sentiamo cosa ci dice la centrale”.
Amo vedere la mia città dall’alto che diventa sempre più piccola, le persone minuscole, guardare l’orizzonte. Col sole pieno e le giornate limpide si riescono a vedere anche le Alpi a volte. “Cinque minuti al target. Bannone 206 hai notizie dei feriti?” la radio gracchia per un istante nelle cuffie alle nostre orecchie.
“Bannone 206 a Sierra eco, un solo ferito pare in modo non grave, il pedone, cosciente, respira”
Ok, dai tra pochi minuti siamo lì. Marco vede l’ambulanza sulla strada, solito giro di 360° a 2G. Ma perché Marco deve sempre farci venire lo stomaco in gola io non lo so..
Dall’alto vedo un camioncino a lato della strada parallelo all’asse senza evidenti segni di intrusione del veicolo, un omone vestito di bianco e braghe blu che sembra agitato, in piedi, che cammina. L’altro è seduto sul ciglio della strada, giubbotto lungo verde. I vigili sono già sul posto e hanno chiuso i due sensi di marcia. Perfetto. Atterriamo, nel campo adiacente. Tutti e tre diamo a Marco indicazioni sui possibili pericoli nelle vicinanze dell’eli in atterraggio, si tocca terra, togliamo le cuffie, aspetto che Luca apra il portellone laterale e ci indichi la via da seguire mentre ho il marsupio a tracolla coi farmaci , il monitor defibrillatore, e Paolo che mi segue a ruota con lo zaino. Passi spediti arrivo sul luogo, Paolo è già ai piedi del ragazzo seduto sul ciglio della strada, ha già capito come me che è lui ad esser stato investito. Il conducente impreca come un forsennato verso il ragazzo e subito non capisco perché.
“Come ti chiami?” Non proferisce parola. Sarà lo shock. Tasto il polso periferico, è ok, respira da solo, benissimo. L’energumeno del camioncino sbraita ancora anche con fare preoccupato e mi dice: “Dottore, Come sta? S’è fatto male? Porca p…mi è sbucato fuori all’improvviso, in un secondo, l’ho appena sfiorato con la fiancata di destra, cazzo è sbucato fuori barcollando, ho sterzato ma non ho fatto a tempo a evitarlo !!!” Mi alzo un attimo e gli dico: “Sì sta bene, sta bene. Adesso lo controlliamo. Lei piuttosto s’è fatto male? Ha battuto la testa le gambe? Aveva la cintura?” “Sì sì dottore tranquillo sto bene, andavo pianissimo, non mi son fatto niente”. Gli do una rapida occhiata, il cosiddetto colpo d’occhio, lo visito un minuto. Sta bene. Ritorno dal ragazzo che è sempre con Paolo che cerca di farlo parlare, e che lo controlla col saturimetro.
In effetti c’è qualcosa di strano: l’auto non ha evidenti segni di collisione, il ragazzo muto è seduto, mi han detto che si è rialzato da solo sempre barcollando un po’ dopo che la macchina l’ha toccato con lo specchietto laterale. Quindi si è messo tranquillo a lato della strada senza un lamento. Continua con la mano destra a tenersi stretto il gomito di sinistra. Ha un impermeabile da caccia lungo, lordo.
“Come ti chiami, ti senti bene? Ti fa male il braccio?” Faccio per aprirgli il giubbotto ma lui si divincola e non me lo permette. “Senti, fammi ascoltare il torace, dai, non ti faccio niente sono il medico. Lo so che ti fa male il braccio ma o togliamo sto impermeabile o te lo devo tagliare”
Paolo mi guarda e con un gesto mi fa capire che questo è fuori come un cammello.
In effetti l’alito da cammello ce l’ha ! Lo convinco a farsi mettere il collare per il rachide e a caricarlo in ambulanza. Chiudiamo le porte. Parametri vitali tutti nella norma. “Mi fai vedere sto braccio che ti fa così male per favore?
Il ragazzo muto, dentro “le mura” protette dagli sguardi dei curiosi, lentamente si lascia aprire l’impermeabile, prima il lato destro e poi pian piano la parte di sinistra. Continua a tenere il gomito sinistro sempre un po’ vicino al torace.
“Nooooo !!” esclamo. Io e Paolo ci guardiamo…abbiamo un grosso sorriso sulle labbra, pronto a scoppiare in una fragorosa risata che tratteniamo con professionalità.
E’ il più grosso bottiglione di grappa che io abbia mai visto. Ma davvero, sarà tre litri!
Il ragazzo sta benone, neanche un graffio al gomito né al braccio. Era solo spaventato. Non voleva assolutamente far notare né al conducente né ai vigili il prezioso nettare che lo aveva colto per alcune ore tra le braccia di morfeo e che ancora con lui stava passeggiando sul ciglio della strada.
La mia “vocina buona e ottimista” aveva ragione: mi aveva bisbigliato che sarebbe andato tutto bene, era come se mi stesse dicendo “dai, facciamo un giretto tra i cieli, oggi è una giornata bellissima, rilassati.” Esco dall’ambulanza, compilo il modulo dell’eli e consegno il nettare alle forze dell’ordine. Saluto tutti, consegno il referto, all’autista energumeno dico di stare tranquillo, è tutto ok. Lascio il ragazzo ai militi con un codice 2 per il PS. Rimontiamo con le nostre selle fatte di monitor e di zaini medicali sul nostro cavallo alato quadrielica. Il nostro decollo è ammirato da tutti. Dall’alto, tutti i gomiti dei curiosi e dei più piccoli sono alzati per salutarci. Paolo salta su e in cuffia dice: “Oh, l’unico che ha ancora il gomito giù è il nostro amico muto!” Fragorosa risata generale e Marco canticchiando ha già effettuato la sua virata di 180° a 2G per portarci in base. E il tramonto è spettacolare.
manuele
Di notti di guardia ne scivolano diverse su queste divise, ti passano sopra, qualche macchia alla fine ce la trovi sempre e per ognuna, per piccola e insignificante che possa sembrare c’è una storia da raccontare.
Ricordo la storia di quella macchia per cui non feci assolutamente niente di importante, quella per cui feci soltanto il mio lavoro e neppure particolarmente bene o male, lo feci e basta.
Certo è che il modo in cui ti poni… beh… qualcosa fa… certo è che l’abito non fa il monaco… però… certo è che di cose che ti fanno incazzare ne vedi tante però puoi mica essere sempre incazzato? Io mi pongo sempre rispettosamente però insomma con un po’ di elasticità due battute anche con le persone che arrivano le faccio con piacere, il mio abito è quasi sempre sgualcito, non so se perché tengo le divise rannicchiate nell’armadietto, i miei piercing e tatuaggi fanno capolino dalla mia divisa e sono quasi sempre incazzato… però…. proprio adesso… mi trovo davanti un pirla di collega che si diverte a correre spingendo la barella e facendo lunghe scivolate con le zoccole e mi chiedo: “ma sono io che non sopporto proprio più niente o ci siamo completamente persi? Vorrei proprio che provasse ad immedesimarsi un secondo nel mondo reale, quello in cui anche la crisi d’ansia in questo momento si crede di avere, come minimo, un infarto e un pirla le passa davanti divertendosi a fare le scivolate… mah… torniamo alla macchia… cosa dicevo? Mac… chia. Ah…. si, quella macchia è comparsa sulla mia divisa una notte in cui, dentro questo bellissimo, magnifico, spettacolare pronto soccorso ci saranno state 35, 40 barelle, un buon numero per renderle difficilmente gestibili, età media 80 anni, tutti completamente schierati o in degenza o lungo i muri del corridoio, categoricamente spondine alzate, cercate di non fare rumore mentre vi soffiate il naso, vietato parlare con il vicino, vietato l’accesso ai non addetti, vietato fumare, vietato pensare, vietato interrompere il personale mentre lavora, vietato chiedere qualcosa al primo che passa, di divieti ne mettiamo tanti è che poi li dimentichiamo… dovremmo mettere il divieto di fare le scivolate con le zoccole perché il pirla di prima non ha mica ancora smesso… cosa dicevo? Divieti… mac… chia. Ah… si… età media 80 anni e si sa, gli uomini di 80 anni, anche se sulla barella, anche se è vietato, la pipì la devono fare lo stesso e la prostata grande come un’arancia di certo non aiuta. A me i divieti non piacciono proprio per niente, anzi sono uno di quelli che se ne vedono uno vengono immediatamente risucchiati verso l’imponente ed inarrestabile desiderio di infrangerli… domani se mettono il divieto mi metto a fare lunghe scivolate spingendo barelle… lui non ha ancora smesso ma di sicuro smetterebbe… quella macchia, dicevo, comparve perché facendo scendere l’ottantenne incartapecorito che deambulava con il bastone ed aveva un’anamnesi patologica remota comprendente tutte le patologie citate nell’Harrison, quello che nessuno dei miei colleghi si era degnato di fare scendere per tutto il pomeriggio quello che è stato spogliato, munito di pannolone e che se non riesce a pisciare nel pannolone o nel pappagallo si becca pure il catetere, quello che non smette di chiamare un attimo perché sta pipì proprio non la vuole fare… insomma quello che più di tutti spacca i maroni… e beh, io quello l’ho fatto scendere… da solo… non ho dovuto chiamare i pompieri, l’elisoccorso, allertare la direzione sanitaria, l’emodinamica, la stroke unit… niente di che, al massimo avrò infranto un’ottantina di divieti ma così andiamo in pari con i suoi anni, l’ ho fatto scendere, gli ho tolto il pannolone, il camice a fiori azzurri che tiene scoperte tutte le natiche, l’ho accompagnato in bagno a fare una gran pisciata, gli ho messo il suo pigiama, ho dedicato forse tre minuti del mio prezioso e stipendiato tempo, l’ho riaccompagnato sulla barella e nel fare tutto questo una piccola macchia di sangue proveniente dal suo accesso venoso ha sporcato la mia divisa… è piccola, infinitesimale… insignificante ma, ci siamo guardati negli occhi, ci siamo ringraziati con un bel sorriso, lui perché l’ho trattato da uomo e non da cretino… come sto trattando il deficiente che nonostante tutto continua a fare le scivolate… io perché ho fatto qualcosa che non si aspettava, qualcosa di premiante, qualcosa che a suo parere andava oltre quello che mi era richiesto… oltre cosa? Oltre quel cretino che a forza di fare scivolate é finalmente caduto?
alti
Notte di Agosto. La terra restituisce all’aria il calore accumulato durante il giorno; un vento leggero scuote le chiome dei pini. I grilli coprono con prepotenza ogni altro suono. Le stelle cadono in silenzio, promettendo sogni a chi ne colga la scia.
Ovviamente tutto questo lo posso solo immaginare, visto che è da poco prima che il sole tramontasse che sono chiusa in sala operatoria. E per come si sta mettendo, temo che mi dovrò immaginare anche l’alba. Benvenuti nel mondo notturno degli anestesisti.
E’ la mia ultima notte di guardia in questo ospedale rosso e grigio, gioiello vintage dei mitici anni ’70, in una sola parola brutto, ma così brutto che dopo un po’ ti fa anche tenerezza, figlio senza colpa di un crudele architetto daltonico. Sarà che da domani questo ospedale me lo sarò lasciato alle spalle (per sempre?), ma stasera mentre lo vedevo avvicinarsi parcheggiando l’auto, mi sembrava quasi bello. Senza contare che gli interni non sono poi così male, in fondo…
Sto per ricominciare tutto da capo: nuovo ospedale, nuovi corridoi, nuove sale, nuovi colleghi. Impossibile non farsi prendere dalla malinconia: qui ho fatto il mio primo incarico, fresca fresca di specializzazione, vivendo le prime piccole gratificazioni professionali, i primi tragici disastri (e dubito che saranno gli ultimi…), quelle prime gelide mattine invernali a strisciare il badge, con addosso la consapevolezza che, da quel momento, sarei stata sola con i miei pazienti, la mia autonomia decisionale e le mie responsabilità… Conseguenza inevitabile di tale consapevolezza mattutina, il puntualissimo e subitaneo aumento del transito intestinale, che mi costringeva (tutti i giorni per i primi 2 mesi) ad una necessaria sosta in bagno subito prima di gettarmi nella mischia quotidiana. Poi la paura ha lasciato progressivamente il passo ad una controllata agitazione, con il vantaggioso risultato di trasformare i minuti dedicati alla toilette in ricche colazioni al bar dell’ospedale.Ricorderò con affetto anche la mensa aziendale, la vera prova del fuoco per ogni neo-assunto. Credo che nessun altro luogo all’interno di un’azienda – sanitaria o meno – rifletta la popolarità o l’impopolarità di un dipendente, come la mensa. Vestiti in borghese (divieto assoluto di indossare qualunque indumento sanitario), siamo tutti nudi, senza quel confortante travestimento verde o bianco che ci consente, tutti i giorni, di calarci in un ruolo.
La gerarchia viene completamente stravolta: non esistono dottori, infermieri, amministrativi, né tecnici: strano a dirsi, ma senza divise è difficile riconoscersi, soprattutto quando si è arrivati da poco. I primi tempi non sono ancora molti quelli che mi conoscono, sono ancora di meno quelli con cui la pausa pranzo riesce a coincidere, e dei pochi rimasti quasi nessuno mi riconosce, senza cuffietta: in seguito saprò che la gente, per un motivo che tuttora ignoro, sotto la mia cuffia rossa, immagina un caschetto nero e liscio tipo Valentina di Crepax (sic!) e non la massa scomposta di capelli castano rossicci. Dopo pochi timidi tentativi di salutare qualche faccia nota da lontano, mi arrendo di fronte ai volti poco interessati dei presenti. Forse non mi hanno riconosciuta o più semplicemente non vogliono mangiare con me -penso nel delirio di persecuzione che mi assale tutte le volte che mi trovo in un posto nuovo… Ed ecco spiegati i miei pasti solitari.
Sembra uno di quei telefilm americani, in cui alla mensa della High School fa bella mostra di sé il tavolo dei più fighi: giocatori di football e cheer-leader (i chirurghi vascolari e le ostetriche, ovviamente), mentre la sfigata che suona nella banda della scuola appoggia il vassoio traballante sul tavolo in fondo, sperando con tutto il cuore di non inciampare durante il tragitto. Il che mi promuoverebbe da trasparente a decisamente sfigata.
Ma ecco che con il passare delle settimane, le mani si cominciano ad alzare in segno di saluto, i colleghi chirurghi iniziano a farsi una ragione del fatto che io non abbia un caschetto né nero, né tantomeno liscio, invitandomi al loro desco ed il pranzo diventa finalmente un momento piacevole per fare due chiacchiere su qualcosa che non sia necessariamente il lavoro.
Trascorsi i mesi, sono passata decisamente a rapporti amichevoli con gran parte del personale, il che, in una città chiusa come questa (la mia, del resto) è un mezzo miracolo. Da cui il dispiacere e la fatica all’idea di ricominciare tutto dall’inizio. Ma fino a domattina… gioco ancora in casa!
Sono stati tutti molto affettuosi in questi giorni e per la mia ultima guardia mi sento particolarmente coccolata. Ricevo un sacco di complimenti, alcuni dei quali forse poco professionali, ma vabbè, i chirurghi son chirurghi anche nei momenti nostalgici e poi stanotte lasciatemi vivere il mio piccolo Amarcord!
Non mi dispiace affatto questo ruolo da piccola del gruppo… certo, all’inizio è stata dura far capire a medici e infermieri che non avevano davanti una specializzanda, né tantomeno una nuova infermiera (ma insomma, lo stetoscopio al collo cosa lo porto a fare??), bensì un’anestesista che senza make-up non riesce a dimostrare più di 24-25 anni neanche se si sforza (e poi, perchè si dovrebbe sforzare?). Stessa cosa per i pazienti, che, soprattutto nella fascia 50-70, di fronte ad un medico giovane sono spesso scettici. Forse perché abbiamo l’età dei loro figli e siamo per questo poco convincenti come adulti? Effettivamente mia madre sarebbe la prima, nel vedermi lavorare, a non prendermi sul serio e pensare che io abbia ancora 7 anni e stia giocando al dottore. E come dimenticare quell’ortopedico un po’ sbadato che, fatte le presentazioni, mi guarda con stupore e diffidenza e mi chiede – senza alcuna ironia, ahimè – “Scusa ma almeno sei maggiorenne?”.
Eppure, chiariti ruoli e competenze, essere “la minorenne” del comparto non è più stato un handicap, ma un modo affettuoso per scherzare nel gruppo, senza mai sentirmi mancare di rispetto per questo.
I colleghi del pomeriggio si sono congedati con tante pacche sulle spalle, promesse di mantenersi in contatto, augurio di una luminosa carriera e magari, chissà, di lavorare di nuovo insieme.
Nel frattempo chiamano dalla rianimazione: mi chiedono se mi devono aspettare per la cena… rispondo sconsolata di aspettarmi per la colazione. Ho fame!
Chissà come sarà la mensa del mio prossimo ospedale…
Blue Dolphin
E’ notte. Mi segnalano un paziente vittima di trauma maggiore che dovrà accedere alla sala operatoria per sottoporsi a sintesi di frattura di femore, verificatasi durante una fuga in motorino, per sfuggire alla cattura, da parte della polizia. Si tratterebbe di uno spacciatore che presenta anche una frattura vertebrale cervicale, senza deficit neurologico, stabilizzata con collare rigido. Poiché l’addestramento di anni mi spinge ad anteporre i problemi clinici ai giudizi morali, che per mia fortuna sospendo sempre con immediato automatismo, mosso dalla necessità di verificare le condizioni del paziente, mi reco in pronto soccorso, dove un nigeriano di colore, poco più che ventenne, dal fisico asciutto e atletico e dall’espressione tesa e preoccupata, giace in barella. Non parla italiano, evidentemente è da poco nel nostro Paese, ma, come molti nigeriani, si esprime assai bene in inglese, sicuramente meglio di me. Dopo aver parlato coi colleghi del pronto soccorso e presa visione della documentazione clinica, tento l’approccio con lui, nel mio inglese approssimativo, reso ancora più maccheronico dall’ora tarda della notte. Nella testa, cognizioni mediche e linguistiche si accavallano, minacciate dalle ombre incipienti del sonno. “Do you suffer from allergies? What about your medicines and drugs?…”. And so on! Ovviamente omette l’inseguimento da parte delle forze dell’ordine, ma mentre parliamo, quel viso, inizialmente ingessato di serietà, pian piano si anima, per sfociare, infine, in un sorrisone divertito e smagliante a trentadue denti, che tanto contrasta con il colore della pelle. Complice, sicuramente, la mia involontaria comicità linguistica. Mi chiedo quindi come quel giovane, dall’aspetto così “normale”, sano e finanche educato, possa vendere la morte e mi rispondo che forse, se fossi disperato e alla fame, lo farei anch’io!
Poco dopo arriva in pronto soccorso quello che presumo sia il fratello maggiore, alto un metro e novanta e piuttosto grosso e adirato o preoccupato -non riesco a capire: forse tutte e due le cose – scortato dalla polizia municipale; non appena si avvicina alla barella, i due si scambiano uno sguardo fugace e il giovane abbassa gli occhi e si fa serio. Non capisco quel breve incrocio di sguardi: rimprovero per l’atto delinquenziale o per essersi fatto beccare? Vista la collaborazione offertami dal fratello maggiore, penso si tratti di riprovazione. “Faccia tutto ciò che può”, mi dice, sempre serio e preoccupato e poi mi ringrazia in anticipo. Coi vigili urbani, alla ricerca di dati, è un po’ più oppositivo, sicuramente infastidito: non li manda a stendere, ma quasi, nonostante il loro garbo, ossequioso delle corporature!
A paziente sveglio e collaborante, procedo all’inserimento del sondino naso gastrico e poi, in sala operatoria, all’intubazione naso-tracheale col fibroscopio. Quindi addormento e il paziente viene operato. Al risveglio, le prime parole che sento sono: “God bless you”. Le ripete anche nei giorni seguenti, ogni volta che mi vede, accompagnandole con tanto di sorrisoni e imbarazzanti baciamano. Anche i famigliari mi augurano benedizioni divine: forse loro ringraziano tutti così! Sicuramente, io ringrazio loro.
“…dal letame nascono i fior” (F. De Andrè)
Zarianto
SEI. Sei significa Squadra di Emergenza Interna
Squadra è una parola grossa. Per ora è l’Anestesista di Guardia per il Pronto Soccorso, dotato di uno Zaino una borsa dei farmaci da prendere in frigo e di un telefonino portatile DECT, che sarebbe come il cordless di casa ma che prende in tutto l’ospedale.
Lui da solo. Per ora. E allora diciamo che SEI vuol dire Servizio di Emergenza Interna che è più generico e meno impegnativo.
Ed il servizio consiste nel rispondere ed accorrere, ove necessario, alle chiamate urgenti per pazienti all’interno dell’ospedale.
Bella lì.
Ritmo, ragazzo, ritmo.
Accendi il motore e lascialo al minimo.
Se ci fate caso molti di questi racconti iniziano con una chiamata.
In fondo sei lì apposta per ricevere le chiamate, cerchi di fare qualcosa, di darti da fare in reparto, ma l’idea è che a un certo punto molli tutto e scatti, reagisci, parti, quando suona quel dannato DECT.
Ritmo, ragazzo, ritmo.
Salta su, metti la marcia, si parte.
Allora raccatti i farmaci nel frigo e lo zaino e mentre ti dirigi verso la chiamata cominci ad immaginarti che cosa può esserci sulla base delle poche cose che ti hanno detto per telefono.
E a farti l’itinerario per arrivare dove ti hanno chiamato. Pensando se ci sono ascensori fermi, porte chiuse, corridoi con lavori in corso.
Ritmo, ragazzo, ritmo.
Eccoti sul rettilineo, schiaccia.
Quando arrivi sul posto, cerchi di capire dov’è che ti hanno chiamato, in quale cavolo di stanza si sono nascosti a farsi le loro maledette pippe, guardi dov’è il carrello delle urgenze, se l’hanno preso, se l’hanno messo davanti alla stanza.
Li trovi e cerchi di capire cosa vogliono da te, se il paziente è acuto o cronico, giovane o vecchio, si sta spegnendo senza speranza o gli è successo un coccolone, caduto come un fulmine a ciel sereno.
cerchi di capire se lo devi ricoverare, aggredendolo e saturando di tubi e cateteri tutti i buchi che ha e anche qualcuno in più …
Oppure può darsi che ti renda conto che ti hanno chiesto solo di condividere una valutazione ultimativa, e la tua presenza li aiuta a spiegarlo alla famiglia.
Ritmo, ragazzo, ritmo.
Curve da tutte le parti, scala e riprendi.
Ora bisogna far qualcosa, dev’essere fatto.
Tutto e subito, magari anche prima.
Il paziente è cosciente?
Respira?
Ha circolo?
C’è il defibrillatore?
Ha una vena?
Come mai è ricoverato?
E adesso che cosa gli è successo?
Certo, ci sono gli schemi di intervento, procedure previste e prefissate per fare le cose nella sequenza giusta senza dimenticare nulla, ma di nuovo devi lottare con la tua ansia e quella degli altri che si aspettano delle cose da te.
Poi devi valutare se devi agire subito lì o puoi spostarti sui letti di Pronto Soccorso, dove lavori in ambiente più familiare.
Per carità, nei reparti non è che sei allo sbando, ma il personale non è così abituato alle procedure di urgenza, per loro possono suonare strani persino i nomi degli strumenti che chiedi… insomma qui da noi abbiamo deciso di fare così.
E bon.
E allora, mentre fai, telefoni a vedere se c’è posto, organizzi il personale, fai cercare una bombola di ossigeno, tieni d’occhio il monitor, pensi che farmaci vuoi portarti dietro già aspirati e pronti, valuti se la vena basta o se devi trovargliene un’altra…
Ritmo, ragazzo, ritmo.
Tieni la tabella ora viene il bello.
Se già non ce n’era stato bisogno prima, cominci a menare le mani.
Tocchi il paziente, gli parli -se ti capisce- e intanto il tuo computer interno immagazzina dati e sensazioni.
Alcuni sono più precisi e circoscritti: la pelle è calda o fredda, pallida o congesta, secca o sudata? come respira ‘sto cristiano? cerca di aprire anche le branchie se le avesse, o è così brasato che non ci pensa neanche più? Guardi i numeri: pressione, frequenza, saturazione, intanto monti il va-e-vieni per l’ossigeno, lo avvicini al volto: lo tollererà? gli cambierà qualcosa?.
La parte istintiva del cervello fa contemporaneamente un altro lavoro: registra le cose minime, lo sguardo, i gesti, la postura, l’aspetto: sta lottando o ha deciso di lasciare? sta impegnando le riserve? ne ha? sensazioni, raffronti con altri pazienti, passate esperienze.
Forse occhio clinico, ma non pompiamoci troppo.
Quasi sempre, pian pianino le cose prendono la loro strada, inizi a imbastire una storia, cosa c’è cosa fare, cosa serve, chi chiamare, qualche volta persino azzardi una diagnosi.
Ritmo, ragazzo, ritmo.
Se va bene fai tappa ai box.
Qualche volta le cose invece sono serie subito, senti che ti sfugge qualcosa e non sai cosa, il paziente ha qualcosa di inatteso, qualche manovra non riesce, sanguina da qualche parte che non riesci a trovare, la merda (metaforica) attorno sale improvvisamente invece di defluire e tu cominci a smuovere l’universo mondo.
E lì diventa lunga, ma lotterai fino alla fine, avrai pensato le strategie una dopo l’altra, man mano che si rivelavano, una per una inutili. E alla fine l’unica cosa che ti salva è che sei certo che finirà. Perchè qualcuno ti verrà a dare il cambio, perdio!
Poi risuonerai per qualche giorno e avrai qualcosa da raccontare.
Ritmo, ragazzo, ritmo.
Niente pit-stop continui con quel che hai, a manetta.
Te lo sei chiesto un sacco di volte chi te l’ha fatto fare e non hai mai saputo, o voluto, darti una risposta.
Ma a te piace così.
Finchè dura, finchè ce la fai, finchè non ti trovi col serbatoio vuoto come un bossolo sparato.
Meno male che hai ancora qualcosa da raccontare.
Herbert Asch
Finalmente riesco a stendermi, sono le 2 di notte… finiti i giri. Liquidi messi su, parametri presi, diuresi scaricata, pompe sostituite su tutti e due, non dovrebbero suonare fino alle 6, l’ora dei prelievi e delle EGA. Il 3 ed il 4 così sistemati non dovrebbero disturbare… non ne posso più.
Oggi è stata una giornata pesantissima, dalle 9 alle 18 BLSD: sempre la solita storia, sia la lezione che i partecipanti al corso. Cerco di metterci entusiasmo, di variare, di aggiungere particolari a qualcosa che è sempre uguale. ABCD… GAS… DAE… una serie di sigle che ai più non significano niente ma che rappresentano l’universo dell’arresto cardiaco. “Signore, signore, c’è una persona incosciente chiamate il 118!” e poi la storia dei crediti formativi ha snaturato il tutto: non gliene frega un niente del corso, di utilizzare il defibrillatore, di imparare a ventilare, della manovra di Heimlich. L’unico interesse è finire presto e superare il test e la prova di valutazione finale. Davanti a loro solo un pallosissimo insegnante, che insegnante non è, che professore non è, che docente non è ma è solo uno che fa un po’ di corsi per “prendere un po’ di soldi in più”.
Non bastasse questo per la mia frustrazione, c’è anche la notte da andare a fare e se sono stanco stai sicuro che non riesco a riposarmi! È la solita storia: se il giorno non dormi la notte balli!
Il turno in rianimazione promette bene. Oggi non sono di uscita per le emergenze intraospedaliere questo significa che se và bene posso stare per i fatti miei con gli arti in scarico e la mano destra sul mouse rapida nei movimenti dello SPIDER. In più oggi ho due pazienti cronici, deconnessi, con un’unica pompa di furosemide, che il medico mette per scaricare il circolo.
Vicino di postazione un giovane chiacchierone che ha voglia di sapere ed un posto vuoto che ha voglia di essere occupato. Risultato??? Ore 23 telefonata dal PS: vogliono un rianimatore e lui parte e dopo 10 minuti telefona per farsi prepare la postazione ed ecco il ricovero che si prolunga un po’ troppo. BPCO già intubato dal 118 che ha solo bisogno di un buon ventilatore, ma il medico, che oggi ha dormito, vuole anche ECG, esami completi, un’arteria radiale, telefonare ai familiari per sapere perché non sono venuti in ospedale… ed un CVC (che significa RX torac ed una lunga attesa per quando con calma arriverà il tecnico reperibile da casa sua).
Le 2 arrivano subito. Dovrei anche riguardare le slide per il corso di EBP di domani, il mio riposo, per l’ennesimo corso e poi le domande del curioso neoassunto (“perché non usano la NIV? Come mai non c’è morfina in ambulanza? Perché non posso andare al congresso???…”)
Speriamo che le 6 arrivino presto…penso proprio che oggi mi merito la sdraio, 4 lenzuoli, uno a coprire la sdraio, 2 sotto la testa e con uno mi copro se non mi ammazza il sonno ci pensa l’aria condizionata, schermi in funzione numeri grandi ed eccomi in mezzo al 3 ed il 4 pronto a far spuntare l’alba. Un’ultima rapida occhiata al teleschermo prima di chiudere un po’ gli occhi e le onde del 3 che iniziano a ballare, quella dell’ecg all’impazzata e l’arteria piatta. Mi alzo accendo tutte le luci, avvicino il carrello dell’urgenza e chiamo tutti intorno a me. Giù il letto, sgonfio il materasso, accendo il defibrillatore, apro la busta attacco il connettore e le piastre… “TUTTI VIA TUTTI VIA STO’ PER SCARICARE” e il sogno di passare una notte tranquilla se ne và con il cuore del 3 che non ha nessuna voglia di far vedere a tutti quanto sono bravo a fare la RCP, ad usare il DAE, a ricordarmi l’ABCD, ad insegnare BLSD…
il Professore
“Dottora, scendi, c’è un codice rosso, un trauma toracico”. Già lo so: chi mi chiama così può essere solo Alfonso, l’infermiere di Pronto Soccorso e anche se è l’una di notte e ho appena finito coi miei pazienti in Rianimazione, l’appellativo mi mette come sempre di buonumore. In fondo è più corto di Dottoressa, e punta sulla professionalità mettendo da parte il sesso di appartenenza, è più semplice, più cameratesco, specie per noi che ci incontriamo anche sott’acqua, durante le immersioni, laddove le parole sono inutili e contano solo le cose essenziali…
Intanto che penso sono arrivata alla porta del Pronto Soccorso immaginando mille film diversi, come si usa dire adesso, e sperando di trovarmi di fronte a quello a lieto fine tra i tanti possibili! “Allora,ditemi tutto”. “Maschio, cosciente, politrauma da incidente stradale, in respiro spontaneo, stabile, ma è un po’ confuso, respira affannosamente e potrebbe precipitare da un momento all’altro”, dice il collega giovane (io non più) del 118 che lo ha raccolto sulla strada ed accompagnato in ospedale.
OK, vediamo dico a me stessa: esagera? Ha manie interventistiche? Deve ripassare il capitolo sull’intubazione, o che? In fondo l’uomo è lì nella barella, monitorizzato, parametri vitali apparentemente nella norma, neanche troppo tachipnoico, sanguina solo da una ferita lacerocontusa della fronte, parla, parla, parla. Occhio, non fidarti, non abbassare la guardia, mi dico! Intanto che raccolgo dati, faccio l’esame obiettivo ed eseguo un prelievo per Emogasanalisi faccio caso alle sue parole e mi rendo conto che ha lo sguardo un po’ allucinato e sembra ansioso più che confuso. “Stavo guidando tranquillamente vi dico, io viaggio sempre di notte, sono rappresentante di commercio, mi è più comodo arrivare dai clienti al mattino presto, ma andavo piano lì per la 74 (Strada Statale 74 in Maremma per la precisione); sapete dove stanno facendo i lavori per raddrizzare le curve…” “Mi sa che ne ha raddrizzata una di troppo lui!” Sento alle mie spalle questo commento sussurrato ed io, senza voltarmi, faccio gli occhiacci agli infermieri: e state tranquilli che se mi imbestialisco gli occhiacci si vedono anche attraverso la nuca! Odio i commenti gratuiti, inutili e cattivi che non servono a nulla.
“Dicevo Dottoressa andavo tranquillo e poi, ad un certo punto, arrivo dove c’è un tratto di strada dismesso allato del tracciato nuovo e improvvisamente la macchina ha preso via per conto suo, seguivo con le ruote la vecchia linea bianca di mezzeria, mi allontanavo sempre più e non riuscivo a sterzare per tornare sulla strada, non riuscivo, vi dico, e non è che lo sterzo si fosse bloccato, l’avrei capito. No, semplicemente puntava su quella linea bianca dipinta per terra e la seguiva mantenendo la macchina perfettamente a cavallo di essa…”
Sì, decisamente è confuso: controllo di nuovo i parametri respiratori, la PaCO2 temendo una carbonarcosi, controllo che nella lista degli esami ematici effettuati all’arrivo siano stati inclusi i test tossicologici, annuso discretamente il suo alito, penso ad una TC del cranio e fulmino con lo sguardo il tecnico di Radiologia dietro di lui che fa quel classico gesto col dito indice sulla tempia: pazzo, matto, svitato, sbroccato… Ancora sciocchezze!
Allora stringo le mani di quel giovane, anzi i polsi, perchè è un gesto più rassicurante e gli sorrido, anche se sono un po’ stanca e avrei preferito una patologia semplice, chiara, da manuale con cui interagire in modo quasi automatico. E invece la psiche umana sta dando il meglio di sé, e allora mi siedo vicino a lui e lo invito a continuare a raccontare, perchè sembra la cosa di cui abbia più bisogno. “Io volevo fermarmi, tornare indietro sulla strada di prima quella nuova insomma, anche se questa vecchia tutto sommato non era brutta, un po’ stretta magari ma con tanti alberi fioriti ai bordi, peschi e ciliegi mi sembra, con tanto verde; pensi, ho pure visto una volpe che occhieggiava dalla formetta, è stato un attimo ma gli occhi scintillavano alla luce dei fari, e l’ho riconosciuta perchè da piccolo abitavo in campagna, in un’altra regione magari, ma la Natura è uguale dappertutto. Da una parte ero sereno, rilassato, dall’altra avevo paura di questo tuffo nel passato, di non poter più decidere della mia vita, imprigionato su quella strada, legato ad una striscia bianca dipinta anni e anni fa. Volevo scappare, sapevo di dover scappare, e ho premuto l’acceleratore, ho sterzato di botto, ma non succedeva niente, e poi la riga bianca a cominciato a curvarsi e sembrava scrivere sull’asfalto grigio, scolorito dal tempo …” Intanto però la sua pressione arteriosa crollava, la saturazione era in calo, tachicardia e tachipnea segnalavano una instabilità emodinamica che stavamo tutto sommato aspettando, ed intanto che interveniamo lo sento ancora farfugliare: “la riga scriveva sull’asfalto: ah sì,sono una strada dismessa, una strada vecchia, non servo più? Mi avete soppiantato. E io mi vendico! E mi vendicherò ancora!”
Dopo un po’ torna la calma, e a paziente intubato, ben ossigenato, stabile, pronto per la TC cranio-torace, ripenso alle sue parole deliranti e mi volto verso il collega del 118 tentando un commento ironico per allentare la tensione, ma lui mi guarda più stralunato di quell’uomo e con un filo di voce dice: “Sai una cosa buffa? L’automobile era accartocciata contro il tronco di un albero sul ciglio della strada, e la riga bianca era contorta, strana, sembrava quasi…(esita a dirlo) sembrava quasi un ghigno diabolico!” Il silenzio nella sala si fece palpabile.
Sì, è stata una nottata lunga e si preannuncia un’alba inquietante, ma per fortuna il mio turno è quasi finito. Prima di andare via però mi volto e con nonchalance, almeno spero, chiedo ad Alfonso: “Ma di preciso poi, dov’è che è avvenuto l’incidente?” “Dottora, sa dove c’è quel casale rosso coi platani, in cima al poggio? Ma sì, dove passa sempre lei per tornare a casa? Proprio lì”.
“Ah,grazie. Mi sa che mi fermo ancora un po’ in ospedale stamattina…” NON SI SA MAI!
Magamagò