Serata in hamburgeria con i soccorritori del 118, ed io sono sempre piuttosto monotono. Parlo sempre di lavoro.
Sono quelle serate con gente che conosci poco, con cui ti capita di condividere un turno, qualche birra ogni tanto. Giusto per non fare la figura dell’orso, il mio animale specchio.
Esco a fumare una sigaretta con C. che mi chiede come è andata l’ultima settimana…. Male, rispondo.
Nell’ultima settimana – di merda – ho avuto la sfiga cosmica di occuparmi di tre ventenni, che sono finiti uno peggio dell’altro.
Racconto brevemente il caso del 21enne morto di meningite, non mi vergogno di dire che ho pure pregato perchè rimanesse nell’aldiquà. E la soccorritrice, con un sorrisetto, mi dice: “Beh, non ti ci sei ancora abituato?”.
No cazzo, non mi ci sono abituato. Neanche un pò.
A. aveva 21anni. Al rientro dalle vacanze dapprima un vago malessere, una perdita di coscienza in stazione con intervento del mezzo avanzato ed immediato trasporto nella rianimazione di D., dove le condizioni sono apparse subito critiche. GCS 15 in rapido scadimento con una TC encefalo fortunatamente libera da sanguinamenti, scambi osceni. Sedazione, IOT, rachicentesi. Risultato: meningite da neisseria.
La banale copertura antibiotica parte subito, ma non serve ad arrestare la bestia. Una bestia che si mangia A. ogni ora che passa. A 24 ore dal tubo ci chiamano, il Paziente satura 37. Non sapevo che un saturimetro potesse essere affidabile fino a valori così bassi, ma l’EGA conferma. Come sempre il mio compito è fare l’idraulico, ovvero mettere in ECMO ARDS, shock cardiogeni, ecc. ecc..
Al mio arrivo in quella che definirò rianimazione periferica A. è già evidentemente oltre ogni ragionevole speranza di sopravvivenza. La porpora forma delle macchie liquide dal ginocchio e dai gomiti in giù, impedendo al sangue di raggiungere i tessuti. Non trattengo un “Minchia!” quando vedo le gambe. Le urine sono a lavatura di carne (quei pochi ml), Crea 13, CPK 75000, Lac 20, pH 6.8, CO2 30, PaO2 40, HCO3- 24, BE – 20.
Mi avvicino al letto: i colleghi hanno fatto moltissimo, e A. sembra Cristo in croce.
E’ poco più che un cucciolo. Ce la mettiamo davvero tutta: incannuliamo, contropulsiamo, Ceprotin ed accarezziamo l’idea di un plasma exchange.
Di ammalati così ne ho già visti un tot, e ricordo un solo sopravvissuto.
Mentre aspettiamo l’elicottero faccio entrare papà, nonna e mamma. Come sempre dettaglio la situazione clinica, spiego a cosa servono le varie macchine. La nonna, con cui A. vive, mi chiede almeno una speranza. Non ce la faccio a rispondere di si. Farfuglio qualcosa tipo: “La situazione è più che drammatica, stiamo a vedere, rimanetegli vicino”.
Ovviamente i Parenti, come sempre, vedono in noi una sorta di “Delta Force”, in grado di risolvere tutti i problemi, e rimangono delusi dalle nostre risposte.
Argomentiamo con dovizia di dettagli, poi esco a fumare la meritata sigaretta post-procedura.
Me lo dicono tutti che fumare fa male, specialmente se vieni intercettato dai Parenti. A cui non posso nascondere l’imminenza del dramma.
Sono piegati, mi raccontano che A. è un appassionato di motocross, e che la settimana successiva avrebbe compiuto 22 anni. In pochi minuti so tante cose di lui che non avrei dovuto e voluto sapere.
Arriva il momento del trasferimento, che avviene senza variazioni cliniche di rilievo.
Consegnato il Paziente ai colleghi, torno a casa. Sono le otto di sera.
Mi ritrovo a pregare, a sperare nel miracolo. Io, che a Dio non credo.
Il giorno dopo le notizie sono confortanti: la porpora in regressione, le amine in riduzione. La funzionalità renale che migliora.
Forse Dio esiste?
No, non esiste. Il giorno dopo A. ha un sanguinamento intracranico che, più nello specifico, è una emorragia con inondamento tetraventricolare. Iniziano le procedure per l’osservazione. Morirà il giorno dopo.
Mi chiamano a casa per dirmelo, siamo un bel gruppo e le vittorie e le tragedie si condividono.
Sono annichilito, frustrato: inizio con i forse…
Mi chiedo: perchè? Perchè proprio un ventunenne? Non è come per i traumi, questa è proprio sfiga.
Penso a suo papà e a sua mamma, alla nonna, alla fidanzata. Mi si chiude lo stomaco.
Cerco di spiegarlo a C., che sul 118 non vedi tutto questo, non vedi i morti che vedo io in rianimazione. Non stabilisci lo stesso lungo contatto con i famigliari, non fai in tempo ad affezionarti. Lei non mi capisce, fa il soccorritore, non è mai stata in rianimazione.
Le ho chiesto di venirci, di passare un giorno con me, di capire cosa vuol dire passare più di 20 minuti con un Paziente. Dovrebbe essere obbligatorio per un soccorritore.
Pensate soccorritori, pensate che se anche su un mezzo di base avete in mano una vita e quelle che intorno ad essa gravitano.
Ricordatevi di occuparvi dei Parenti quando il Paziente se ne sta andando, e del conforto che le vostre parole e le vostre mani, quando stringono quelle del Paziente, possono dare. Non dimenticatevi, colleghi, dell’importanza di appoggiare un braccio sulle spalle dei Parenti e della necessità di essere umani.
Intanto il mio pensiero va a lui, alla sua famiglia. E sono sicuro che l’unica cosa fatta davvero bene è stata ottimizzare l’analgosedazione, togliergli almeno il dolore e la consapevolezza dell’agonia.
L’ultima cosa che faccio prima di chiudere il pensiero su A. è di affidarlo a Matteo, il mio amico alpino, che “è andato avanti”.
Molto poco scientifico, ma sicuramente una consolazione per la mia anima.
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