L’uomo in blu

Scritto da massimolegnani il 16 Febbraio, 2013
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Foto di MV

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È il colore a volte che fa la differenza, nel mio caso una differenza abissale.

Avrei voluto essere arancione, mi sono ritrovato blu.

Pensare che una dozzina d’anni fa al corso teorico-pratico organizzato dall’ASL per selezionare chi fra i propri autisti avrebbe guidato le ambulanze del 118, ero stato tra i migliori, alzavo la mano come a scuola e snocciolavo senza errori la successione delle manovre del log-roll, sapevo dire quando e come si doveva usare il cucchiaio e quando la spinale, conoscevo a memoria procedure d’intervento e protocolli di chiamata. Quello era stato un periodo esaltante, di giorno il solito lavoro, alla sera uno studio accanito, di notte il sogno sempre uguale e sempre bello, sfrecciavo per le strade a sirene spiegate, fendevo il traffico come Mosè le acque del MarRosso, portavo l’equipaggio sul luogo del disastro, collaboravo nel soccorso dei feriti, l’arancione fluorescente del giaccone d’ordinanza un lasciapassare tra la folla dei curiosi. Tutto faceva pensare che sarebbe andata proprio così, ma poi all’esame mi ha fregato l’emozione.

L’istruttore mostrandomi il manichino riverso sul pavimento mi disse Guglielmetti fai conto che sia un ragazzino di dodici anni coinvolto in un incidente: apparentemente non è cosciente, forse non respira, datti da fare. A sentire quelle parole non ho più visto davanti a me un bambolotto di plastica ma un volto insanguinato e ho perso la testa, Cristosanto è poco più di un bambino. Mi sono chinato su di lui e anziché iniziare le manovre di soccorso che pure sapevo a menadito l’ho preso tra le braccia, un bambino vero, irrimediabilmente morto, tra le mie braccia, un bambino da lavargli il viso con le lacrime, piangevo sì, e lo cullavo mentre l’istruttore sbraitava Guglielmetti ma che fai? Sbrigati, sta per morire, Guglielmetti dacci dentro con la rianimazione, forza! No, è inutile, non ce la può fare, non ce la posso fare, è morto, povero ragazzino, morto senza nemmeno un nome. L’unica cosa che m’importava era tenerlo stretto, lì inginocchiato su un pavimento che credevo asfalto tra rottami e resti umani, essergli vicino nel passaggio, accompagnarlo dove…non lo so dove vanno a morire i morti. Avevo un dolore mai provato.

Mi dovettero staccare a forza dal manichino e del mio passaggio al 118 non se ne parlò mai più.

Mi assegnarono un furgoncino, che di recente hanno sostituito con uno appena più moderno, ma niente lampeggianti nè sirene, e una divisa orrenda, giubbino blu con stampigliata una croce rossa subito sbiadita e pantaloni della stessa tinta con al fondo una striscia catarifrangente bianca. Ai piedi non gli scarponcini in goretex di cui sono forniti gli “arancioni”, no, per le scarpe arrangiati, così una volta mettevo mocassini marroni o sandali d’estate, ora delle vecchie Superga che ho ritrovato in casa.

Così conciato, che sembro una caricatura del soccorso, batto la provincia in lungo e in largo a portare campioni di piscio e sangue da un laboratorio all’altro ed anziani dalle case di riposo all’ospedale per esami, ma solo se non stanno male, sai Gu non vorremmo che ti emozionassi un’altra volta se li dovessi rianimare, e una risata cattiva a chiudere il discorso.

Dodici anni che faccio ‘sto mestiere, una dozzina d’anni lunga come un giorno solo, talmente è sempre uguale quel che faccio. E quel che è peggio non è il lavoro ma la pausa in mensa dove vorrei mangiar da solo e invece c’è sempre qualcuno degli equipaggi del pronto intervento che si siede e sfotte, e anche se non sfotte mi basta vederlo tutto in ghingheri, lo zaino rosso delle emergenze accanto alla sedia, il cellulare collegato alla centrale, la chiamata a inizio pasto e lui che scatta, bello e sicuro come un guerriero, lascia il vassoio quasi intatto, beato te che puoi mangiare tranquillo dice con aria superiore e subito corre a salvar la gente, mi basta questo per sentirmi la mezza merda che sono diventato.

E poi magari anche a me interrompono il pasto, Guglielmetti vai a prendere il signor Lacchia di Caluso e portalo alla dialisi. Provo a obbiettare che c’è tutto il tempo, senti, finisco di mangiare e vado; No! gracchia il mio severo dio nella ricetrasmittente, ci vai immediatamente che questo già una volta si è lamentato di te, sei arrivato all’ultimo momento e dopo andavi troppo forte in macchina e lo sballottavi di qui e di là. Ok, vado, non discuto, vado.

Lacchia è una serpe d’uomo. D’accordo ha i suoi malanni, la dialisi non è una passeggiata ma lui ce l’ha col mondo intero e con me in particolare perché lo porto dove non vorrebbe andare. Lo carico, lui e la carrozzina (potrebbe camminare, certo, ma il viaggio verso l’ospedale pretende di farlo sulla sedia a rotella) utilizzando l’elevatore elettrico del mio CuboFiat e da quel momento il signor Lacchia troneggia sul pianale posteriore, diventa il mio tiranno grigio, mi rimbrotta per ogni cosa, la guida, il traffico, il riscaldamento eccessivo o troppo basso, mi tiene il fiato sul collo, sbraita e sputacchia saliva, certe volte mi minaccia pure con l’inseparabile bastone, e diventa un calvario il viaggio. Ci vuole tutta la mia pazienza a sopportarlo e quell’ora che passo con lui mi segna la giornata. Dopo non c’è sorriso di altri miei clienti che compensi l’umore rovinato.

Questo mestiere mi regala poche soddisfazioni e allora retrocedo a minime ambizioni, divento consapevole del poco margine possibile di miglioramento, cerco di lavorare in fretta per ritagliarmi piccoli momenti di consolazione tra un servizio e l’altro, una sosta al bar, qualche sguardo rubato in giro, due parole con la Piera mentre le consegno le provette per le analisi e lei mi firma la ricevuta, il seno che straripa nel camice attillato e quel sorriso un po’ sciupato che invita all’ammicco e alla battuta sconcia alla quale non rinuncio (eh Piera, sempre col vento in poppa e le poppe al vento).

E quando mi capita di andare verso sud a consegnare materiale alla Sorim mi fermo tra le risaie a osservare il bianco degli aironi. Li guardo curvi a nettarsi con il becco le piume al sottocoda e immagino le mondine ancora chine sulle erbacce. Ascolto il loro canto e vedo i corpi curvi che dovevano a quel tempo essere belli.

massimolegnani

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Dolore

Scritto da Marion il 09 Febbraio, 2013
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Foto di MV

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Prima bimba cha vedo nella mattinata: Yasmin, nome da fiaba, origine straniera, slava mi sembra, 5 anni, mamma giovane, bella e molto antipatica, arrogante nell’approccio e nelle richieste, senza lavoro e con gravi problemi economici (a quanto dice. Ho imparato a diffidare di tutto e di tutti).

Yasmin ha vomitato più volte e accusa un pò di mal di pancia e un forte mal di testa: entra nell’ambulatorio camminando da sola, ma strofinando la fronte con le manine e piangendo piano, si siede subito e rimane lì ferma, sempre lamentandosi, mentre la mamma mi racconta i fatti

“E’ da ieri pomeriggio all’uscita da scuola che non sta bene, ha vomitato tutta notte, ho dato questo e quello, non ha febbre nè diarrea, da 24 h non mangia …”

“Vieni Yasmin , sali sul lettino e riposati mentre ti visito”.

Buona buona Yasmin mi obbedisce e si alza, la mamma la prende in braccio e la deposita sul lettino, la bimba si sdraia e aspetta la visita: il pianto si è fermato, il faccino è sempre sofferente.

Il viso è rigato di lacrime, la bimba non appare disidratata, le tocco il pancino piano piano, le strappo un sorriso, poi un pò più a fondo, senza evocare dolore. Termino la visita senza trovare nulla di particolare.

Yasmin torna sulla seggiola e il viso si rabbuia, il pianto riprende, le mani che vanno sopra lo stomaco, qualche strano colpo di tosse preannunciano un conato; suggerisco di portarla in bagno e assisterla nel caso di vomito, raccogliendo poi se possibile un goccio di pipì nel contenitore che porgo. Io intanto compilo la cartella e … penso.

Il dolore di un bambino: qualche settimana fa ho sofferto di un’infezione stagionale gastrointestinale e ricordo bene quanto ho patito! Io però sapevo che era in realtà cosa da poco, che in qualche ora tutto sarebbe passato e in breve avrei quasi anche scordato quel dolore (anzi mi sarei dovuta sforzare di non farlo, per cercare di capire meglio poi la sofferenza dei miei piccoli pazienti senza minimizzarla con superficialità frettolosa). Il bambino ha davanti solo il dolore di quel momento, senza un perchè, senza una fine, se noi adulti non gli stiamo vicini a rassicurarlo, ad offrirgli un rimedio, a distrarlo…

E allora accolgo Yasmin di ritorno, immergo lo stick nel bicchierino, e osservo di lì a poco il bel viola scuro del quadratino che indica presenza di chetoni.

E spiego, alla mamma – e a Yasmin – che i chetoni, una sorta di leggero veleno che autoproduciamo in determinate situazioni, possono essere causa di vomito e mal di testa, che nascono dal digiuno o da errori alimentari , che possono aggravare un’infezione da virus ( “ un ’influenzetta di pancia”) come quella che in questi giorni hanno tanti altri bimbi o essere invece da soli la causa dei sintomi di Yasmin. In ogni caso, la cura sono CARAMELLINE di ZUCCHERO (il mio papà me le comprava a forma di carotina, con una bella carta arancio e il ciuffetto verde sopra a far da foglie!) e da tè zuccherato fresco, offerto a cucchiaini ripetuti dalla mamma che dovrà perciò trascorrere le prossime ore a fianco di Yasmin, ingannando il tempo col racconto di qualche bella storia.

Adesso sì che Yasmin non solo sorride, ma ride beata! E anche il saluto di congedo della mamma è un pò più sereno del solito…

Marion

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Mi hanno detto di prepararmi

Scritto da the intensivist il 05 Febbraio, 2013
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Foto di MV

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Mi hanno detto di prepararmi, ma non pensavo così presto… e ho seguito la marea.

Chiuso nel mio sottomarino agganciato alla nave-madre, avevo capito che c’era qualcosa che andava storto… era nell’aria questa sensazione, già da alcuni giorni.

Infatti la “nave-madre”, usciva più volte dal suo golfo e andava a trovare l’equipe di tecnici che , con una sonda ad ultrasuoni, scandagliava l’abisso nel quale ero immerso e navigavo da ormai 190 giorni: e cominciava allora la verifica della pompa propulsiva, delle paratie stagne e delle condutture idrauliche per verificare il mio stato di salute e la mia reattività.

E’ vero, mi avevano detto al corso PNFL (Pre Natal Fetal Life) che ad un certo punto, dopo circa 290 giorni di addestramento, avrei dovuto lasciare il mio ambiente e cercarmi nuovi lidi di approdo; ma adesso il contagiri mi diceva che ero giunto al count-down con largo anticipo… La mia nave-madre mi portava spesso da giorni, in un bacino di carenaggio, dove per effetto della sonda ad ultrasuoni, sentivo rumori e intravedevo luci attraverso il coperchio del piccolo sommergibile under-water, nel quale mi avevano introdotto, dopo avermi assemblato con cura e dovizia nel corso di lunghe settimane di navigazione.

Non ho grandi ricordi dell’inizio, ma nel manuale di istruzioni del corso PNFL, attraverso delle bellissime immagini, avevo “intravisto”, giorno per giorno, mese per mese, quello che era già capitato a milioni di altri cadetti prima di me.

La mia nave-madre negli ultimi giorni, non filava più liscia come prima: si scuoteva di frequente, riducendo virtualmente le pareti del mio sommergibile e dando delle variazioni di portata del “cordone” attraverso il quale passavano le derrate alimentari e le scorte idriche, creando spesso una accelerazione reattiva del mio contagiri .

Mi guardavo allo specchio, appeso alla paratia stagna e sembravo smagrito, un po’ provato…forse era giunta veramente l’ora di iniziare l’ultimo grande viaggio.

Ho fatto mente locale e ho raccolto le mie cose… anzi solo le mie idee, perché in realtà di bagaglio i cadetti-diplomati ne devono avere solo poco con sé, per essere più agili nello scatto e nell’avanzamento in zona nemica… o comunque straniera.

Speravo almeno di lasciare il sommergibile indossando la bellissima uniforme bianca di “vernice” che avevo invidiato ai miei colleghi di corso più anziani che erano riusciti ad arrivare al “termine” del PNFL… ma la divisa la consegnano solo dopo almeno 270-280 giorni di studio e tirocinio, prima delle ultime 2 settimane, in cui.. ogni momento è buono per uscire allo “scoperto”.

Credo proprio che dobbiamo abbandonare il nostro mezzo “under-water”: le scosse sono sempre più frequenti e prolungate, le pareti della nave-madre tendono minacciosamente a pressarmi, tanto che ora non riesco più a fare la mia quotidiana oretta di reazione fisica a base di capriole e flessioni su mani e braccia; faccio fatica anche a controllare il mio “cordone” che mi hanno spiegato non devo mai attorcigliare e devo cercare di tenere dietro di me e non davanti a me, per evitare di rimanere senza rifornimenti. Anche il mare nel quale ho navigato, ha cambiato aspetto: è meno limpido e soprattutto è meno profondo… forse si è aperta l’insenatura stretta del golfo avanti a me.

È l’imbocco del canale, quello da cui mi hanno spiegato al corso, io partirò per l’ultimo grande viaggio verso il “nuovo mondo”.

Ho un po’ paura… non ero ancora pronto, sono piccolo… e un po’ smagrito: ce la farò ? So che non tutti gli allievi arrivano alla fine del corso e qualcuno non ce la fa a vedere il nuovo mondo o qualcuno lo intravede solo per un po’, ma poi… torna il buio e non so se sia dolce o amaro questo buio.

Nessuno è tornato indietro a raccontarlo. Forse il PNFL, tra le sue lezioni, dovrebbe anche annoverare qualche ora da dedicare a quelli che non superano l’esame alla fine della sessione.

Ragazzi, è proprio l’ora… il livello del mare scende, le pareti della nave-madre vibrando con forza si avvicinano e allontanano tra di loro in maniera ormai ritmica (ne conto almeno 10-15 all’ora di vibrazioni).

L’acqua del mare è anche più calda… trasmette calore al mio sommergibile… mi sento la febbre. Mi hanno detto di preparami… Saluto con fretta la stanza che mi ha accolto lungo questi mesi, sistemo il cordone dietro di me, assumo la posizione “fetale” con la testa in avanti e… anche se non pensavo così presto… seguo la marea.

Comincio a nuotare e grazie al cielo che sono piccolo (ma allora è una fortuna !!), passo attraverso il “canale” e sempre spinto in avanti dalle vibrazioni prodotte dalla nave (che si comporta sempre da nave-madre, è premurosa con me!) finisco per intravedere l’uscita, anche se con gli occhi e la bocca serrati, come gli istruttori PNFL mi avevano ripetuto sino alla noia nei giorni passati, prima di approdare, una volta fuori dagli abissi.

Ecco la sommità del mare… sono accecato dalla luce che fino allora avevo intravisto filtrata dalle pareti della mia stanza… che freddo che fa…

– ehi, piano, voi della NICU (Neonatal Intensive Care Unit) anche se siete notoriamente bravi e famosi, non tirate così e… ohi, mettetemi giù, soffro le vertigini ! –

Dove è il mio cordone ?… sento che me lo tirano e…

– ragazzi qui non arriva più flusso! –

Improvvisamente sento la necessità di aprire la bocca e di urlare al nuovo mondo che ci sono anche io… urlo, urlo, sempre più forte… con dolore, perché nel mio petto è entrata una folata di aria fredda che non conoscevo e che, quasi mi fa male…

però se dapprima mi era estranea e fastidiosa, lentamente diventa una brezza sempre più calda e gradevole… mi sembra di respirare una nuova vita.

Uno del team della NICU mi friziona il corpo e un altro con una maschera gigante , mi aiuta a fare entrare il vento (sembra il Ghibli) della vita , lungo le mie condutture aeree… funziona! eh sì che funziona, perché il mio contagiri, inizialmente impazzito, ora ritmicamente batte ad una velocità oraria di 150-170 al minuto.

Mi controllano il peso: sono 1250 grammi… 1250 ho capito bene ? Ma mi avevano detto che di solito si è oltre i 3000 grammi alla fine del corso ? Ah, è vero, sono dovuto uscire prima, perché non era più cosa per me stare under-water… dovevo diventare un terrestre…

Lasciano delle belle pezze calde e morbide sul mio piccolo corpicino e , sempre con una mascherina che mi aiuta a portare il vento nei miei stantuffi, mi sostituiscono il cordone, ormai ridotto ad un piccolo spago, con delle tubature nuove di materiale “sintetico” che gli specialisti della NICU fanno passare attraverso il mio sportellino/ombelico, per far scorrere carburante per tutte le mie turbine.

Comincio proprio a sentirmi bene… non è poi così male questo posto pieno di luce, rumori e esseri terrestri , enormi che mi assomigliano, ma che sono di un tonnellaggio 20-30 volte il mio.

Adesso gli specialisti della NICU, con cappellini, guanti e mascherine (sono proprio come me li avevano descritti), mi adagiano in una nuova navicella, che anche se faccio fatica a vedere bene, ha delle pareti trasparenti, calde e umide con un rumore di fondo… sempre con una sorta di boccaglio-respiratore che tengono vicino al mio naso per darmi una miscela gassosa che comincia proprio a piacermi.

E’ passata solo una mezz’oretta, ma quelli che mi aspettavano sulla riva, sono proprio stati bravi… Guardo o meglio cerco di aprire un po’ i miei occhietti e , fuori dalle pareti della mia nuova casa, vedo un essere, senza mascherina e guanti, che mi è familiare: la faccia non la conosco, ma i suoni che provengono da lei e anche il calore e il profumo della pelle delle sue mani, non mi sono estranee… perchè mi ricordano gli odori, i sapori e le sensazioni del mare in cui mi cullavo… ma sì!: è la mia nave-scuola , ma come potevo dimenticarmi di lei o meglio come potevo pensare che “lei” potesse dimenticarsi di me, anche se l’avevano messa per un po’ di tempo in un bacino di carenaggio !!

La nave-madre… ci tiene proprio al suo incursore sottomarino… o meglio gli vuole proprio bene… si dice così anche tra compagni di corso o meglio tra insegnati e allievi, come me.

Ora rassicurato che il nuovo mondo non è poi così male e la nave-scuola è ancora con me, anche se le paure restano, provo a schiacciare un pisolino , perché, ora ricordo bene ripensando alle pagine del testo PNFL che, se l’avventura inizia prima… è lunga, tanto lunga e per affrontarla bene, c’è bisogno di tanto riposo e energie.

– Oh, voi lì fuori, spegnete la luce, ma continuate a controllare il mio contagiri e che tutto funzioni bene! –

Per ora va bene così, domani è un altro giorno; i ricordi dei tempi passati con gli altri compagni di corso affollano i miei pensieri, ma ora è tempo di concentrarsi per crescere e, con l’aiuto della mia nave-scuola, e dei tecnici della nuova mia navicella, so che ce la posso fare… o almeno provare a farcela!

the intensivist

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Non svegliare il can che dorme

Scritto da massimolegnani il 27 Gennaio, 2013
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Foto di MV

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Me, non mi devono svegliare nel cuore della notte, che poi resto sfasato un bel tot di ore. Il meglio lo do fino alle tre del mattino, saltabecco qui e là con la freschezza di un cameriere a inizio turno, viaggio veloce per le scale come avessi una pila duracell e mi destreggio tra barelle e culle con la lucidità di un campione di scacchi che gioca una simultanea contro quindici avversari.

Ma dopo quell’ora è nebbia in val padana.
I miei colleghi ormai lo sanno e rinunciano ad un aiuto che sarebbe solo sulla carta. Se la cavano da soli, maledicendomi in silenzio e io nel sonno m’impegno a registrare una lieve irrequietezza, un doveroso sprazzo d’incubo partecipe dell’affanno altrui.
Ma ogni tanto c’è qualcuno nuovo che non sa come gira il nostro mondo e chiama. E allora son dolori. Non che io faccia sfracelli con l’incauto, è che faccio pasticci con chi non c’entra.
Come due ore fa, quando mi hanno scaraventato giù dal letto che erano le quattro del mattino.
Corro a sciacquarmi la faccia e a mettermi le lenti e mi precipito in sala parto. Mi precipito per modo di dire perché ho difficoltà a mantenere il pavimento in piano, mi sembra disassato, come anche tutto il resto: è come se vedessi da una parte le cose troppo vicine e dall’altra assai lontane. Penso ad una dispercezione legata al sonno e mi arrabatto a camminare storto con la testa tutta sbilenca per compensare in qualche modo la visione asimmetrica.
Quando, rasentando il muro a palmi aperti, entro in sala parto, tutti mi guardano stupefatti. Peggio del solito, mi redarguisce la vecchia ostetrica, che mi conosce bene. Perfino la donna che sta per partorire e che fino a un momento prima avevo sentito urlare, alza la testa e ammutolisce; certo si sta chiedendo se sono ubriaco e subito riprende a urlare con una disperazione in più. Faccio un cenno con la mano per dire che tutto è sotto controllo, ma non ci credo nemmeno io, figuriamoci loro. Per pura formalità, mi ragguagliano sul caso, la signora è completamente dilatata, dovrebbe partorire da un momento all’altro, ma qualcosa impedisce al feto di procedere. Nuovo cenno di rassicurazione da parte mia, ma il mio tastare gli oggetti usuali come un cieco, non aiuta nella rassicurazione.
D’altra parte, da quel poco che riesco a vedere anche gli altri protagonisti di questa sceneggiata non sono al meglio: il ginecologo è tutto storto da far invidia ad Andreotti e indossa sotto il camice un giubbotto di piumino, che qui ci sono almeno quaranta gradi. Ho il torcicollo, mi dice, ma secondo me è un eufemismo per non ammettere che è proprio messo male; ogni volta che deve controllare a che punto è arrivato il bimbo, compie tre lenti giri su se stesso come si stesse avvitando prima di riuscire a tuffare la faccia all’altezza giusta tra le cosce della signora. L’inserviente di sala non so che le ha preso, ma sembra un tacchino col singhiozzo, ciondola il capo e rincula il sedere in un sincronismo da ballerina di tango. E poi c’è l’infermiera del nido, la Silvietta, una vera bambolina. Se ne sta in un angolo tutta intabarrata nel camice da sala, pronta a raccogliere il bimbo che chissà quando nascerà. Sta lì silenziosa e un poco assente, ma a un certo punto la vedo barcollare. Capisco che sta per svenire e le vado incontro per sorreggerle almeno il capo. Purtroppo con quest’occhio destro che vede in un modo e il sinistro che vede in un altro, manco la presa di circa mezzo metro e sto lì come un portiere dell’Inter a brancicare l’aria mentre la palla, no, la testa della poveretta dà una craniata sul pavimento da far tremare i vetri. La signora interrompe la contrazione, si solleva stravolta sui gomiti e mi dice “mi giuri che non lo prende lei il mio bambino”. Gli altri mi riaccompagnano all’isola neonatale, mi fanno toccare i bordi del lettino e mi pregano di non muovermi più di lì.
Insomma è una tragedia annunciata.
E il bambino non nasce.
E intanto il ginecologo continua ad avvitarsi, il tacchino-inserviente gloglotta, Silvietta sviene e rinviene ogni sette minuti e mezzo e la signora che deve partorire non partorisce.
Io ormai ho smaltito la sonnolenza, ma la mia vista non è migliorata.
Scoccano le sei, arrivano le forze fresche del cambio turno.
Alle sei e un minuto la signora sforna un magnifico bambino e dice, non ce la facevo più a trattenerlo, ma l’importante era arrivare al cambio turno.
Io continuo a vedere male.
Vado a svegliare il mio amico dell’oculistica e gli racconto preoccupato l’accaduto. Lui mi guarda con aria comprensiva e senza accennare a visitarmi dice:

-hai invertito le lenti, coglione!-

 

massimolegnani

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Amalia

Scritto da Before.C. il 20 Gennaio, 2013
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Foto di MV

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Come al solito, dò il cambio in anticipo per la guardia di notte in Chirurgia, la quarta in otto giorni. Se non che sono uscito dalla Sala Operatoria tre ore fa: giusto il tempo di andare a casa per un panino, controllare la mail, starsene un po’a guardare le foglie secche che cadono dall’imponente albero di noci vicino casa, e tornare in Ospedale.

Negli ultimi tre anni abbiamo avuto tre pensionamenti e un trasferimento e ormai siamo rimasti in sei: nonostante tutto reggiamo il peso di tre sedute operatorie settimanali e guardia H24 più la reperibilità per le urgenze. In Regione Campania, ai tagli della spending review si sommano il piano di rientro e la cronica disorganizzazione.

 

Il collega smontante, nel passarmi le consegne, mi dice: “Sai chi abbiamo in appoggio in Ortopedia con una subocclusione intestinale? Amalia S., te la ricordi?”. Il nome mi suona familiare, ma non riesco inizialmente a focalizzarla. Poi mi ricordo la storia.

Trent’anni fa, da poco entrato in Ospedale, una delle ospiti ricorrenti era lei, Amalia, con una patologia stranissima che non ho mai visto descritta nei testi di Chirurgia: i due glutei erano piatti e solcati da profondi incisioni cerebriformi; periodicamente, dal fondo di una di esse, si sviluppava una fistola con secrezione purulenta. Oggi sarebbe stata trattata a domicilio e ambulatorialmente, ma all’epoca, con sessanta posti letto a disposizione e senza l’incubo dei DRG e dell’appropriatezza del ricovero, non avevamo problemi a tenerla periodicamente con noi. Anche perché Amalia era una paziente “speciale”.

Epilettica fin dall’infanzia, con crisi non sempre controllate dalla terapia, veniva da una famiglia estremamente povera; il padre la costrinse, all’età di ventun anni, a sottoporsi ad isterectomia “profilattica”, perché “se rimaneva incinta e faceva un figlio, con le crisi che aveva il bambino le sarebbe caduto dalle braccia”.

Si era sposata con tale Francesco (“Ciccillo” per tutti), invalido e disoccupato, e vivevano in un casa di proprietà del Comune, che eravamo riusciti a far loro avere grazie a continue segnalazioni. Periodicamente, quando Amalia si ricoverava, riuscivamo anche, a nostre spese, a mandare qualcuno che si occupasse di una pulizia straordinaria dell’abitazione, e che rifiutava di tornarci successivamente. Ciccillo, nei periodi di degenza di Amalia, si stabiliva praticamente in Ospedale, un po’ per l’affetto verso la moglie un po’ perché il vitto dell’Ospedale che gli passavamo era sicuramente una prelibatezza rispetto al solito menù casalingo.

Non ho più visto Amalia per decenni. Per questo, quando il collega me ne segnala la presenza, vado subito da lei. Non è cambiata molto: un volto forse un po’ amimico e sicuramente triste. Non mi riconosce subito: quando le dico il mio nome mi stringe le mani e quasi piange. Poi mi racconta che Ciccillo è morto da quattro anni; il giorno dopo il funerale, un fratello è andata a prenderla a casa e le ha detto di preparare i miseri bagagli perché sarebbe andata a vivere con la sua famiglia. Una volta in macchina, l’ha portata in un ospizio (abbastanza conosciuto per non essere esattamente un Albergo a cinque stelle), dove tuttora vive. Il cambio della biancheria ha cadenza bimestrale e il trattamento non è propriamente “amichevole”.

Poi la figura del medico rispunta e vado avanti con la storia clinica recente e con la visita. Amalia ha il sondino naso-gastrico, ma si sente “graffiare in gola”. Le cerco un po’ d’acqua e la imbocco con un cucchiaio; la convinco a tenersi quel tubicino nel naso. Devo andare a vedere gli altri pazienti ricoverati in Chirurgia, la devo lasciare…ma Amalia non mi lascia le mani, se non dopo ripetute promesse di tornare subito.

Cosa che faccio appena mi sono liberato. Non dorme ancora, mi aspetta, mi prende le mani e così dopo un po’, si assopisce.

Rimango a guardarla: mi sono sempre chiesto se è solo compassione quello che ci muove verso Amalia e le tante altre persone con storie simili in cui ci imbattiamo nella nostra vita professionale. No, c’è anche affetto, che nessuna delle riforme cui periodicamente la Sanità viene sottoposta ha mai citato, e che assieme a senso del dovere, di responsabilità, a coscienza fa sì che ogni giorno tutte le Amalia d’Italia possano avere una mano da stringere.

 

Before.C.

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Tre indizi fanno una prova

Scritto da Davide_dlba il 16 Gennaio, 2013
pensieri / 1 Commento

foto di MV

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Agatha Christie parlava di segni del delitto, io di casualità.

Casualità che possono portare a commettere l’atto finale di una scelta.

Indecisioni, confermate o sbaragliate dalla faccia della moneta che è voluta cadere a faccia in giù quella mattina.

In un gioco a testa o croce, io, in questi quattro mesi, è come se avessi sempre puntato su ‘testa’.

Sognato che la Croce fosse sparita dal mondo per un po’, semplificandomi le cose. Mattinate e Settimane di lancio della moneta. La gara è alla meglio dei 120 lanci, 119 volte è uscita testa, ogni mattina della mia vita universitaria è uscita testa.

Ma Il 120esimo è il lancio decisivo, rischi di buttare tutto a puttane per una cazzo di Croce. 119 indizi non fanno una prova, fanno una quasi vittoria, un quasi successo, un quasi. Se fosse un ‘quasi’ sarei Fottuto.

(Ciao a tutti, è stato un bellissimo periodo, ho trovato qualcosa da fare nella mia vita ma devo mollare perchè in questi quattro mesi, pardon centoventi giorni, mi è uscita una Croce proprio all’ultimo lancio. Mi cercherò altri posti e altre persone continuando a lanciare e a lanciare)

Quella spontaneità che era seduta di fianco a me mentre il neurochirurgo mi faceva la domanda dell’esame. In quei secondi ho visto davvero la monetina partire dal polso di un essere superiore ed invisibile. In quel secondo pensavo al fatto che se fosse uscita testa anche a quel lancio allora sarebbe stato il terzo indizio, avrei avuto tra le mani e formalmente sul mio libretto universitario blu, una prova. Quella prova è uscita, era la mia domanda, inesistente sui normali libri di testo, presa in prestito da linee guida specialistiche. Nella mia risposta c’era più passione che conoscenza, anzi la conoscenza era massima ma la passione che mi ci aveva condotto era stata ancora di più. Era come se per andare a prendere il mio jet privato avessi avuto a disposizione il teletrasporto. La passione è stata il mio teletrasporto, da bambino che leggeva gli articoli di focus sul cervello. Da ragazzino che impara il nome di malattia di Parkinson allo studente che argomenta i vantaggi della deep brain stimulation nella terapia a lungo termine del paziente con scomparsa di responsività alla L-Dopa. Tante persone hanno messo qualche euro per comprarmi la super macchina del teletrasporto. Quattro mesi, centoventi giorni, in cui ho capito quali erano le rotaie. Il primo lancio della moneta è stato un regalo del caso, che si è presentato il primo giorno di tirocinio sotto forma del mio attuale Prof. Tramite questo piccolo regalo, casualità dell’ordine alfabetico della segreteria di facoltà, sono entrato in quel mondo che volevo tanto conoscere, che spiavo negli articoli di giornale dell’inserto medico scientifico. Un camice addosso. Un punto di partenza.
Per me non era un semplice esame di Neurologia. Era tutta la fede in quel che avevo sempre pensato ad essere messa completamente in dubbio. Non tanto una scommessa alla Pascal, più come quella del vecchiaccio che con tre mesi di vita si gioca le sue ultime settantadue ore su questo fottuto pianeta giocando un numero fisso in cui ha sempre creduto alla Roulette di un casinò del Nevada. Estremo come gesto, patologico se visto in modo oggettivo, romantico se lo si guarda da un altro punto di vista

(Sto bene adesso, disintossicato da quello che eri stata, fiero di essere quello che sono in questo momento)


Ti rivedrò domani sera e mi chiederai dell’esame, nonno, non potendo mai venire a sapere che in questi centoventi lanci sei stato il mio unico e grande esempio di vita.
Te lo dimostrerò girandoti il caffè.

 

Davide_dlba

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Ciglia finte

Scritto da massimolegnani il 12 Gennaio, 2013
emozioni / 8 Commenti

Foto di MV

Foto di MV

E poi non mi ricordo che cosa avrei voluto dire, che cosa sentivo spingere appena sotto pelle come la terra smossa da una talpa, affiorano tra l’erba montagnole esatte, segno di un lavoro sotterraneo che non vedi, che cosa mi pulsava come l’infiammazione di un livido recente che ti duole e non ricordi dove hai battuto.

È che oggi non è più ieri e noi viviamo di farfalle, le ali silenziose che ti passano davanti e se ne vanno. A volte te le ritrovi nello stomaco o si mantengono a colori vaghi impressi sulla retina, se sai chiudere le palpebre un momento prima che sia tardi. E ti resta come un gusto sulla lingua, insegui quel sapore che non riesci a definire e nel frattempo sfuma. No, non saprei tradurre ora i pensieri che si affacciavano e sparivano, bolle d’ossigeno che dal buio dei fondali svaniscono appena salgono fino in superficie.

So che pompavo aria in due polmoni ignari che non sapevano che farsene dell’ossigeno e comprimevo un cuore che si manteneva immobile e testardo. Avevo voci intorno, quella febbrile attesa del primo pianto che irrompe con la vita nella sala a trasformare l’ansia in risa. Ma ancora non si ride. Passano i minuti, non avviene la magia di tante volte, e presto arriva il punto in cui la vita diventa più rischiosa della morte. Il primo battito interviene in quel momento, un istante prima della resa. Allora sei costretto ad andare avanti a testa bassa, riprendi questa vita con le unghie e la consegni al bilico del caso.

Questi i fatti, nudi come quel bambino che non voleva vivere. Ma non saprei dire che cosa mi passasse per la testa in quei momenti, ho il ricordo d’impressioni, sensazioni contrastanti, pensieri nobili e ignobili, farfalle e pipistrelli che svolazzavano e svanivano.

E forse è un bene questo silenzio della memoria breve, perché troppi hanno parlato in questi giorni fingendo di sapere esattamente il bene e il male e facendo credere che davvero gli importasse della vita di qualcuno.

A me resta la sensazione di un errore a non essermi fermato un momento prima della vita, che adesso quella vita sarà un calvario lungo che impiegherà degli anni a ritornare morte.  E poi, al polo opposto, ho in mente il senso d’euforia balorda che mi prende dopo e che prescinde dal bene e il male. Non è solo sollievo di cose andate per un certo verso bene, è un assurdo desiderio di compensazione al consumo d’emozione, il diritto ad un rimborso, qualunque sia, le labbra di un’infermiera senza nome che incontravo quando alzavo lo sguardo dal lettino, il sorriso rubato ad occhi sconosciuti, lo sguardo indecoroso su un dettaglio di qualcuna che lascia che io guardi.

Così per qualche ora mi muovo sballottato tra due estremi, poi tutto svapora in un metabolismo accelerato. Oggi mi rimane l’impressione che davanti agli occhi mi siano passate le farfalle ma non ne ricordo più il colore.

 

massimolegnani

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Qualcosa in comune

Scritto da slowlyslowly il 07 Gennaio, 2013
poesie / 2 Commenti

foto di MV

Qualcosa in comune

Ciliegie, un nome

qualcosa insomma in comune

su cui transitare per poter parlare-

ponti-

uno almeno-

e si torna a sedere in poltrona

a muovere le mani

a portare un golfino sulle spalle

da trattenere se scende-

qualcosa in comune

da trattenere- di cui parlare-

“ Mucche ne avevano 200, tori 100!”-

gli occhi si illuminano a questi

mitici numeri-

numeri da Odissea

e sacrifici agli dei

su spiagge bianche

e mari calmi o in tempesta-

Ulisse, Achille,

altri nomi, anche i nostri-

qualcosa in comune-

se non si ha

si è muti

slowlyslowly

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Scrivere per non svuotarsi

Scritto da Liquida il 01 Gennaio, 2013
emozioni, pensieri / 6 Commenti

foto di HA

foto di HA

E voi chi siete? vi scopro stanotte… e vorrei stare a leggere tutti gli scritti, scoprire tutte le storie, le impressioni. Che bello trovare altri dottori che scrivono… che sentono il bisogno di tirare fuori qualcosa di buono da tutto questo, qualcosa di buono anche per loro, non solo per chi viene curato ed assistito. Vorrei leggervi… ma mi bruciano gli occhi, non riesco a stare troppo davanti allo schermo, lo sguardo traballa, gli occhi sono in fiamme, dopo già… quante? sedici ore di guardia? sì… e la mattina è ancora lontana.

E’ stato bello scoprirvi così, per caso, cercando i lattati alti su internet, che lo so che non si riesce mai a trovare niente di preciso sul web, ma non ho il libro adatto qui e poi confesso che…l ‘equilibrio acido base non l’ho mai capito! mai! La prima notte di guardia di settembre, e piove, e fa freddo anche! Era da un po’ che non facevo la notte… e riprendere con il (solito) turno di 24 ore dopo il sole, il caldo, le vacanze, il mare, le serate sul balconcino… è davvero dura.

Bello scoprire che c’è qualcuno che, dopo una guardia, vuole fissare le sue emozioni, impressioni, stanchezze e quant’altro, credo sia importante per non tornare a casa completamente svuotati.
Io prima scrivevo di più, per aggrapparmi alle cose. Negli ultimi mesi invece torno a casa svuotata (colpa anche di questi turni disumani e… lasciamo stare) e non voglio. Ora sorrido, vi ho scoperto, vi leggerò, scriverò. Mi sentirò meno sola, meno aliena.

buon lavoro e buona notte

Liquida

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Un giovedì di qualche settimana fa

Scritto da slowlyslowly il 29 Dicembre, 2012
poesie / Nessun Commento

foto di MV

foto di MV

Spesso si fanno belle chiaccchiere all’Hospice –
non sempre capita
ci dev’essere un pò di gioia in noi perché capiti –
qualche settimana fa si è parlato di giovinezza e vecchiaia –
e A. che ha 50 anni si è meravigliata
che abbiano cominciato a darle del lei
e una signora le ha detto: alla sua età mettevo la minigonna
e io ho detto: che bella la minigonna
e poi ho detto che sono entrata nell’età anziana
e una ragazzina davanti a me
rideva di tutto quello che dicevamo
e poi ho scoperto che ha tre figli –
eravamo in quel momento tutte donne –
a parte me e A. erano madri, figlie di persone
che nelle stanze erano a letto e stavano male –
ma lì nella nostra sala del thé c’era questa atmosfera
che mi faceva bene al cuore –
e prima ero andata a trovare A. nella sua stanza
ed ero contenta di vederlo parlare con un suo amico in visita –
mi ha guardato e chiesto: quali novità?
abbiamo accennato alla lotta dei minatori sardi –
poi lui mi ha detto: stai proprio bene oggi –
sì, gli ho risposto, hai visto mi sono messa anche la collana –
ho visto, ho visto, mi ha detto lui

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