Questo o quello… per me pari sono

Scritto da Magamagò il 07 luglio, 2017
racconti / 2 Commenti
foto di AD

foto di AD

 

Stanotte gliela voglio raccontare io una storia a quella dottoressa che scrive racconti nelle pause, brevi pause notturne, durante il suo lavoro in Rianimazione. Io lo so che a volte scrive al computer quello che le passa per la mente, quello che le passa per il cuore: ognuno di noi ha un suo modo di scacciare le paure, le ansie, i brutti pensieri; lei scrive.
Lo so, e poi me lo ha confidato lei stessa la prima notte, quando sono arrivato qui in reparto, più morto che vivo per colpa del cuore che sembrava un orologio impazzito; avevo però un barlume di coscienza e tanta voglia di non arrendermi.
Adesso sto molto meglio, presto mi trasferiranno in Cardiologia, ma prima voglio regalarle io lo spunto giusto, perchè lei sa usare belle parole, ha studiato tanto, è cresciuta in una casa piena di libri e di certificati di laurea appesi al muro insieme con le foto di famiglia.
Ma è ancora giovane e tante cose della vita non le sa.
Io no, non ho studiato, non c’erano i soldi, io sono emigrato da piccolo con la mia famiglia, sono stato un emigrante prima della guerra, la seconda guerra mondiale, tanto per distinguerla da tutte le centinaia di altre piccole sparse per il mondo.
Sono emigrato in America, come questi migranti di oggi, come quest’uomo nero del letto accanto, in coma per una pallottola nel cranio.
No, non proprio come lui, lui è un MIGRANTE, ed io ero un EMIGRANTE.
Forse è quella E, che non so quando e perchè sia caduta nel dimenticatoio, che fa la differenza.
Noi italiani siamo emigrati per sfuggire dalla miseria nera, dalla fame, con miriadi di figli, uno all’anno, che le nostre mogli sfornavano in campagna. E poi c’era il miraggio della ricchezza, del “sistemarsi “ aiutati da chi era emigrato prima di noi e aveva fatto fortuna, ed erano in tanti.
Ma la storia di questo africano è diversa: sa dottore’ me l’ha raccontata lui stesso notte dopo notte. Non con le parole, poverino non le pronuncerà mai più, nè nella sua lingua nè nella nostra.
Ma lo gridava la sua pelle nera che parlava di entroterra africano, lo spiegavano i calli sulle mani e sotto i piedi, che parlavano di lavoro duro nei campi, a dissodare terre arse avare di erba, lo sussurravano le cicatrici sulla schiena frutto di angherie dei padroni e di torture della sedicente polizia del suo paese. L’ho letto nei suoi occhi, senza lacrime, persi nel vuoto di ricordi lontani, e che non vedono nessun futuro, roseo o meno che sia.
I nostri emigranti tornavano spesso ricchi, almeno benestanti, con foto di belle case, belle macchine, con mazzette di denaro frusciante, che veniva voglia di seguirli anche oltre oceano.
I migranti che arrivano da noi hanno solo l’angoscia di essere fuggiti da fame, guerre, angherie e di aver trovato spesso il vuoto.
Sai dottore’, forse pensava di essere avvantaggiato, con la sua pelle nera, di non essere scoperto, quando è entrato di notte in quella villa: i suoi figli avevano fame e lui aveva visto la signora buttare nel secchio quella bistecca intera, che il bimbo non aveva voluto mangiare per capriccio. A forzare la serratura glielo aveva insegnato un italiano, a cui poteva poi portare la refurtiva in cambio di pochi euro.
Invece, maldestro, aveva incontrato il padrone di casa, con la pistola appena comprata, tanto aveva sentito in TV il nuovo disegno di legge sulla legittima difesa.
Così è finito qui, con una pallottola nel cervello, in coma irreversibile. Al padrone di casa non succederà nulla, era “ legittima difesa”!! ma accidenti! vorrei che almeno questo “salvatore della patria” fosse costretto a pagarti le spese di ospedale finchè il tuo cuore forte ti manterrà in vita, e fosse condannato a venirti a trovare tutti i giorni, all’orario di visita, col rischio di incontrare la tua famiglia.
Dottoressa, per lei la vita ha un solo valore, ed è uguale per tutti… ma per gli altri ?
Lo so, lei ha scelto di fare il medico per curare tutti e non dovere, anzi volere, scegliere.

Magamagò

Soffi cardiaci (San Valentino)

Scritto da Gigi il 29 giugno, 2017
poesie / Nessun Commento
foto di MV

foto di MV

Rumori. Che si provocano per una vertigine del sangue,

un moto vorticoso che fa vibrare le valvole e il cuore intero.

A volte più intensi e accompagnati da un fremito,

quando accosti la mano, superando il pudore, per palpare il petto.
Musicali per l’orecchio, o come un canto di gabbiano, oppure aspri, perfino duri.

Nei giovani sono innocenti,

come se il muscolo emettesse un sospiro adolescenziale,

benigni come i primi amori.
Nell’anziano sono rudi,

segno di malattia come le tracce profonde della vita,

frutto di indurimento delle valvole e di tutto il cuore.

Organici alla condizione e all’età, senza più ideali.
E che succede se il cuore batte all’impazzata?

Sbuffa, soffia, come una locomotiva a vapore,

con la pressione che sale e le ruote che accelerano…

Una stenosi aortica – calcifica – è una pena profonda,

che nella difficoltà ti stringe come una morsa.

Un cuore che si tormenta con un rombo cupo, che cresce,

spinge fuori il sangue, poi prende fiato, poi risale di nuovo.

Un ritmo faticoso da tenere, che va fuori fase e a volte fibrilla.
E la polmonare stenotica non è da meno,

anche se il destino vuole che sia più fortunata, mai così grave.

Ma se sono le valvole atrio-ventricolari (la mitrale! la tricuspide!)

che ti portano in sala motori – la sala da spinta dei ventricoli –

ad essere difettose, insufficienti, a non tenere più,

allora tutto torna indietro,

il sangue che dà vita ti rimbalza contro,

in un va e vieni infinito: olosistolico, quel maledetto soffio!

Se ti va bene.
Già, perché se il danno è severo

ti frega anche la diastole: allora si che balli.
Ma puoi scegliere: puoi ballare solo all’inizio

– e la chiamano protodiastole… –

quando il sangue proprio non ce la fa ad andare avanti,

ritorna a casa mogio mogio dall’arteria polmonare o dall’aorta,

perché la guardia delle valvole è insufficiente

e pietosamente lo lascia rientrare.

E il sangue, quando si accuccia in punta al ventricolo,

rulla come il vecchio pirata su una nave fantasma: il rullio di Austin Flint.

Se invece è l’entrata attraverso la guardia mitralica o tricuspidalica

ad essere serrata, stenotica, ti toccherà rullare per tutta la diastole,

e peggio per te verso la fine, ché si contrae anche l’atrio.

**************

Anche se fuori tutto è magnifico
Non lo prenderò come un rimprovero
È possibile abbia sogni sbagliati
Un po’ illusi al momento
Mi appartengono

Gigi

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Testamento

Scritto da Magamagò il 15 giugno, 2017
emozioni / Nessun Commento

Foto di NC

 

TESTAMENTO: dal greco diatheke “patto”
Come dite dottorè? Si lo so cos’è il testamento biologico, o dichiarazione anticipata di trattamento. Non ho studiato molto ma mi tengo aggiornata, leggo, guardo la televisione e se non capisco qualche parola guardo nel vocabolario, o domando a qualcuno perché tante parole nuove o straniere nel mio vecchio vocabolario non ci stanno. E poi penso, ragiono; ho tanto tempo ora, e il corridoio davanti alla Rianimazione è così tranquillo, così silenzioso. E sono d’accordo, penso che sia giusto decidere tutto della propria vita: cosa leggere, quale scuola frequentare, quale professione intraprendere, chi sposare, a quanto andare in macchina…

Prendiamo tante decisioni  nella vita che anche l’ultima spetta a noi. E se non ci arriviamo dobbiamo essere aiutati, perché non si è tanto autonomi con un tubo in gola, un tubo per fare pipì, un tubo per mangiare, non si è tanto autonomi se non si muove neanche un dito, si battono solo le palpebre; e invece i neuroni, quelli sì che si muovono, con le sinapsi a posto e con le idee chiare in testa, ma costretti in un modo che non si augurerebbe neanche al peggior nemico.

E se poi il cervello non c’è più, o quasi, allora si deve avere il diritto di essere aiutati nell’ultima decisione, quella pensata magari tanto tempo prima ma mai rinnegata.

Come dite dottorè? Dovete mettergli un altro tubo? Se serve fate pure.

Vi ricordate tutto quel putiferio riguardo a quella bella ragazza in coma, quella col padre che voleva scegliere per lei e liberarla, e condannare se stesso ad una vita con questo macigno addosso? Se invece di far circolare quella bella foto, quell’immagine di un momento felice, avessero pubblicato una foto di com’era diventata dopo anni di coma passati in ospedale, sia pure con tutti i riguardi, scommetto che molti “benpensanti” non avrebbero più gridato all’omicidio.

Dite che parlo troppo dottorè? Scusate, sì mi metto tranquilla, e certo che risponderò alle vostre domande. Non posso fare altro per lui.                         

Sì, non aveva malattie prima, sì era sano come un pesce il figlio mio, era anche donatore di sangue, ed era bello come il sole, tutto suo padre.

No, non mi aveva detto nulla, mi aveva sorriso… anzi no mi aveva detto “ci vediamo presto “, e poi se n’era andato.
A buttarsi dal ponte se n’era andato, con le pietre nelle tasche per affogare prima, prima che un’ultima voglia di vivere lo spingesse a nuotare verso la superficie.
Ma poi si salva, sì?
Ah, dite di no, che le cellule cerebrali sono state irrimediabilmente compromesse dall’anossia prolungata, che l’EEG è piatto da giorni, e ora non ce la fa più a respirare da solo. Ma il cuore è forte, dite.
E non vi rattristate per me, dottorè , sapete che si fa? Doniamolo a qualcuno questo cuore, e anche il resto, reni, polmoni, cornee, fegato, tutte quelle parti sane di lui che ancora restano e che  amavano la vita. Non come il suo cervello che come direttiva di fine vita lo ha portato su quel ponte a 20 anni. Il cervello è suo, ma il resto è mio, mio che sono la madre, che l’ ho messo al mondo, ma al mondo  ci siamo solo noi due, e dunque spezzettiamo questo figlio mio e facciamo vivere altri figli, in sua memoria. Questo deve essere l’unico testamento valido.
Sì mi calmo, sono calma, ma ora dottorè scusate, lo vado a salutare, a dirgli ” ci vediamo presto “, e poi le firmo tutte le carte che servono perché così avrebbe voluto fare il figlio mio, io lo so:

Magamagò

Per fortuna mia è tutta fantasia, ma credo molto in tutto quello che ho scritto.

Manca qualcosa?

Scritto da Giramondo il 01 giugno, 2017
cronache / 3 Commenti
foto di NC

foto di NC

La guerra in Afghanistan (quest’ultima intendo…) è iniziata nell’Ottobre 2001…
Sì lo so, mi sembra già di sentirvi… ma che palle questo qui con la guerra in Afghanistan, e ormai non ne parla più nessuno, e cosa c’è da dire ancora, il solito pacifista rompiballe…
ALT, fermatevi un momento.
Rilassatevi, tranquilli… dedicatevi questi 10 minuti per finire di leggere.
Nessuna retorica pacifista.
Nessuna argomentazione politica da proporre.
Sono solo un chirurgo che lavora da dieci anni in paesi in guerra, e circa la metà di questi anni li ho passati in Afghanistan. Volevo semplicemente condividere alcune descrizioni cliniche dell’ultima settimana di ammissioni nell’ospedale dove attualmente lavoro, nel sud dell’Afghanistan.
Vediamo un po’.
A un bambino di 10 anni ferito da mina manca una gamba.
Ad una bambina di 12 anni ferita da mina mancano le due gambe e la mano destra; in poche parole, se sopravvive, avrà bisogno per tutta la vita di qualcuno che la spinga in sedia a rotelle perché con una mano sola proprio non si può.
Ad un bambino di 15 anni ferito da schegge di un missile mancano entrambi gli occhi; avrà bisogno per tutta la vita di qualcuno che lo aiuti a fare tutto.
A un bambino di 14 anni mancano una gamba, l’ano ed il pene, portati via da una mina; adesso però in più ha una colostomia ed un catetere sovrapubico che porterà per tutta la vita.
Ad una bambina di 4 anni (quattro anni) manca la parola: un proiettile le ha portato via lingua e mandibola ma le ha regalato una tracheotomia per respirare ed una gastrostomia per nutrirsi.
Anche ad un altro ragazzino di 16 anni manca la parola. A lui però la pallottola ha portato via il cervello temporo-parietale sinistro con l’area di Broca: è arrivato in pronto soccorso con la materia cerebrale che colava sulla barella e sul pavimento. Il suo Glasgow Coma Scale era 10, per cui abbiamo chiuso la sua ” dura mater ” con un bel patch di fascia lata della coscia; andrà a casa così: muto, parlando con gli occhi e paretico a tutto l’emisoma destro.
Diciamo che questi sono solo pochissimi casi di questa settimana; le ammissioni giornaliere variano dalle 5 alle 15 al giorno, ogni giorno; vengono ammessi solo ed esclusivamente feriti di guerra. Fate il conto in un mese, fate il conto in un anno.
Questo Ospedale ha 90 letti… sempre pieni.
Questa guerra, dicevo, dura ormai da 16 anni ( più o meno tre volte la durata della Seconda guerra mondiale, tanto per capirci ).
Alle persone che vivono qui cosa ha portato ?
Sono PERSONE, come me, come te che mi leggi. Sono esseri umani.
Sono bambini, bambini normali… bambini come tutti i bambini.
Manca qualcosa? Manca il senso di appartenere tutti alla stessa famiglia umana.
MANCA UMANITÀ.
NON C’È NESSUNA PIETÀ.

Giramondo

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5 marzo 2017

Scritto da Gigi il 15 maggio, 2017
poesie / Nessun Commento
foto di EP

foto di EP

 

Appoggi il gomito.
Appoggi il gomito alle spondine,
fragile confine tra te e la malattia
e insieme limite di vite disarmate,
gabbia contro rovinose cadute
da superare come quella distesa infinita
che tiene lontano il miraggio
di un’Europa scintillante.
Ah, maledetta scala di Conley!

Avvicini il muso.
Avvicini il muso come un san Bernardo
dal tartufo umido
fino alla soglia prossemica
– lo spazio vitale di quella
indifesa faccia avvizzita –
non per annusare pannolini e malattie
(comunque, forse è un dono, hai poco naso!),
ma per fiutare l’odore degli anni.

‘Come sta, signora Carolina?’
(son tutte Caroline le nonne del mondo
quando fanno compagnia ai bimbi
e sempre mi ricordano la dolce Mucca Carolina
di un famoso formaggino).

‘Me lo dica Lei!’

Tutto-O-key tutto-O-key…

‘Le sue condizioni sono buone
e i suoi esami vanno davvero bene.
Solo un piccolo scompenso cardiaco
e una breve insufficienza respiratoria,
ormai superati.
Ma io intendevo chiederle se ha male,
se qualcosa le duole…’

‘No, non ho male’.

‘E’ fortunata, perché nonostante la sua età
– gira intorno ai cent’anni –
il fisico regge bene: è ancora in gamba!
E poi è molto lucida e ragiona con intelligenza.
Brava!’

‘La invidiamo molto’,
aggiunge con calore la Simo,
l’infermiera che ci accompagna nel giro visita.

‘Oh, non dica così, signorina!’
ribatte con gli occhi un po’ spenti,
lasciando entrare in tutti una goccia
di tristezza inaspettata.
‘E’ vero, ho ancora i figli
ed anche dei nipotini,
ma non dica così:
a questa età non rimane nulla da fare,
non si vuole più nulla’.

E forse, pensi, non hai più sogni:
touchè!

E allora, pensi,
quando sarò su quel giaciglio
– spero un bel po’ più in là (sono sincero!)
ma la vita è un soffio –
‘lasciatemi scavalcare quelle spondine,
anche se,
come sempre
e per tutta la vita,
cadrò ancora una volta’.

O se invece vorrete diversamente,
lasciatele su:
perché mi affiderò a voi,
senza timore
e non parlerò di eutanasia…

Purché ricordiate in ogni caso
di amare
quello che sono stato,
quello che sono
e quel che sarò.

 

Gigi

La vita prende il sopravvento

Scritto da Gio il 01 maggio, 2017
emozioni / Nessun Commento
Foto di HA

Foto di HA

Stanotte non posso dormire

e penso che sia perchè la mia testa non può contenere tutte le emozioni della giornata.

Ore 8.00 entro in ospedale e mi dirigo subito in terapia intensiva dove ho ricoverato 3 dei miei pazienti trapiantati di midollo. Rivedo i parametri della notte, tutti gravemente stabili, e comunico alle infermiere che ritornerò più tardi a parlare con le famiglie. Sono preoccupata per alcuni di loro.

Ore 9.00 45 minuti di lezione supercondensata sulle emergenze nel trapianto di midollo al gruppo di specializzandi appena arrivati. Sgomento sui loro visi.

Ore 10.00 convocazione urgente della direzione ospedaliera per discutere come gestire la famiglia di uno dei pazienti in terapia intensiva che ieri ha minacciato di morte lo staff medico e ha fatto comparire un coltello a serramanico dal nulla.

Ore 11.00 colloquio con la famiglia di un altro dei pazienti in terapia intensiva. Tobia, 7 mesi oggi, 4 settimane post trapianto. Purtroppo non ce la farà. Lo sappiamo da quando abbiamo guardato la TAC del torace di ieri che è invasa da una infezione fungina. Lo sappiamo perchè i suoi reni hanno smesso di funzionare nella notte e il suo fegato è imballato. Ora sono qui a convincere una famiglia che ha già perso altri figli in passato che insistere è inutile. Dopo un colloquio straziante i genitori ci chiedono di sospendere le cure (che in questo Paese è legale). Esprimono il desiderio che Tobia possa morire fuori dalle mura della terapia intensiva. Organizziamo i penosi dettagli della procedura. Lacrime e rabbia.

Ore 12.00 salgo in reparto per valutare con gli specializzandi gli altri pazienti. Tra cui Filippo che ha 6 anni, una leucemia mielolmonocitica recidivata 3 settimane dopo il trapianto e quindi ora è in palliazione. Padre straniero, vedovo da poco, aspetto l’interprete che viene ogni giorno per comunicare con lui. Morfina, ketamina e midazolam stanno facendo il loro lavoro. Filippo è vigile ma non ha dolore, ogni tanto ha un po’ di ansia e quindi ha bisogno di un po’ più di midazolam. Ma oggi verrà Superman a trovarlo, lui è contento. Chiedo alle infermiere di aspettare ad aumentare l´infusione, vorrei che fosse sveglio quando Superman sarà nella sua stanza.

Ore 13.00 una delle mie specializzande sta discutendo di fronte a un gruppo di colleghi i dati della sua tesi per cui abbiamo lavorato insieme. Sto per andare da lei ma la terapia intensiva mi chiama e non riesco a raggiungerla per tempo. Mi dispiace non esserci in un momento che so essere importante per lei.

Ore 14.00 nuova riunione per aggiornamento sulla famiglia che ci minaccia di morte, un sacco di scartoffie da compilare ma il nocciolo della questione è che questi genitori hanno un figlio gravemente malato e non ci sono scartoffie che toglieranno il loro dolore e la loro rabbia

Ore 15.00 Tobia è mancato. Nel giardino dell’ospedale, al sole, con la sua famiglia accanto.

Ore 16.00 entro nello studio delle infermiere e c’è una festa . Fiori, regali, i miei colleghi… è il mio ultimo giorno prima del congedo di maternità. Le immagini mi scorrono davanti come se fosse in un film. Non mi sento io la persona che stanno festeggiando. Non sono io che da domani non sarò coi miei pazienti per qualche mese. E soprattutto non posso festeggiare oggi, dopo Tobia, Filippo… il cuore fa a pugni con la mente.

Ore 17 altro giro in reparto per rivedere alcuni pazienti e parlare con le famiglie, Sofia, Luca e Sara stanno ricevendo una delle terapie più avanzate a disposizione per la loro leucemia super aggressiva. Famiglie che vengono da tutto il Paese per poter avere accesso a questo trattamento. Stanno andando bene per ora, tengo le dita incrociate. La loro guarigione sarebbe un traguardo importantissimo.

Ore 18 I neurologi vogliono vedermi per Alessandro, 2 anni, il terzo paziente in terapia intensiva. Sembrava migliorare ma forse negli ultimi due giorni i suoi sintomi si sono riacutizzati. Discuto con loro e con la sua mamma, donna fortissima che accompagna Alessandro da 12 mesi senza mai essere stata dimessa.

Ore 19 mentre esco dall’ospedale incontro Tommy in ascensore. 5 anni , 2 mesi dopo trapianto, anche lui venuto da lontano per ricevere una diversa terapia sperimentale. Sta molto bene, è uscito a fare un giro pomeriggio e sta recuperando le sue forze di giorno in giorno. I miei colleghi lo dimetteranno la prossima settimana .

Sulla via di casa penso che se avrò un decimo della forza che hanno le famiglie dei miei bambini sarò un genitore fortunato.

Ora pausa. La vita prende il sopravvento.

Ma come è difficile dormire stanotte.

Gio

La magia del Natale

Scritto da Magamagò il 15 aprile, 2017
ritratti / 1 Commento
foto di BDV

foto di BDV

E’ la vigilia di Natale, la notte del 24 dicembre, per essere chiara, ed io sono di guardia in Rianimazione; ho scelto io questo turno, tanto mio marito è reperibile chirurgo, la bimba è a casa coi nonni… sistemato tutti, così domani saremo liberi di festeggiare. Abbiamo anticipato solo l’apertura dei regali che stavano sotto l’albero già da un po’. A casa mia si aprono il 24 sera, a casa di mio marito si aprirebbero il 25 mattina ma naturalmente ha vinto la mia tradizione, complice anche nostra figlia che non vedeva l’ora.
Sembra una notte tranquilla, con pochi pazienti e tutti stabili: l’ultima arrivata è una nonnina di 90 anni a cui un embolo ha tolto quel poco di lucidità che l’Alzheimer aveva risparmiato. Fa tenerezza, sembra un uccellino caduto dal nido, piccolina,come me, magrolina; era una professoressa di lettere quando era nei suoi panni, molto amata e rispettata dai suoi alunni mi dicono, e che viveva per la sua “missione “. La definiva così la sua professione. Ogni lavoro, se svolto con impegno e passione è una missione da portare avanti nel mondo, diceva mia madre.
E’ una notte tranquilla e siccome siamo una Rianimazione aperta permettiamo ai familiari di entrare e stare il più possibile accanto ai loro cari.
Ma stanotte fuori nel corridoio ad aspettare c’è solo la figlia della nonnina; ci passa le giornate nel corridoio, su di una sedia, lo sguardo perso fuori dalla finestra, immobile. Le faccio cenno di entrare, cerco di allacciare un rapporto.”Niente festeggiamenti?” La frase cretina (inopportuna avrebbe sottolineato mia madre con la matita blu) mi scappa di bocca, sto per scusarmi quando lei mi risponde alzando le spalle: “La mia famiglia è qui”.
Poi si siede accanto al letto, le prende la mano, quella senza pulsiossimetro al dito e gliela stringe forte forte. Ha imparato subito le regole e i rituali di questa “stazione”e li osserva scrupolosamente, meticolosamente, per non essere la causa involontaria di un allarme. Non abbia paura -la rassicuro- sappiamo distinguere i falsi allarmi da quelli pericolosi.
“Non ho paura -mi risponde- ma sono una bibliotecaria, e ho rispetto per le cose e sono meticolosa di natura, oltre che per abitudine lavorativa “. Mi spiazzano le sue parole,e non è la prima volta;delle persone che incontro qui dentro so sempre troppo poco. Conosco i bisogni essenziali, a volte le aspettative di vita, l’amore che c’è intorno a loro, siano sani o malati. Ma non basta, non basta mai.
“Le parli, le racconti qualcosa di voi, dei bei momenti passati insieme. parli del passato ma non del futuro, forse la sua mamma lo conosce fin troppo bene, meglio di noi, e non vorrei vederlo riflesso nel suo viso”.
Lei mi guarda, annuisce, e poi inizia a parlare, ora guardando la mamma, ora guardando me, ora fissando la mano sottile che stringe nella sua.
“Lo sai mamma che giorno è oggi? Il 25 dicembre: ricordi, lo chiamavi sempre così. Fra qualche ora metterai al mondo due bimbe bellissime, due gemelline adorabili, eterozigote, come sottolineava sempre il professorone che ci aveva aiutate a nascere. E tu, facendo la finta tonta, quella che non ne conosce l’etimologia, pur avendo insegnato greco per una vita, gli chiedevi: “E che significa?” “Che saranno gemelle diverse.” rispondeva con sussiego il professore. E tu allora scoppiavi a ridere, con la tua risata travolgente : “Ma i figli sono sempre diversi, anche nelle somiglianze”.
E’ vero, è stato proprio così, ma tu sei stata una mamma uguale per tutte e due, e nello stesso tempo la mamma che ognuna di noi avrebbe voluto avere, e di cui aveva bisogno. Siamo nate alle 3 di notte del 25 dicembre, ma tu ci facevi sempre due regali, uno per il compleanno e uno per il Natale, fino all’anno scorso. Quest’anno no, quest’anno ci hai fregate.”
Io mi allontano con una scusa di lavoro e con un groppo in gola.
Poi torno, sono le 3, torno e l’abbraccio e le dico: Buon compleanno!
E lei mi risponde: Buon compleanno, sorella mia!

Magamagò

Lo so che è Pasqua, ma c’è poca magia a Pasqua.

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Il mandolino non va sottovalutato

Scritto da Storyteller il 16 marzo, 2017
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foto di GP

foto di GP

Poco tempo fa giunge nella sala operatoria dove lavoro come anestesista un paziente da sottoporre ad un intervento di routine in regime di day hospital per il quale si è giudicata  preferibile l’anestesia spinale, pratica anch’essa routinaria e di cui io stesso avevo informato l’interessato nella fase detta di pre-ricovero. Arrivato nel locale di preparazione il paziente (pienamente cosciente perché noi non somministriamo sedativi in reparto, la vecchia preanestesia) tenta dapprima di imbastire una polemica sul fatto che il giorno precedente (domenica) non aveva avuto risposta al numero telefonico del reparto con le parole “ma allora fate festa…” e gli si risponde c’è chi lavora anche il sabato e la domenica e chi ha il riposo fisso e che il reparto in questione non sarebbe un day hospital se fosse aperto nei festivi.

Mi appresto quindi ad eseguire l’anestesia spinale e il soggetto indugia a mettersi nella posizione seduta che gli viene richiesta, mi guarda fisso e mi dice: “ guardi che non vorrei dovermi ricordare il suo nome, perché, sa, io alle persone ci tengo…”

Sì, avete capito bene: “io alle persone ci tengo”, in un contesto in cui siamo noi, medici e infermieri, che alle persone “ci teniamo”. Allora bisogna dire con chiarezza che non si tratta di una reazione eccessiva di una persona spaventata (è un adulto consapevole che si è fatto di tutto per mettere a proprio agio) ma che ci troviamo di fronte ad un genuino prodotto italiano, meno gustoso del culatello e della mozzarella di bufala, ma ugualmente noto nel mondo: l’avvertimento mafioso.

Poi l’anestesia viene eseguita senza problemi, il paziente non avverte né dolore né fastidio e io vengo gratificato con le parole: “però, bravo. Non credevo…”

E già, bravo (come tanti altri, ovviamente), però facciamo alcune riflessioni:

-le minacce dopo tutte le derubricazioni e depenalizzazioni degli scorsi anni restano un reato previsto e punito dal Codice Penale ma qui si è usata una perifrasi per minacciare senza fare apparire una minaccia diretta (che anche in questo ci sia una “professionalità”?);

-se il soggetto avesse dovuto discutere con funzionari del Catasto o dell’Agenzia delle Entrate (sono tutti incaricati di un pubblico servizio, come noi) avrebbe avuto lo stesso atteggiamento oppure si pensa che con il personale della Sanità in fondo si può?

-se il soggetto avesse ricevuto qualche risposta non garbata sul riposo settimanale degli ospedalieri o non avesse collaborato alla manovra e gli si fosse detto “non sia intollerante”,  forse lo avremmo visto recarsi all’URP, dove avrebbe trovato ascolto e forse gli operatori sanitari sarebbero stati chiamati a giustificarsi;

-e io dove e a chi posso segnalare un fatto del genere? Non certo sulla cartella clinica dove si annotano solo fatti relativi al percorso di diagnosi e cura.

Negli ultimi anni si è parlato “Medicina Narrativa”, cioè di affiancare all’annotazione, diciamo tecnica una sorta di storytelling in cui compaiano aspetti materiali, relazionali, psicologici del ricovero in ospedale, si pensi per esempio ai rapporti con i famigliari nei lunghi ricoveri nelle Medicine. Io non ne so molto ma ho cominciato a riflettere, più che sul mio povero esempio, su tutti gli operatori di Guardie Mediche, Pronto Soccorsi, Psichiatrie ecc. che hanno subito aggressioni e che hanno potuto segnalare e denunciare solo dopo che era accaduto il peggio.

Prima ti accoltellano e poi ti puoi tutelare? Non può andare così.

Sto terminando di fare queste riflessioni non ottimistiche quando in tv passa la pubblicità di Bancoposta con Vivaldi, il concerto per mandolino, archi e cembalo RV425,  una musica strepitosa e di grande leggerezza.

Decido di ascoltare tutto il concerto: il mandolino non è lo strumento folklorico che molti snobbano, ma esiste una letteratura ed esistono ensembles mandolinistici.

Il mandolino non va sottovalutato.

Buona notte

Storyteller

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Mi piace pensare

Scritto da folfox4 il 08 marzo, 2017
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La notte del 13 agosto del 1980 ero di guardia come anestesista-rianimatore presso l’ospedale San Giovanni Evangelista di Tivoli (RM). Allora la guardia notturna era coperta da un unico medico sia per il reparto di Rianimazione che per la sala operatoria, con un reperibile fuori, pronto a raddoppiare per ogni necessità. Tra le 23.00 e le 23.30, dopo la visita serale ai malati di Rianimazione, ero andato a prendere un caffè con i colleghi infermieri della sala operatoria.

Ci affacciammo tutti e tre, la ferrista, l’infermiere di sala e io alla finestra posta alla fine del corridoio della sala operatoria che dava sul piazzale dell’ospedale. L’ausiliario ascoltava musica da una radio transistor poco distante.

Mentre si parlava del più e del meno, in sottofondo, il suono di una sirena di ambulanza incominciò a farsi strada nelle nostre teste.

Meccanicamente, la ferrista si fece indietro e si avviò nella sala di chirurgia d’urgenza. L’infermiere scosse l’ausiliario che andò a chiamare l’ascensore. Io entrai in sala per verificare che il respiratore, la monitorizzazione, i farmaci per l’anestesia e i fluidi fossero tutti disponibili. Saliva per i tornanti che dalla statale Tiburtina vengono verso Tivoli, e il suono era sempre più intenso.

La ferrista , l’infermiere di sala e io ci guardammo.

Capimmo, non so sulla base di che cosa, che era per noi, ma anche che non sarebbe stato semplice. Come da regola, l’ausiliario scese in Pronto per la prima occhiata. Confermò al telefono che era per noi. E nemmeno una roba semplice. Salirono in ascensore i ginecologi, il medico del Pronto la barella con sopra una ragazzina di 15 anni si e no.

Sul lenzuolo davanti alle cosce una pozza di sangue. Lei pallida respirava a fatica. Gli occhi sbarrati. Sudata fradicia.

Quando fummo in grado di iniziare la pressione arteriosa sistolica era di 60 mmHg e la frequenza cardiaca di 160 bpm.

La mettemmo sul tavolo operatorio direttamente col lenzuolo della barella.

Tra le gambe un muccio di anse intestinali.

Aprendo l’addome fu chiaro che l’utero era stato sfondato durante una manovra di raschiamento dell’utero per interrompere una gravidanza e invece del feto quello che era stato tirato via era l’intestino.

Morì dopo una settimana di alterne vicende legate a uno shock settico che andava avanti e indietro senza risolversi mai definitivamente.

Per inciso era una Rom.

Io sono diventato non obiettore così. Io non ho avuto modo di fare equilibrismi intellettuali. Io ho dovuto scegliere se stare dalla parte del Sistema Sanitario Nazionale o della mia coscienza che, detto tra noi, all’epoca nemmeno se l’era posto il problema.

Ho scelto. Sono diventato abortista. Anestesista abortista. Ospedaliero. Dopo non è stato facile. E c’è stato un momento in cui ho dubitato della mia scelta. Come al solito ci si sente un po’ male quando troppo è troppo.

Poi le statistiche dicono oggi che il tasso di abortività nel nostro Paese si è ridotto significativamente.   Sono contento perché se io e tutti quelli che come me hanno continuato in quegli anni non avessero tento duro, quel tasso di abortività sarebbe rimasto confinato ai tavoli da cucina delle mammane. Anche a questo abbiamo posto rimedio. Non abbiamo completamente risolto. No. Ma quella roba che ho visto io la notte del 13 agosto del 1980 oggi mi piace credere che nessun medico la veda più.

Questo è ciò che conta per me.

Io ho scelto di fare il medico.

Folfox4

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Jogging

Scritto da Gio il 20 febbraio, 2017
emozioni / 1 Commento
foto di NC

foto di NC

 

Corro.

Jogging pigro di una fredda mattina di febbraio. Aria umida nelle narici. Gambe pesanti, corpo intorpidito dal lungo inverno. Mentre ascolto il ritmo affannato del mio respiro, la mente divaga

E mi viene in mente lui.

Jack.

8 anni, un’intelligenza fuori dal comune.

Ragazzino educato, vispo, curioso.

Si era accorto che qualcosa non andava perchè d’imporvviso gli è mancato il fiato e non riusciva più a tenere il ritmo nel fare jogging con suo padre nel weekend.

Linfoma di Burkitt.

Massa addominale enorme, lisi tumorale da manuale in induzione.

Remissione completa ma ricaduta immediata.

A trapianto.

Buon donatore, buone condizioni cliniche, si va. Ma si arriva al condizionamento senza una remissione completa e si sa che le possibilità sono poche. Lo sappiamo noi, lo sanno i genitori e soprattutto lo sa lui, troppo intelligente per non capire.

E ci insegna.

Mentre noi ci diamo da fare nel provare ogni terapia post trapianto che possa mantenere quello straccio di remissione ottenuta a fatica, mentre i genitori ci chiedono di riferirlo per questa o quella terapia innovativa in questo o quel centro specialistico, lui invita il suo dottore preferito a raggiungerlo in camera, alla fine del turno, per giocare una mano a carte.

Jack filosofo, Jack più saggio dei suoi 8 anni, Jack che non parla più molto, non chiede, ma batte il suo dottore a carte, troppo educato per dirgli altrimenti che la partita è persa.

Corro e ti penso Jack, e so che avresti apprezzato la vita che scorre nel jogging al freddo di una mattina di febbraio.

 

Gio

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