l’avvoltoio

Scritto da Woland il 29 Dicembre, 2008
pensieri / 1 Commento

L’attenzione mediatica attorno al caso del neurochirurgo torinese che sostiene di aver “risvegliato” una giovane paziente da un presunto stato vegetativo non giova a nessuno. Non giova alla paziente, che invece di ricevere un trattamento sperimentale – di cui ancora è incerto il risultato – in un contesto appropriato e protetto, diventa l’ennesimo caso mediatico vittima di un sistema che si nutre di strumentalizzazioni e curiosità morbose.

Non giova alla società ed in particolare a tutte le persone che vivono il dramma quotidiano di avere un familiare in stato vegetativo persistente, per le false aspettative che inevitabilmente si generano: la stimolazione talamica profonda ha sicuramente dei fondamenti scientifici e delle prospettive, ma in casi ultraselezionati ed in un contesto che rimarrà sperimentale per molti anni ancora.

Non giova al chirurgo, che cerca di aggirare con una scorciatoia il difficile percorso che deve affrontare chi, agendo nel rispetto della comunità scientifica internazionale, vuole dimostrare l’efficacia di un trattamento. La sua intervista pubblicata su La Stampa il 20 dicembre è emblematica: il tono con cui vuole attirare l’attenzione delle istituzioni suona quasi ricattatorio, oltre che offensivo. Sostenere che in Italia le persone come lui non possono avere una cattedra a causa di un sistema clientelare oppure che andrebbe abolito il valore legale della laurea è demenziale: siamo fermamente convinti che l’università vada riformata, ma ringraziamo di avere un sistema che riesce ancora ad arginare i deliri di onnipotenza e l’irresponsabilità di chi pubblica i risultati delle proprie ricerche sui giornali ancor prima che sulle riviste scientifiche.

Non dimentichiamo il caso Di Bella, che qualche anno fa ha avuto una tale risonanza mediatica da costringere il Ministero ad una sperimentazione (costata molte morti e sospesa per motivi etici) per dimostrare pubblicamente l’inefficacia di una terapia senza fondamento. In quale altro Paese se non l’Italia saremmo dovuti arrivare a tanto?

Per fortuna qui il caso è diverso, la stimolazione cerebrale profonda e la ricerca sulle cellule staminali negli stati di minima coscienza hanno dei fondamenti scientifici e potrebbero avere prospettive in futuro: forse per vederne gli sviluppi sarà sufficiente dare spazio e risorse a chi lavora in silenzio e con senso di responsabilità: la presunzione e la superficialità non aiutano la ricerca.

Woland

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Boston, 1846

Scritto da il guardiano il 22 Dicembre, 2008
racconti / 1 Commento

Quello che vedrete oggi non è solo una grande scoperta scientifica. Quello che vedrete oggi è molto di più. E’ magia. Una magia che farà il giro del mondo.
Parlare di anestesia non è sufficiente. Non rende merito a ciò che è realmente. Vedete, non è solo di far dormire la gente che si tratta. Io non farò solo dormire questo paziente. Io lo proietterò in un mondo parallelo. Quando il vapore ipnotico entrerà dentro al corpo e raggiungerà il cervello, l’anima si scollerà dal corpo. Non completamente, certo. Compirà movimenti infinitesimali, scivolando sul corpo per restare sospesa quel tanto che basta da non lasciare traccia nella memoria. Tutto ciò che succederà in quei momenti non verrà impresso nelle pagine della materia cerebrale. Il sonno indotto dal vapore creerà una piccola sfasatura nella mente. Io ho trovato la chiave per entrare in un nuovo mondo.

E vi dico ancora che questo non è che l’inizio. Un giorno si scopriranno cose inimmaginabili. Macchine si sostituiranno ai muscoli respiratori, tubi si inseriranno direttamente nella grande circolazione sanguigna, nuove sostanze attiveranno, disattiveranno, potenzieranno, smorzeranno, abbasseranno, alzeranno, indurranno, stimoleranno, deprimeranno le funzioni del corpo… Ma l’effetto, il fine ultimo della nostra missione non cambierà. Perché quando l’uomo, il medico, si avvicinerà al paziente e preparerà il suo incantesimo, ancora e sempre l’anima scivolerà via, lentamente, come una pelle invisibile, e con piccoli movimenti di tensione e rilassamento si libererà dal corpo pezzo per pezzo, rimanendo lì, sospesa nel tempo, in attesa di essere richiamata indietro… Professor Warren, può procedere, il paziente dorme.

il guardiano

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l’elicottero

Scritto da il guardiano il 16 Dicembre, 2008
racconti / Nessun Commento

Quando il portellone dell’elicottero si aprì il vento gelido entrò rabbioso e la stretta valle apparì ancora più fredda e ostile. La neve restava aggrappata alle asperità del pendio e si accumulava abbondante su tutto ciò che incontrava. Il giovane dottore scivolò verso l’apertura e si lasciò legare al cavo del verricello senza guardare sotto. Assicurò lo zaino al moschettone della sua imbragatura e si abbandonò al movimento del gancio. Ruotando su se stesso venne spinto fuori e iniziò la discesa. Il vento si fece ancora più forte e freddo. Un torrente lontano e nero univa i pendii come una cerniera stazzonata e il terrazzo sul quale stava per essere deposto si protendeva come una mano amica a fermare il suo viaggio. Ma era talmente piccolo che ad ogni raffica il vento lo spingeva lontano dalla sua traiettoria. A pochi metri dal terrazzo fece segno di rallentare la corsa, e vide sotto di sé la parete di rocce che precipitava nel torrente, poi si sentì afferrare e tirare verso la casa. Vide i suoi piedi oltrepassare la ringhiera e sentì che toccavano il cemento scivoloso per la neve appena spazzata via. Si sganciò dal cavo, si mise lo zaino in spalla e si diresse verso la porta. Entrando il vento trascinò dentro il freddo dell’inverno e il rumore dell’elicottero. Qualcuno alle sue spalle si precipitò a richiudere velocemente la porta. Si ritrovò in uno stretto corridoio, ai piedi di una ripida scala di pietra. Una vecchia era stesa su di un materasso che occupava tutto lo spazio disponibile. Una luce gialla e fioca illuminava l’ambiente, e una stufa elettrica al massimo della potenza tentava di riscaldare un po’ l’aria umida e fredda. Il giovane dottore si chinò sulla vecchia, e chiese che cosa fosse successo. Una donna accorsa da una stanzetta che si affacciava sulle scale disse di essere la figlia, e di aver trovato sua madre per terra ai piedi delle scale. La madre viveva sola. Forse era caduta. Forse era lì dalla sera precedente. L’avevano sistemata sul materasso in attesa dei soccorsi. La vecchia respirava, aveva gli occhi aperti, immobili, inespressivi. Era gelida, ed irrigidita dal freddo. Aveva una contusione sulla fronte. Il giovane dottore pensò che sarebbe morta di lì a poco. Pensò che era vecchia, troppo vecchia e malmessa per poter fare ancora qualcosa. Lo disse alla figlia. Disse che se l’avesse portata in ospedale sarebbe morta quasi sicuramente lì. Le chiese se era questo che voleva la madre, morire in ospedale. Poi si pentì subito della domanda, perché la questione era un’altra. La questione era che in quella casa non ci viveva nessuno. Nessuno avrebbe potuto vegliare la povera vecchia. Allora il giovane dottore iniziò a pensare ad una soluzione per portarla via di lì, senza dover di nuovo passare dal terrazzo. Non aveva nessuna voglia di rifarsi quel giro appeso in mezzo alla valle. Ma la casa era isolata, le strade bloccate dalla neve. Allora si rassegnò all’idea. Chiamò la centrale spiegò la situazione. Insieme al tecnico alpino e all’infermiera sistemò la vecchia nella barella con il suo cuscino, avvolta nella sua coperta di lana e si preparò ad uscire. L’elicottero si avvicinò con un rumore assordante e si dispose sopra al terrazzo. L’infermiera fu tirata su per prima, poi toccò al giovane dottore agganciarsi alla barella e lasciarsi andare. Il viaggio in salita fu rapido. La barella gli copriva la visuale della valle, ma il vento li faceva girare più facilmente. Guardando in alto vide il pattino dell’elicottero avvicinarsi. Con una mano cercò di tenerlo lontano da sé, mentre con l’altra proteggeva il viso della vecchia. Sganciò il cordino antirotazione e mantenne orizzontale la barella. Quando fu all’altezza del pianale dell’elicottero si lasciò tirare dentro, si allacciò alla corda di sicurezza e aiutò il tecnico e l’infermiera a sistemare la barella. Poco dopo arrivarono gli zaini e l’alpino. Quando il portellone fu chiuso l’elicottero iniziò la sua corsa di ritorno.

Il giovane dottore guardò la vecchia. Era viva. Con l’ossigeno sembrava persino essersi svegliata un po’. Lo sguardo sempre lontano, assente, ma con la bocca accennava a qualche smorfia, di fastidio o di dolore. Pensò che forse non sarebbe morta, e che magari avrebbe prima o poi rivisto la sua valle, con la neve e i lupi. Sperò che quel giro in giostra le avrebbe dato un po’ di tepore, e forza, per ritornare.

il guardiano

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l’anestesista

Scritto da Herbert Asch il 03 Dicembre, 2008
grandi autori / Nessun Commento

“L’anestesista, Nakash, aveva voglia di chiacchierare con me. Era sui sessantacinque, asciutto e ossuto, e la tonsura bianca intorno alla testa pelata contrastava simpaticamente con la tinta scura della carnagione. (…) In India avevo visto non poche persone che me l’avevano ricordato e che mi avevano ispirato istintiva simpatia. Hishin (il capo chirurgo) lo stimava e amava lavorare con lui, anche se non era l’anestesista di maggiore spicco. «Nakash non sempre capisce cosa succede durante l’operazione – diceva alle sue spalle – ma è sempre vigile, anche in quelle che durano dieci ore. E questa è la cosa più importante. Perchè il paziente si abbandona non nelle mani del chirurgo, bensì in quelle dell’anestesista». (…)
Nakash mi chiese se ero interessato a un po’ di lavoro privato, cioè a fare da assistente nelle operazioni cui partecipava in una clinica. (…)
«Ma non ho nessuna esperienza in anestesia», osservai stupito.
Al che Nakash spiegò che la specializzazione in anestesia era alla portata di chiunque, la parte tecnica era facile e la si assimilava rapidamente, mentre la cosa più importante era non abbandonare l’anestetizzato, pensare anche alla sua anima, oltre che al suo respiro. Mentre il chirurgo e la sua squadra durante l’operazione sono concentrati esclusivamente su un angolino del corpo, l’anestesista è l’unico che pensa sempre al paziente nella sua integrità, e non come insieme dei vari elementi. L’anestesista è dunque il vero medico interno, mentre il chirurgo fruga avidamente nelle viscere.
«Credimi, in vita mia ne ho visti tanti di chirurghi. Chi li conosce meglio di me? Ma ti ho visto un po’ all’opera e non fa per te. Il tuo bisturi è titubante, perchè pensa troppo. Non perchè ti manchi l’esperienza, ma perchè sei troppo responsabile. E in chirurgia non ci si può permettere di essere troppo responsabili, perché così non si va avanti, non si fa nulla. Bisogna prendere il coltello in mano: per ridurre a pezzi un essere umano e fargli ancora credere che sia un toccasana. Bisogna davvero essere un po’ ciarlatani e un po’ giocatori d’azzardo».”
da “Ritorno dall’India” di Abraham B. Yehoshua.

Herbert Asch

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semplici gesti

Scritto da il guardiano il 28 Novembre, 2008
racconti / 1 Commento

La signora del letto 9 era inquietata dal soffitto. Aveva riconosciuto un rosone bianco e nero che per lungo tempo aveva visto in un incubo ricorrente e terribile (durante lo stato di incoscienza). Rivederlo era la prova che l’incubo aveva qualcosa a che fare con quel posto. Sentiva molti segnali acustici, ma non vedeva nessun macchinario preoccupante. Impiegò un po’ di tempo a capire che anche lei veniva curata, e che questo accadeva alle sue spalle. Quando realizzò questo, iniziò a guardare meglio le persone che le stavano intorno. Intanto lei era coricata ed immobile, mentre tutti quelli che le stavano intorno erano in piedi ed in continuo movimento. Si chiese se queste persone avessero chiara la sua situazione, se sapessero bene cosa stavano facendo, se fossero in grado di curarla oppure no. Ma di nuovo la situazione di totale dipendenza e la sua inferiorità comunicativa rendevano queste domande più preoccupanti che altro. Cercò la risposta in quei comportamenti che lei riteneva rassicuranti. Chi le sorrideva la rassicurava, chi la toccava la rassicurava, chi le chiedeva di lei e della sua vita fuori dall’ospedale la rassicura, e sentiva che se mai qualcuno avesse preso una seggiola e si fosse seduto per un po’ vicino a lei, sarebbe impazzita dalla gioia. Così si ritrovò di nuovo di fronte a questioni per lei di fondamentale importanza ma che viste dall’esterno potevano sembrare piuttosto patetiche. Eppure l’unico modo che aveva per giudicare le qualità dei suoi custodi, era quello di valutare il rapporto che riuscivano ad instaurare con lei.C’era una giovane infermiera, che a lei sembrò inesperta perché veniva rimproverata in continuazione da una sua collega altrettanto giovane ma arcigna con cui lavorava in coppia. La signora del letto 9 temeva il loro arrivo la mattina perché l’avrebbero lavata dalla testa ai piedi e avrebbe preso un freddo terribile. L’avrebbero girata sui fianchi e questo le avrebbe fatto un gran male. Ma l’infermiera inesperta era una gran maestra di comunicazione, si avvicinava molto e apriva una bocca larghissima piena di denti bianchissimi in un sorriso incredibile, la chiamava per nome e le diceva con grande attenzione tutto ciò che stava per fare. La collega arcigna procedeva invece in silenzio senza mai guardarla.

Quando iniziarono a lavarla, la signora del letto 9 si accorse dell’importanza di tutta una serie di semplici gesti (cose che si fanno senza neppure rendersi conto, cose che sembrano scontate, naturali, addirittura prive di originalità), pensò a che cosa sarebbe stata quella terribile operazione senza il premio, prima o poi, dell’infermiera sorridente.

il guardiano

era la solita triste storia

Scritto da tartaruga il 21 Novembre, 2008
testimonianze / 1 Commento

Io Babette l’ho vista arrivare in PS e l’ho aspettata… l’ho aspettata due lunghe ore in triage con il marito, a cercare di rassicurare chi non può e non vuole essere rassicurato perchè Babette ha poco più di 30 anni e perchè Babette ha un fagottino di 20 giorni che la aspetta a casa… Poi Babette arriva e scende dall’ambulanza e basta uno sguardo… basta uno sguardo per pensare che questa è una delle solite tristi storie di pronto soccorso, basta uno sguardo per riuscire solo a vedere una strada senza ritorno in quel corpo in cui l’aria circola spinta da chi preme il pallone, basta uno sguardo per non riuscire più a guardare negli occhi il marito, mentre lo consigli per organizzarsi per il latte della bimba… quello sguardo, che per due ore mi ha consumata cercando di capire cosa io sapessi più di lui e non volessi dirgli, l’ho rivisto alcune settimane fa mentre ero nell’atrio dell’ospedale, in una giornata delle più nere, in cui non ti rendi conto che al mondo non esisti solo tu e i tuoi problemi… ma in quello sguardo non c’era più la disperazione rassegnata che ricordavo, c’era una luce di speranza che in pochi occhi ho visto così intensa… ed è scattato qualcosa mentre cercavo nella memoria dove avessi già visto quello sguardo… ODDIO BABETTE! Ed è un attimo in cui inizio a cercare tra i volti nell’atrio, un attimo in cui cerco, cerco, cerco e… vedo un capannello di persone, che piano piano si apre davanti ai miei occhi come un fiore che sboccia ed al centro… Babette con il suo fagottino in braccio!! Ed è un attimo scrosciare in un pianto liberatorio ed è un attimo abbracciarla fin quasi a schiacciare il fagottino, anche se Babette non mi conosce e non ci siamo mai parlate… il marito le dice che sono l’infermiera di cui le ha parlato e che ha aspettato con lui, stringo la mano alla mamma di Babette con le guance rigate di lacrime… e questo mi basta, posso andare a lavorare con un sorriso che da qualche giorno avevo perso, perchè è il lieto fine di cui avevo estremamente bisogno…
(riferito a “il sonno di Babette” del 25/08/08)

tartaruga

via da qui

Scritto da joyce il 16 Novembre, 2008
cronache / 1 Commento

Emanuele oggi esce dall’ospedale… dopo mesi passati tra un reparto e l’altro.
Ho incontrato la madre sulle scale mentre usciva, una giornata memorabile per lei il figlio finalmente lascia questo luogo anonimo e torna a dormire nel suo letto di quando era bambino, torna alla realtà.
una grossa vittoria per lei che in barba a notizie sempre più scoraggianti continuava a vedere il figlio come se da un momento all’atro dovesse alzarsi da quel letto in cui era legato a doppia mandata con tubi, cavi, drenaggi. Mi è sembrata più piccola come se un po’ alla volta si fosse consumata ad aspettare dietro le porte l’orario di visita, ad origliare ogni più piccolo gemito del figlio, a controllare l’integrità di una figura che un po’ alla volta si è trasformata davanti ai suoi occhi, i ineamenti alterati da gonfiori, la voce che per giorni non esce fino al vederlo scrivere con la mano sinistra per una paresi ormai quasi irreversibile.
Eppure sempre lì, ogni giorno, tranquilla, con lo sguardo perso intenta a pensare ai nipotini che avrebbe stretto tra le braccia o a quale pietanze mettere in tavola per la cena di Natale.
Incredula l’ho guardata per mesi accanto al letto del figlio, non capendo questa farsa della vita normale che tanto continuava a propugnare.
Come non accorgersi delle trasformazione in atto come non vedere tutto quel che accadeva attorno al letto del figlio come ignorare le assenze che ogni tanto lo colpiscono come non capire che già solo tornare ad una stazione eretta per Emanuele è quasi un miraggio come ignorare che dopo tanta sofferenza il tumore del figlio continua ad essere lì, racchiuso nella sua testa, fortezza inespugnabile, punto irraggiungibile.
Sembrava quasi di parlare con un automa quasi convinta che il figlio fosse lì per una gita istruttiva o per un suo capriccio e non per un reale problema, come se fosse uno scherzo.
L’ho vista invidiare le dimissioni dei vicini, l’ho vista guardarci con rancore come se fossimo responsabili dell’assenza del figlio da casa sua, dai suoi luoghi, dalla sua vita.
L’ho vista diventare più aggressiva, più rigida e tronfia come una matrona quando lui da solo è uscito dal suo letto per cambiare reparto.
Per i mesi successivi lo intravista trafelata, sulle scale tra un piano e l’altro a rincorrere le diverse degenze del figlio, oggi sulle scale mi ha fermata.Mi ha gridato la sua vittoria e poi tradita dalla stanchezza è scoppiata a piangere.

Quasi senza parole l’ho abbracciata e con voce calma le ho ricordato tutti i progetti che aveva in serbo per il figlio e che durante i colloqui continuava ad enumerare, mi ha guardato stupita e poi come se nulla fosse è riapparso il sorriso beffardo e la vita normale è ricominciata.

joyce

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la signora del letto 9

Scritto da il guardiano il 10 Novembre, 2008
racconti / Nessun Commento

Sicuramente la signora del letto 9 non aveva scelto di finire in rianimazione. Ci si ritrovò suo malgrado, senza neppure sapere perché. La prima impressione che ebbe quando si percepì cosciente, fu di grande smarrimento. Cercò di capire che cosa fosse successo tra gli ultimi momenti dei quali aveva ancora memoria e quello che gli stava intorno. Per prima cosa capì di essere in un altro ospedale rispetto a quello di partenza. Decisamente diverso da tutti quelli che potevano essere gli ospedali che aveva visto fino ad allora. Pensò di trovarsi all’estero. Ma tutti parlavano italiano. Pensò allora di essere in un ospedale italiano all’estero. Uno di quelli all’avanguardia gestito da équipe internazionali. Da una porta sul fondo che era rimasta aperta, vide uno scorcio di cortile o balcone in cui vi erano vasi di gerani; ad un certo punto arrivò un ragazzo allegro, che portò del cibo, e lo lasciò proprio nella zona dei gerani. Proprio di fronte a lei erano appese due meravigliose, grandi fotografie di paesaggi. Pensò a tutti i quadri che aveva visto in passato, appesi ai muri degli ospedali, e si chiese chi mai potesse aver scelto tante immagini brutte, e insignificanti, e perché mai nessuno era mai andato a toglierle. Ma quelle foto erano un’altra cosa. Quelle foto indicavano che qualcuno ci teneva molto a quel posto.

Quando smise di guardarsi intorno, la signora del letto 9 si accorse di essere in una situazione di grande svantaggio. Non riusciva a muoversi, provava dolore, aveva molto freddo, e soprattutto non poteva parlare, senza sapere perché, non poteva parlare. Nessuna delle cose che aveva visto fino ad allora riuscì a dare conforto al suo smarrimento. Si accorse che quante più risposte trovava tanto maggiori sarebbero state le domande senza risposta. E questo la stancò enormemente. Decise di rinunciare a qualsiasi indagine. Si scelse una posizione comoda – doveva riconoscere che quei letti erano favolosi – sprofondò quanto più possibile nel materasso, inclinò la testa da un lato e, chiusa nella sua tana privata, si mise a piangere. Pianse perché si faceva pena, pianse di sé, per sé. Era lei l’unica referente del suo pianto.

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la mamma di Deborah

Scritto da il guardiano il 05 Novembre, 2008
racconti / Nessun Commento

La mamma di Deborah (con l’h), entrò traballante, sulle gambe corte e arcuate, e con un movimento rapido ma quasi impercettibile, si sedette sul divano di fronte al giovane dottore. Impercettibile perché non c’era molta differenza tra la mamma di Deborah seduta e la mamma di Deborah in piedi. Entrando, non aveva salutato, ma aveva accompagnato il suo ingresso con una serie di parole e frasi, e gemiti, che sembravano parte di un liturgia. Il giovane dottore aspettò una pausa un po’ più lunga fra una litania e l’altra e poi iniziò a parlare di Deborah. Ma aveva appena pronunciato il suo nome che la mamma riattaccò. Sempre più drammatica, e con crescente intensità. Allora, sperando di calmarla il giovane dottore le prese la mano, e le disse che Deborah andava meglio, che si stava svegliando, e che presto avrebbe respirato da sola. La mamma di Deborah rimase per qualche minuto in silenzio e forse in ascolto, ma subito dopo, come se non avesse mai smesso, ricominciò il suo lamento.Loro, i dottori, magari erano bravi e magari no, ma lei sapeva che Deborah non sarebbe mai più stata quella di prima. Gliel’avevano ammazzata. Due volte, e questa faceva tre. Ed era tutta colpa di suo padre, quel bastardo che le aveva fatto fare quattro figlie, e Deborah faceva cinque, senza che mai lei potesse capire che cosa era l’amore. E quando le altre figlie se ne erano andate – puttane pure loro che volevano rubarci tutti i soldi – lei aveva dovuto occuparsi di questa figlia qui che, per fortuna era brava e non faceva male a nessuno. Ma, prima suo padre – che l’aveva mandata a lavorare diosolosadove e le era tornata a casa mezza morta – e poi quel pazzo con il motorino che le era passato addosso, gliel’avevano ammazzata. Due volte, e questa faceva tre. E cosa se ne faceva mai lei adesso di questa figlia morta, e pure risorta, che però non parlava nemmeno più?

Il giovane dottore provò a spiegarle che per la parola era solo questione di tempo, che per il momento Deborah aveva ancora il tubo in bocca che le impediva comunque di parlare. Ma la mamma era già in piedi, pronta ad andare. Aveva sentito abbastanza. Si diresse verso la porta sempre cantilenando, e prima di uscire sorrise al giovane dottore, con quella sua bocca sdentata e storta, gli diede un buffetto sulla guancia e invocò la benedizione del signoreiddio per tutti quanti: per i dottori che le avevano salvato la figlia, e anche per gli anestesisti, che gliel’avevano salvata pure loro, e a posto così.

il guardiano

storie importanti (1)

Scritto da il guardiano il 31 Ottobre, 2008
citazioni / Nessun Commento

“Ivàn Il’ìc ogni tanto faceva venire Gerasim, il mužìk addetto alla cucina, gli metteva i piedi sulle spalle, e per un po’ stava in quella posizione; e gli piaceva parlare con lui. Gerasim faceva tutto con gran leggerezza, volentieri; semplicemente, con una soavità che inteneriva Ivàn Il’ìc. In tutti gli altri la gagliardia, la forza vitale, la salute offendevano Ivàn Il’ìc; soltanto la forza vitale e la salute di Gerasim non amareggiavano Ivàn Il’ìc, anzi lo calmavano.

Il maggior tormento di Ivàn Il’ìc era la menzogna che lo voleva malato ma non moribondo, una menzogna accettata da tutti, chissà perché: bastava che stesse tranquillo e si curasse, e allora ci sarebbe stato un gran miglioramento… Ma egli sapeva benissimo che, qualunque cosa gli facessero, non ci sarebbe, stato proprio niente, salvo che sofferenze ancora più tormentose e la morte. Questa menzogna lo tormentava, lo tormentava il fatto che non volessero riconoscere che tutti sapevano e che anche lui sapeva, e che volessero invece mentire sul suo terribile stato, e che per di più costringessero lui stesso a prender parte a quella menzogna. Quella menzogna, una menzogna perpetrata su di lui alla vigilia della sua morte, una menzogna che si sentiva in dovere di umiliare questo terribile atto solenne al livello delle loro visite di cortesia, delle tende in salotto, del pesce in tavola… era un orribile tormento per Ivàn Il’ìc. E stranamente, molte volte, mentre gli altri eseguivano i loro numeri su di lui, era stato a un filo dal gridare in faccia a tutti: smettetela di dire bugie, lo sapete benissimo, e lo so benissimo anch’io che sto morendo, almeno finitela di mentire. Ma non aveva mai avuto cuore di farlo. L’orribile, tremendo atto della sua agonia era degradato da tutti quelli che lo circondavano alla stregua di qualcosa di casuale e sgradevole, persino di indecoroso (come se trattassero con un uomo che puzza entrato in un salotto), qualcosa che trasgrediva quello stesso «decoro», che Ivàn Il’ìc aveva perseguito tutta la vita; egli vedeva che nessuno aveva pietà di lui, perché nessuno, voleva capire la sua situazione. Soltanto Gerasim capiva la sua situazione e aveva pietà di lui. Perciò Ivàn Il’ìc stava bene soltanto con Gerasim. Stava bene, quando Gerasim, a volte per delle notti intere, rimaneva con lui, tenendogli le gambe sollevate, e non voleva saperne di andare a dormire: «Lei non si preoccupi, Ivàn Il’ìc» diceva, «ho ancora tempo per fare una bella dormita,» o quando, aggiungeva all’improvviso, passando al «tu»: «tu sei malato, e hai bisogno di me, no?» Soltanto Gerasim non mentiva, era sicuramente l’unico che capiva di che cosa si trattava e che non riteneva necessario nasconderlo, e si limitava ad avere pietà di lui, del suo padrone debole e sfinito. Una volta venne fuori a dire a Ivàn Il’ìc, che cercava di mandarlo via:
«Tutti dobbiamo morire. Perché non dovrei farlo?» e, dicendo questo, voleva significare che quella fatica non gli pesava, proprio perché lo faceva per un uomo che stava morendo, nella speranza che anche per lui, a suo tempo, qualcuno avrebbe fatto lo stesso”.
Da “La morte di Ivan Il’ìc” di L. N. Tolstoj.

il guardiano

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